Re: Carovana 2010 in Bosnia-Erzegovina




Il giorno 15/lug/10, alle ore 14:54, Luca Bigolin ha scritto:

Io passo a Srebrenica, tu vieni a trovarmi??


Il manifesto 13.7.2010 p. 3

La guerra dei mausolei

Srebrenica 1995, un'occasione persa di riconciliazione la celebrazione del 15° anniversario dell'eccidio
di Tommaso Di Francesco

Domenica scorsa è stato il 15° anniversario della strage di Srebrenica, quando l'11 luglio del 1995 le milizie serbo- bosniache guidate dal generale Ratko Mladic uccisero migliaia di musulmani di Bosnia. Poteva essere una svolta, non solo per l'acquisizione di settecento corpi estratti da nuove fosse comuni dolorosamente aggiunti ai 3.700 nomi del mausoleo musulmano di Potocari; e nemmeno per la presenza di autorità internazionali. Poteva essere, 15 anni dopo, un giorno di riconciliazione visto che la guerra finì nel novembre 1995 con gli accordi di Dayton. Un'occasione per riflettere sull'ignominia di quel conflitto, sulle molte responsabilità, locali e internazionali, di quelle stragi. Poteva essere un'occasione «sudafricana», non parliamo dei mondiali di calcio, ma della Commissione di verità e giustizia che dopo la vittoria dell'Anc impose indagini e processi sia per i vinti (i razzisti bianchi) che per i vincitori (i neri finalmente liberi). Ma purtroppo, nella Bosnia in miseria dove tutti hanno perso la guerra tranne le mafie, si è trattato di una commemorazione balcanica, inscritta in una strategia celebrativa. Mirata in particolare a rimuovere la legittimità della Repubblica serba di Bosnia - non a caso assente dalle celebrazioni come il presidente serbo della presidenza tripartita -, una delle due entità con la Federazione croato musulmana nate dalla pace di Dayton. Da tempo parte della comunità internazionale, Ue e Usa, insistono a unificare forzatamente le due Bosnie. Del resto, dicono quegli osservatori impegnati strenuamente a sostenere le guerre umanitarie (che fanno 3.500 vittime civili di serie C, come quella dei raid Nato del 1999): se la celebrazione di Srebrenica indica che i criminali di guerra sono solo e soltanto i serbi, perché confermare la legittimità di quella Repubblica fondata sul sangue? 
Era questo il tono della presenza musulmana, della manifestazione dei «marciatori», questo il senso dei fischi assordanti lanciati contro la presenza del presidente serbo Boris Tadic, pure fautore a marzo di un risoluzione di condanna del parlamento serbo per la strage di Srebrenica, che ha lanciato un inascoltato appello alla «riconciliazione di quanti componevano un solo paese». Come la presenza del premier turco Erdogan - umanitario fuori casa - che, inviso all'Europa, ora s'allarga smemorato nei Balcani.
Ma a confermare che, dopo 15 anni, nulla deve cambiare nel giudizio sulle responsabilità nei Balcani, è arrivato il commento di Adriano Sofri su la Repubblica. Una summa di banalizzazioni. Per Sofri il massacro di Srebrenica è come l'Olocausto, Milosevic come Hitler, i «volenterosi carnefici e la gente comune» sono i serbi, come i vicini di casa del nazismo; ecco il serbismo-nazionalsocialismo, e la comunità internazionale come con Auschwitz «quando diceva di non sapere». Un delirio revisionista-razzista, per un popolo come i serbi che ha patito una politica di sterminio da parte dei nazisti (senza dimenticare il seguito del nazismo invece tra i musulmani di Bosnia). A meno che non si voglia far ricadere le colpe dei figli sui padri, per cui i giovani serbi sarebbero tanti piccoli ratkomladic - come i tonybler che nascono «riconoscenti» in Kosovo -, e la Serbia di Tadic, Jeremic e anche Kostunica inesorabilmente eguale a quella di Milosevic. Eppure perfino la Corte di giustizia dell'Aja nel 2007 ha negato la responsabilità nella strage dello stesso Milosevic. 
Di questo gioco al «massacro» è chiaro solo che è stata per l'ennesima volta persa l'occasione di una giustizia condivisa - parola spesso ambigua, ma stavolta giusta, perché ricerca le colpe di tutti e «segna col nome tutte le vittime», come fa Mirsad Tokaca presidente del Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo. Il fatto è che non può essere confuso col negazionismo l'argomento che la strage di Srebrenica non è l'Olocausto: sarebbe ancora una banalizzazione di una tragedia assoluta, dello sterminio pianificato di un'intero popolo, di un'intera razza. «Ma non è l'Olocausto» ha scritto David Grossman per respingere una tesi simile sulle responsabilità dei serbi verso gli albanesi del Kosovo, perché «le catastrofi non possono essere confrontate» e «ogni confronto è ingiusto verso entrambe le tragedie». E non è solo per il numero - 7 o 8mila musulmani uccisi a confronto dei sei milioni di ebrei e dei due milioni di zingari e rom - che le due tragedie sono imparagonabili. È che, sempre citando le parole di Grossman, la logica delle uccisioni di Srebrenica (dove, è crudele rilevarlo ma è vero, donne, bambini e anziani vennero salvati), non è quella dello sterminio di una razza intera. Oltre a Srebrenica caddero altre città, come Zepa, in eguale condizione di enclave protetta dall'Onu e in realtà avamposto armato di milizie musulmano bosniache, e non accadde nessun eccidio. 
Perché, dunque, si consumò quel massacro? Perché da Srebrenica erano partite nei mesi precedenti offensive contro i villaggi serbi della valle della Drina, tra Bratunac e Srebrenica, con stragi efferate di quattromila serbi, 1300 dei quali civili, donne, bambini e vecchi. Non è una spiegazione-giustificazione, è la storia perversa di una delle troppe vendette incrociate delle guerre balcaniche, verificate sul campo nel 1995 da chi non si accontentava della narrazione di Sarajevo, e ora raccontate da fonti anche musulmane. Come dimenticare poi che Srebrenica venne improvvisamente abbandonata al suo destino almeno un mese prima dalla leadership di Sarajevo di Alja Izetbegovic e addirittura dal suo comandante, Naser Oric. Che, se Ratko Mladic va al più presto consegnato all'Aja perché criminale di guerra, Naser Oric responsabile di stragi lungo la Drina e che riceveva l'inviato del Washington Post mostrando filmati dove i «suoi» decapitavano serbi, che cos'è e in quale carcere dovrebbe finire? 
Non è l'Olocausto perché, in Bosnia Erzegovina, dove sono 400 i cimiteri di guerra, non basta la bandiera verde islamica a coprire le bare di tutte le altre vittime, serbe e croate, che qualcuno deve pur aver ucciso. Perché dunque non si solleva anche il velo sui crimini commessi contro i serbi di Bosnia, non lasciando così che questo pericoloso vittimismo si sostanzi sempre di più, mentre già erigono, a Kravica, il loro mausoleo? Perché le stragi contro i serbi sono state cancellate da un nuovo occidentale negazionismo - questo sì - desideroso di solidarietà verso i musulmani a patto che non siano palestinesi? È quello che chiedono i serbi di Bosnia guidati dal democratico Milorad Dodik - nemico giurato di Karadzic e Mladic - non certo gli ultranazionalisti dell'Sds che proprio l'11 luglio hanno avuto la vergognosa idea di concedere a Karadzic una medaglia d'onore. E tornano forti ancora tre domande: che fine hanno fatto i quattromila serbi di Sarajevo scomparsi nell'assedio della città e finiti in gran parte nelle gole di Kazanj? Quale la sorte dei prigionieri serbi rinchiusi nelle carceri-silos di Tarcin e Celebici vicino Sarajevo? Chi verrà mai punito per i massacri commessi dai mujaheddin, quei cinquemila combattenti della Jihad islamica arrivati in Bosnia dall'Afghanistan e dai paesi islamici - c'era anche Osama bin Laden - anche grazie ad un accordo tra Clinton, Iran e Arabia Saudita, come dimostrò l'indagine «Bosniagate» del Senato Usa?
Ha dunque ragione Andrea Zanzotto, che è anche il poeta del disvelamento dei mausolei, a scrivere: «Siamo ridotti a così maligne ore/ da chiedere implorare/ il ritorno della morte/ come male minore»?