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Kosovo, il luogo del silenzio
- Subject: Kosovo, il luogo del silenzio
- From: Francesco Lauria <francescollauria at yahoo.it>
- Date: Sat, 25 Dec 2004 20:32:21 +0100 (CET)
Europa Plurale - Per un federalismo globale http://europaplurale.org ****************************************************** Kosovo, il luogo del silenzio 1. Un articolo di C. Grassi, da Liberazione 2. Un intervento di Uberto Tommasi === 1 === http://www.liberazione.it/giornale/041223/archdef.asp da Liberazione del 23 dicembre 2004 Kosovo, il luogo del silenzio Intolleranza, xenofobia, uranio impoverito: la situazione a quattro anni dalla guerra che tutti considerarono allora un intervento umanitario. "Kosovo. Buco nero d'Europa", di Uberto Tommasi e Mariella Cataldo, ritorna sull'argomento Era la primavera del 1999, quando la Nato lanciava bombe e proiettili all'uranio impoverito su tutto il territorio di quella che si chiamava ancora Repubblica Federale Jugoslava. Si trattava, come dissero i leader al governo, da D'Alema a Schröder, di un "intervento umanitario" per impedire il genocidio dei kosovaro-albanesi. Solo un anno dopo, nel marzo 2000, un documentato dossier curato da Serge Halimi e Dominique Vidal su "Le monde diplomatique", dimostrò come non era vero che ci fosse in atto una catastrofe umanitaria. A conferma di ciò, nelle settimane scorse, è uscito un libro (Kosovo. Buco nero d'Europa, Edizioni Achab, euro 11) di Uberto Tommasi e Mariella Cataldo. E' una lettura che consigliamo, oltre a tutti i pacifisti, anche a Massimo D'Alema e a quanti assieme a lui continuano a ritenere quella guerra un intervento umanitario. Come spiega l'attenta prefazione di Andrea Catone, la guerra contro la Serbia, fortemente voluta dai tedeschi e dall'amministrazione Clinton, era funzionale allo sviluppo e al controllo dei corridoi energetici e delle risorse minerarie come la lignite, ricchezza primaria del Kosovo. Così come è servita agli Usa per piazzare la più grande base militare d'Europa: Camp Bundsteel, capace di ospitare cinquantamila militari, con 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere di cemento, 84 chilometri di filo spinato. Di tutto questo i mass media non se ne occuparono. Hanno deciso di tacere anche sul fatto che in questi cinque anni, con l'avallo dell'Onu, si sono consumati i più efferati delitti e una pulizia etnica radicale e violenta contro serbi e rom. Di più: i grandi mezzi di comunicazione hanno cercato in ogni modo di fare dimenticare questa «ferita aperta nel cuore dell'Europa», per far sì che non venissero mai a cadere quelle motivazioni che avevano promosso e giustificato la guerra. Oggi più che mai invece, il Kosovo rappresenta appieno la menzogna che si celava dietro l'intervento umanitario: «Oggi il Kosovo è il luogo del silenzio». Il libro di Uberto Tommasi e Mariella Cataldo cerca di inserirsi all'interno di questa brutale indifferenza che si è perpetuata nel tempo, per sconfiggerla. Kosovo, Buco nero d'Europa è il disperato tentativo di rompere il silenzio che ha circondato questa regione, è l'esigenza di far sentire la voce di chi - da una parte o dall'altra - è riuscito a sopravvivere. Uberto Tommasi - che era già stato in questa terra nel luglio del 1999 - decide di tornarci dopo i fatti del 17 marzo del 2004, cioè dopo un pogrom in piena regola durato tre giorni, durante il quale nel Kosovo furono uccisi 31 serbi. Pur in mezzo a numerose difficoltà, tante sono le testimonianze raccolte e ognuna meriterebbe di essere raccontata e commentata. Dall'incontro a Prizren con Selim e Ilaz, due intellettuali moderati; alla dissertazione sulla spiegazione del pogrom di marzo fatta da un giovane americano, sentita in un caffè. O ancora dalla visita a don Shan Zefi, un prete che sta dando vita alla costruzione di una chiesa dedicata a Madre Teresa di Calcutta a Pristina; alla chiacchierata con Bajran un tecnico dei telefoni, partito volontario dalla Germania per il Kosovo nel 1999, che racconta con sgomento l'ordine di cantare impartito dal suo ufficiale per coprire le urla di un paio di civili serbi catturati. Ma di tutte le interviste fatte, due più di tutte meritano di essere riportate per l'immenso disagio che raccontano. L'incontro con Etem, un giovane filosofo contadino che lo invita nella propria casa (e che lo aiuterà anche a scappare, una volta che il giornalista verrà scoperto da alcuni ex combattenti dell'UÇK) che, interrogato su Tito, in maniera disarmante risponde: «Un giorno la gente capirà quello che era stato il vero testamento di Tito, che aveva diviso ricchezze e risorse fra gli stati jugoslavi, per obbligarli a rimanere uniti», «… ognuno poteva professare il suo credo religioso in chiesa o in moschea, ma i preti non dovevano fare propaganda pubblica. I nazionalismi erano schiacciati». E l'altra invece che fa riferimento ai danni provocati alla popolazione locale dall'uranio impoverito contenuto nei proiettili che avevano colpito il luogo. L'unico dottore disposto a parlare, con la garanzia di un anonimato assoluto, racconta come qui i medici si trovino a sfilare i linfonodi di Hodgkin come fossero tonsille. Mancando l'informazione, la gente si accorge di stare male con forte ritardo rendendo così la malattia inguaribile. La sola precauzione che il personale medico può dare è quella di raccomandare a tutti di non bere l'acqua dei rubinetti, ma purtroppo la maggior parte della popolazione non ha abbastanza soldi per acquistare quella minerale. Una condanna a morte in piena regola, un prolungamento degli effetti della guerra che continua a colpire i civili innocenti. Mariella Cataldo fa un viaggio invece nel mondo dei "vinti". E' una insegnante volontaria della Most za Beograd, un'associazione culturale che ha avviato una campagna di solidarietà, attraverso l'adozione a distanza dei figli dei lavoratori della Zastava di Kragujevac e attraverso il sostegno ai profughi serbi delle Krajne, della Bosnia, del Kosovo che ha subito dal 1999 pesantissime violenze che hanno ridotto la presenza serba dal 90% all'1,5%. E' un viaggio che alterna incontri ufficiali a momenti di vita familiare che, messi insieme, danno un quadro dettagliato di che cosa è oggi il Kosovo. Nenad Koijæ, presidente dell'Unione delle municipalità serbe, da lei contattato, mette da parte i commenti istituzionali e, approfittando della presenza di amici italiani, sfoga le frustrazioni di chi si ritrova ad amministrare qualcosa che sta scomparendo. Soprattutto dopo i terribili avvenimenti di marzo, crescono i dubbi sul fatto che la minoranza serba in Kosovo possa sopravvivere. Secondo la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, le Nazioni Unite avrebbero dovuto sviluppare in Kosovo istituzioni di autogoverno democratico provvisorio per assicurare condizioni di vita pacifica e normale per tutti gli abitanti. Ma ciò - racconta Nenad - non è mai avvenuto. L'intolleranza nazionalista dimostrata dalla maggioranza della popolazione albanese invece di scomparire è aumentata, a dimostrazione che il quadro istituzionale sinora adottato per il Kosovo non è stato in grado di preservare la pace e difendere i diritti umani. Perciò secondo Nenad Koijæ l'unica soluzione è dotare i serbi e le altre etnie non albanesi di autonomia territoriale. Il principio della "autonomia nell'autonomia" (cioè l'autonomia delle comunità serbe e non albanesi nella provincia autonoma del Kosovo) non significherebbe rinunciare a una società multietnica e multiculturale, ma diventerebbe la sola via per renderla possibile. Eppure questo piano incontra forti resistenze. Gli americani e gli inglesi non vogliono i "cantoni", tanto meno gli albanesi - tutti i partiti politici albanesi, da Rugova a Thaçi - che vedono in essi la minaccia di frantumare il Kosovo. Anche per l'Europa è così. Intanto il Kosovo, con l'andare del tempo, sta diventando sempre di più il crocevia di droga, prostituzione, mafia. Nonostante tutto, qui non si perde la speranza, la testimonianza ci è data dai volti delle bambine, che Mariella Cataldo descrive benissimo a tal punto che ci sembra di vederle, di sentire le loro risate che ci obbligano a non dimenticare quanto sia terribile la guerra, ma anche che il futuro appartiene alla pace. Claudio Grassi === 2 === Zociste (Orahovac) – Kosovo Il monastero ortodosso Zociste, dedicato ai santi medici Cosma e Damiano, è molto antico. Nel 1999, alla fine della guerra, era stato incendiato da una banda di estremisti albanesi e nel marzo di quest’anno era stato fatto saltare con l’esplosivo. “Questo autunno” racconta Padre Petar, Igumano del monastero “Tre monaci erano ritornati nel luogo, sistemandosi in tende provvisorie, ed avevano ricostruito tre celle. Ultimamente avevano cominciato a sistemare una stanza per il bagno ed a rifare il tetto del refettorio quando, il 15 dicembre, un generale austriaco della KFOR, era intervenuto obbligandoli a demolire il bagno, asserendo che la costruzione aveva fatto innervosire gli albanesi che avevano lanciato un ultimatum.” Artemie il vescovo responsabile per il Kosovo dice di non comprendere i soldati austriaci della KFOR che a Marzo non avevano fatto nulla per impedire la distruzione del monastero e che ora si piegano al volere degli albanesi. L’episodio, secondo i serbi, è molto più grave dell’incendio del monastero, un crimine dettato dall’odio provocato ad arte ed esecrato dall’opinione della comunità internazionale, in quanto legittima il diritto dei terroristi a distruggere quanto rimane del patrimonio artistico ortodosso. Uberto Tommasi 24/12/2004 ___________________________________ Nuovo Yahoo! 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