Kosovo, il luogo del silenzio



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Kosovo, il luogo del silenzio

1. Un articolo di C. Grassi, da Liberazione
2. Un intervento di Uberto Tommasi


=== 1 ===

http://www.liberazione.it/giornale/041223/archdef.asp

da Liberazione del 23 dicembre 2004

Kosovo, il luogo del silenzio

Intolleranza, xenofobia, uranio impoverito: la
situazione a quattro 
anni dalla guerra che tutti considerarono allora un
intervento 
umanitario. "Kosovo. Buco nero d'Europa", di Uberto
Tommasi e Mariella 
Cataldo, ritorna sull'argomento


Era la primavera del 1999, quando la Nato lanciava
bombe e proiettili 
all'uranio impoverito su tutto il territorio di quella
che si chiamava 
ancora Repubblica Federale Jugoslava. Si trattava,
come dissero i 
leader al governo, da D'Alema a Schröder, di un
"intervento umanitario" 
per impedire il genocidio dei kosovaro-albanesi.

Solo un anno dopo, nel marzo 2000, un documentato
dossier curato da 
Serge Halimi e Dominique Vidal su "Le monde
diplomatique", dimostrò 
come non era vero che ci fosse in atto una catastrofe
umanitaria. A 
conferma di ciò, nelle settimane scorse, è uscito un
libro (Kosovo. 
Buco nero d'Europa, Edizioni Achab, euro 11) di Uberto
Tommasi e 
Mariella Cataldo. E' una lettura che consigliamo,
oltre a tutti i 
pacifisti, anche a Massimo D'Alema e a quanti assieme
a lui continuano 
a ritenere quella guerra un intervento umanitario.

Come spiega l'attenta prefazione di Andrea Catone, la
guerra contro la 
Serbia, fortemente voluta dai tedeschi e
dall'amministrazione Clinton, 
era funzionale allo sviluppo e al controllo dei
corridoi energetici e 
delle risorse minerarie come la lignite, ricchezza
primaria del Kosovo. 
Così come è servita agli Usa per piazzare la più
grande base militare 
d'Europa: Camp Bundsteel, capace di ospitare
cinquantamila militari, 
con 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14
chilometri di barriere di 
cemento, 84 chilometri di filo spinato.

Di tutto questo i mass media non se ne occuparono.
Hanno deciso di 
tacere anche sul fatto che in questi cinque anni, con
l'avallo 
dell'Onu, si sono consumati i più efferati delitti e
una pulizia etnica 
radicale e violenta contro serbi e rom. Di più: i
grandi mezzi di 
comunicazione hanno cercato in ogni modo di fare
dimenticare questa 
«ferita aperta nel cuore dell'Europa», per far sì che
non venissero mai 
a cadere quelle motivazioni che avevano promosso e
giustificato la 
guerra.

Oggi più che mai invece, il Kosovo rappresenta appieno
la menzogna che 
si celava dietro l'intervento umanitario: «Oggi il
Kosovo è il luogo 
del silenzio».

Il libro di Uberto Tommasi e Mariella Cataldo cerca di
inserirsi 
all'interno di questa brutale indifferenza che si è
perpetuata nel 
tempo, per sconfiggerla. Kosovo, Buco nero d'Europa è
il disperato 
tentativo di rompere il silenzio che ha circondato
questa regione, è 
l'esigenza di far sentire la voce di chi - da una
parte o dall'altra - 
è riuscito a sopravvivere.

Uberto Tommasi - che era già stato in questa terra nel
luglio del 1999 
- decide di tornarci dopo i fatti del 17 marzo del
2004, cioè dopo un 
pogrom in piena regola durato tre giorni, durante il
quale nel Kosovo 
furono uccisi 31 serbi.

Pur in mezzo a numerose difficoltà, tante sono le
testimonianze 
raccolte e ognuna meriterebbe di essere raccontata e
commentata. 
Dall'incontro a Prizren con Selim e Ilaz, due
intellettuali moderati; 
alla dissertazione sulla spiegazione del pogrom di
marzo fatta da un 
giovane americano, sentita in un caffè. O ancora dalla
visita a don 
Shan Zefi, un prete che sta dando vita alla
costruzione di una chiesa 
dedicata a Madre Teresa di Calcutta a Pristina; alla
chiacchierata con 
Bajran un tecnico dei telefoni, partito volontario
dalla Germania per 
il Kosovo nel 1999, che racconta con sgomento l'ordine
di cantare 
impartito dal suo ufficiale per coprire le urla di un
paio di civili 
serbi catturati.

Ma di tutte le interviste fatte, due più di tutte
meritano di essere 
riportate per l'immenso disagio che raccontano.

L'incontro con Etem, un giovane filosofo contadino che
lo invita nella 
propria casa (e che lo aiuterà anche a scappare, una
volta che il 
giornalista verrà scoperto da alcuni ex combattenti
dell'UÇK) che, 
interrogato su Tito, in maniera disarmante risponde:
«Un giorno la 
gente capirà quello che era stato il vero testamento
di Tito, che aveva 
diviso ricchezze e risorse fra gli stati jugoslavi,
per obbligarli a 
rimanere uniti», «… ognuno poteva professare il suo
credo religioso in 
chiesa o in moschea, ma i preti non dovevano fare
propaganda pubblica. 
I nazionalismi erano schiacciati». E l'altra invece
che fa riferimento 
ai danni provocati alla popolazione locale dall'uranio
impoverito 
contenuto nei proiettili che avevano colpito il luogo.
L'unico dottore 
disposto a parlare, con la garanzia di un anonimato
assoluto, racconta 
come qui i medici si trovino a sfilare i linfonodi di
Hodgkin come 
fossero tonsille. Mancando l'informazione, la gente si
accorge di stare 
male con forte ritardo rendendo così la malattia
inguaribile. La sola 
precauzione che il personale medico può dare è quella
di raccomandare a 
tutti di non bere l'acqua dei rubinetti, ma purtroppo
la maggior parte 
della popolazione non ha abbastanza soldi per
acquistare quella 
minerale. Una condanna a morte in piena regola, un
prolungamento degli 
effetti della guerra che continua a colpire i civili
innocenti.

Mariella Cataldo fa un viaggio invece nel mondo dei
"vinti". E' una 
insegnante volontaria della Most za Beograd,
un'associazione culturale 
che ha avviato una campagna di solidarietà, attraverso
l'adozione a 
distanza dei figli dei lavoratori della Zastava di
Kragujevac e 
attraverso il sostegno ai profughi serbi delle Krajne,
della Bosnia, 
del Kosovo che ha subito dal 1999 pesantissime
violenze che hanno 
ridotto la presenza serba dal 90% all'1,5%.

E' un viaggio che alterna incontri ufficiali a momenti
di vita 
familiare che, messi insieme, danno un quadro
dettagliato di che cosa è 
oggi il Kosovo.

Nenad Koijæ, presidente dell'Unione delle municipalità
serbe, da lei 
contattato, mette da parte i commenti istituzionali e,
approfittando 
della presenza di amici italiani, sfoga le
frustrazioni di chi si 
ritrova ad amministrare qualcosa che sta scomparendo.
Soprattutto dopo 
i terribili avvenimenti di marzo, crescono i dubbi sul
fatto che la 
minoranza serba in Kosovo possa sopravvivere. Secondo
la risoluzione 
1244 del 10 giugno 1999, le Nazioni Unite avrebbero
dovuto sviluppare 
in Kosovo istituzioni di autogoverno democratico
provvisorio per 
assicurare condizioni di vita pacifica e normale per
tutti gli 
abitanti. Ma ciò - racconta Nenad - non è mai
avvenuto. L'intolleranza 
nazionalista dimostrata dalla maggioranza della
popolazione albanese 
invece di scomparire è aumentata, a dimostrazione che
il quadro 
istituzionale sinora adottato per il Kosovo non è
stato in grado di 
preservare la pace e difendere i diritti umani. Perciò
secondo Nenad 
Koijæ l'unica soluzione è dotare i serbi e le altre
etnie non albanesi 
di autonomia territoriale. Il principio della
"autonomia 
nell'autonomia" (cioè l'autonomia delle comunità serbe
e non albanesi 
nella provincia autonoma del Kosovo) non
significherebbe rinunciare a 
una società multietnica e multiculturale, ma
diventerebbe la sola via 
per renderla possibile. Eppure questo piano incontra
forti resistenze. 
Gli americani e gli inglesi non vogliono i "cantoni",
tanto meno gli 
albanesi - tutti i partiti politici albanesi, da
Rugova a Thaçi - che 
vedono in essi la minaccia di frantumare il Kosovo.
Anche per l'Europa 
è così.

Intanto il Kosovo, con l'andare del tempo, sta
diventando sempre di più 
il crocevia di droga, prostituzione, mafia.

Nonostante tutto, qui non si perde la speranza, la
testimonianza ci è 
data dai volti delle bambine, che Mariella Cataldo
descrive benissimo a 
tal punto che ci sembra di vederle, di sentire le loro
risate che ci 
obbligano a non dimenticare quanto sia terribile la
guerra, ma anche 
che il futuro appartiene alla pace.

Claudio Grassi


=== 2 ===

Zociste (Orahovac) – Kosovo

Il monastero ortodosso Zociste, dedicato ai santi
medici Cosma e 
Damiano, è molto antico.

Nel 1999, alla fine della guerra, era stato incendiato
da una banda di 
estremisti albanesi e nel marzo di quest’anno era
stato fatto saltare 
con l’esplosivo. “Questo autunno” racconta Padre
Petar, Igumano del 
monastero “Tre monaci erano ritornati nel luogo,
sistemandosi in tende 
provvisorie, ed avevano ricostruito tre celle.
Ultimamente avevano 
cominciato a sistemare una stanza per il bagno ed a
rifare il tetto del 
refettorio quando, il 15 dicembre, un generale
austriaco della KFOR, 
era intervenuto obbligandoli a demolire il bagno,
asserendo che la 
costruzione aveva fatto innervosire gli albanesi che
avevano lanciato 
un ultimatum.”

Artemie il vescovo responsabile per il Kosovo dice di
non comprendere i 
soldati austriaci della KFOR che a Marzo non avevano
fatto nulla per 
impedire la distruzione del monastero e che ora si
piegano al volere 
degli albanesi. L’episodio, secondo i serbi, è molto
più grave 
dell’incendio del monastero, un crimine dettato
dall’odio provocato ad 
arte ed esecrato dall’opinione della comunità
internazionale, in quanto 
legittima il diritto dei terroristi a distruggere
quanto rimane del 
patrimonio artistico ortodosso.  

Uberto Tommasi
24/12/2004




		
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