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Il caso Zastava -- Re: The end of Yugo, the last Yugoslavian car
- Subject: Il caso Zastava -- Re: The end of Yugo, the last Yugoslavian car
- From: andrea <andreamartocchia at libero.it>
- Date: Thu, 12 Feb 2004 14:59:55 +0100
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/files/CONVEGNOTRIESTE/ Trieste / Trst, 16 novembre 2002, Convegno: "...PASSANDO SEMPRE PER LA JUGOSLAVIA..." INTERVENTO DI LINO ANELLI (CGIL Lombardia) Il caso Zastava Parliamo di Zastava ma in realta' la Zastava può essere un buon pretestoper parlare della Jugoslavia e delle condizioni attuali della sua classe operaia
e dei suoi sindacati, delle politiche economiche con cui il nuovo poteresta oggi cercando di imporre a questi soggetti sociali più pesanti livelli di
subordinzione per sostenere le esigenze di quell'interesse conomico e di mercato che sta oggi occupando, tramite la guerra, quel territorio.La storia della Zastava, la situazione, le contraddizioni che attorno al caso Zastava si stanno sviluppando, per certi versi intersecano gran parte delle cose che avete sentito nelle precedenti comunicazioni. Perche' la Zastava e' un soggetto sociale, e' uno snodo di diverse contraddizioni - politiche,
sindacali ed economiche. Noi cerchiamo di capire come relazionarci con una situazione (la disgregazione della Jugoslavia) che, come diceva anche l'intervento di Kapuralin, sembra non avere spiegazione, sembra illogica, anche seillogica non e', perche' per tutti i processi storici, per tutte le cose che
avvengono esistono delle cause, ed esistono percorsi che ne hanno determinato lo sviluppo. Non tocca a me sviluppare questa analisi, giàpresente nelle comunicazioni precedenti, e su come l'interesse occidentale
ha lavorato coscientemente per produrre in modo coercitivo la disgregazione di una esperienza che, per il modello che rappresentava, non rientrava (era quindi da ostacolo) nel tipo di egemonia e controllo economico, politico e territoriale a cui l'Occidente guarda tutt'ora. Siamo entrati in contatto con la Zastava gia' durante i bombardamenti mentre in Italia cercava di svilupparsi, con una evidente debolezza sopratutto dentro ai sindacati, un movimento "contro la guerra". Debole,perche' in quel momento sono mancate le tradizionali sponde istituzionali,
politiche e sindacali . E' mancata una opposizione alla guerra da partedelle forze di sinistra che anzi si sono lasciate immischiare in una guerra assurda, giustificandola in nome di una "razionalità" e di un "pragmatismo" con cui in molti hanno creduto di potersi accreditare tra i patner fiduciari
nel nuovo ordine mondiale.Allora c'era in carica il governo D'Alema, sostenuto anche dai Verdi e dal
PdCI. La preoccupazione principale era difendere il Governo e ciò hairrigidito i comportamenti del centro sinistra e degli stessi sindacati. In
difesa del Governo di centro sinistra si sono sprecate le azioni tese acondizionare lo sviluppo di una critica organizzata alla guerra. Si è sostenuta
una colpevole campagna di disinformazione con cui si è cercato digiustificare l'ineluttabilità della guerra, fino a cercare di criminalizzare
l'opinione di chi, non condividendo tutto ciò, cercava di contrastare questa politica. E' anche da ciò che si può spiegare la debolezza del movimento contro la guerra, soprattutto dentro il sindacato, tra i lavoratori. Ha pesato nonpoco il controllo, la disinformazione degli apparati sindacali sostanzialmente organizzati dietro alla posizione della "dolorosa ma contingente necessita'", che altro non era se non la giustificazione delle scelte del governo di centro-
sinistra. Governo che comunque "andava sostenuto", che comunque "andavadifeso" o perlomeno "compreso" nella difficile e complicata situazione in cui
si trovava. Quindi un movimento contro la guerra debole, che pero' e' riuscito in qualche modo a muoversi, anche se non ha avuto la capacita' aggregativa che invece avrebbe potuto o dovuto avere.Ecco: noi in quel frangente - subito dopo l'aprile 1999, ossia subito dopo
che i missili Cruise hanno distrutto la fabbrica della Zastava - abbiamocominciato a cercare rapporti con questi lavoratori. A dire il vero ci hanno anche cercato loro. Essi stessi sono stati promotori di una iniziativa tesa a
cercare la solidarieta' del mondo sindacale europeo, contattando anche i tedeschi, i francesi, perche' dal mondo del lavoro venisse un messaggio che manifestasse un chiaro rifiuto della guerra e perlomeno forme disolidarieta' concrete, capaci di sostenere i lavoratori jugoslavi in quel difficile impegno che era il dopoguerra e la necessità di dare risposte ad
un rischio di disgregazione sociale a cui il mondo del lavoro jugoslavo andava incontro.Accanto all'assurdità della guerra ed alla conoscenza delle sue immediate conseguenze, il confronto con i lavoratori della Zastava si è quindi subito
spostato anche sul dopoguerra ossia sul fatto che questa guerra avrebbeavuto sicuramente una azione disgregatrice del tessuto sociale. Coscienti che senza la sopravvivenza o la difesa di un soggetto sociale forte, come
potevano essere i lavoratori, il dopoguerra sarebbe stato altrettanto catastrofico quanto la guerra stessa. Abbiamo quindi avviato rapporti con questi lavoratori partendo dalla necessità di produrre una adeguata conoscenza della situazione in modo da contrastare la forte disinformazione che attorno a questa guerra era stata costruita, nel tentativo di costruire un percorso di conoscenza e di comprensione su quanto stava veramente avvenendo. Era questo un passaggio fondamentale anche per sostenere la proposta di un vasto impegno solidale del mondo del lavoro italiano verso questi lavoratori.Siamo quindi partiti dalla fabbrica, dal fatto che questa guerra umanitaria si era in realtà smascherata per quello che era. Siamo partiti dai dati sulla distruzione delle fabbriche, delle scuole, delle strutture sanitarie ecc. ad
opera dei bombardamenti della NATO, sulle centinaia di migliaia dilavoratori che hanno perduto il loro posto di lavoro, il reddito, ogni tutela
previdenziale, sociale e sanitaria. Per questo la prima azione decisa assieme è stata quella di organizzarein tutta Italia una serie di riunioni, di assemblee con i lavoratori nelle fabbriche, che ha coinvolto diversi territori dal Sud al Nord, portando in
Italia una delegazione di lavoratori della Zastava. Questa controinformazione, questa loro presenza in Italia e' sicuramente stata utile perche' ha aperto concretamente delle contraddizioni in quel muro di gomma che si era formato intorno alla questione della guerra. Tanto e' vero che diverse strutture sindacali, di fronte ad un confrontodiretto con le contraddizioni e con le problematiche che questi lavoratori
ponevano, hanno messo in discussione un po' da subito la posizionedella "contingente necessita'". Mi riferisco non solo alla sinistra sindacale,
che pur con le sue articolazioni, con le sue contraddizioni interne, comunque si era espressa contro la guerra, ma anche alle strutture sindacali nel loro complesso, soprattutto della Cgil. E' bene ricordare che la CGIL Lombardia, la CGIL di Brescia in modo particolare, che non e' una struttura da poco, si e' schierata da subitocontro la guerra. E che sulle varie iniziative di solidarieta' successive che
si sono poi determinate altre strutture della CGIL, compresa la CGIL di Trieste, hanno avuto occasione di muoversi in controtendenza rispetto ad una struttura nazionale che - lo posso assicurare - e' statapesantissima all'interno, verso le proprie strutture, contro ed in polemica
con quelle posizioni che considerava cedimenti rispetto ad una linea nazionale. Voglio solo ricordare che il segretario generale della CGIL Lombardia, Agostinelli, e' stato dimissionato con la forza dalla CGIL nazionale, tra le altre cose anche perchè ha immediatamente criticato le posizioni nazionali sulla guerra, sostenendo e promuovendo mobilitazioni in questo senso. In una lettera in cui lo si accusava di inadeguatezza rispetto ai compiti di rappresentanza della linea della CGIL nazionale in Lombardia gli veniva imputata, oltre la sua posizionesulla guerra, anche il rapporto diretto che aveva costruito con i lavoratori
della Zastava. Ciononostante, grazie a queste contraddizioni, e soprattutto grazie alla coscienza che era importante - durante e dopo la guerra - lavoraresulla soggettivita' sociale piu' rilevante, quella con la quale i sindacati
avrebbero dovuto confrontarsi direttamente ossia il mondo del lavorodella Jugoslavia, e' nata quella rete di solidarieta' nella forma che oggi
molti di voi conoscono. Una struttura di solidarieta' che poggia essenzialmente attorno adalcune, poche, strutture sindacali, ed a una rete di delegati di fabbrica
delle RSU che va dal Sud al Nord, con presenze significative in alcune situazioni importanti. Una rete che poi ha coinvolto, anche fuori dalmondo del lavoro, altre situazioni, associazioni ecc. Una rete importante
anche dal punto di vista quantitativo: non e' poca cosa la solidarieta' che si e' riusciti a determinare e che si sta ancora determinando. Anche se purtroppo, come qualcuno prima ricordava, benche' essa non sia poca cosa rispetto alle nostre capacita' operative, resta comunquetroppo poca cosa rispetto al bisogno enorme che esiste in quella situazione.
E' bene ricordare comunque che l'azione di solidarieta' che stiamo portando avanti non e' di tipo caritatevole. Non consiste nel fatto che se mi chiedono da bere io gli do da bere, se mi chiedono da mangiare io gli do da mangiare... Questa rete e' "pensata", e' "ragionante": e' una iniziativa di solidarieta' che ha come obbiettivo l'intercettazione di diverse problematiche, le stesse che sono emerse anche nella discussione di oggi. Ossia il fatto che oggi in Jugoslavia c'e' bisogno di difendere un soggetto sociale - la classe operaia e di sostenerla non solo sul fronte di una lotta per il reddito e per l'occupazione ma anche nel ruolo che questa può svolgere in difesa della democrazia sociale, contro l'imbarbarimento istituzionale ed economico che si sta affermando in quella regionePer questo, fin dall'inizio abbiamo cercato di allargare i nostri rapporti
al maggior numero di situazioni sindacali della Jugoslavia Tuttavia, nonostante gli sforzi che abbiamo fatto, ci troviamo ad avere come unico riferimento sindacale, per questa iniziativa, la Zastava. I bombardamenti, e quello che e' successo dopo, hanno praticamente maciullato l'organizzazione sindacale. Quando tu distruggi una fabbrica distruggi un luogo di organizzazione; quando tu distruggi un territorio, distruggi i referenti sociali che ci sono su quel territorio. Praticamente, e' come se avessi svuotato quel territorio. Non e' un caso che, purtroppo, la nostra iniziativa si sia fermata alla Zastava: perche' la Zastava, dopo i bombardamenti e nonostante i bombardamenti, e' stata una delle poche realta' sindacali, tra quelle colpite dalla guerra, ad aver mantenuto - grazie allo sforzo non piccolo dei lavoratori e dei loro delegati - una sua propria capacita' organizzativa sindacale. Pur non avendo lavoratori in fabbrica, la struttura sindacale si e' sforzata di resistere, anche solo dal punto di vista formale: quindi ha continuato a funzionare come soggetto di riferimento per il territorio, per i lavoratori. Continuando comunque a convocare assemblee, organizzare manifestazioni e, anche se sembra assurdo a fronte della situazione, anche scioperi.E grazie al lavoro di solidarieta' di molti lavoratori e fabbriche italiane,
abbiamo contribuito a rendere possibile tutto ciò. Anche senza lafabbrica, grazie all'organizzazione sindacale Zastava ed alla solidarietà dei lavoratori italiani, i lavoratori della Zastava hanno potuto continuare
a vivere il loro luogo di lavoro come punto di incontro, di snodo, anche solo perchè si poteva continuare per lo meno a distribuire quel poco che c'era da distribuire. Quindi, quando parliamo di una guerra e degli effetti che questa guerra ha sulla capacita' di risposta della gente, dei lavoratori, delle persone, dei soggetti sociali presenti su quel territorio, dobbiamo considerare che la guerra e' prima di tutto una operazione distruttiva, che non distrugge solo le vite individuali o le fabbriche o i ponti… ma distrugge un tessuto sociale, le organizzazioni ed i loro riferimenti, che mina alla base praticamente le condizioni sociali su cui preesistevano le rappresentanze, sociali e politiche. E' bene osservare la situazione anche da questo punto di vista: il bombardamento della Zastava e' significativo del carattere che questa guerra ha avuto. Essa non e' stata una guerra "umanitaria", una guerra di liberazione. E' stata una guerra scientificamente organizzata con l'obbiettivo di bruciare e distruggere un territorio, di smantellare qualsiasi rappresentanza sociale, politica, economica, per favorire poi sostanzialmente l'ingresso di interessi altri, che avrebbero dovuto prendere in mano questa situazione, e trasformarla, manipolarla secondo i propri interessi. Dati certi, esatti, non se ne hanno. Pero', a chi e' andato in Jugoslavia in questi ultimi tempi e' chiaro come questa guerra abbia colpito soprattutto infrastrutture, centrali elettriche, scuole, strade, ferrovie, ospedali, e soprattutto come abbia colpito il tessuto produttivo. Oggi la Jugoslavia non ha piu' una industria farmaceutica, non ha piu' una industria pesante, non ha piu' una industria tecnologicamente in grado di competere; cio' che e' rimasto in piedi e' la piccola e media industria, destinata a scomparire di fronte alla distruzione del mercato, alla pesante contrazione dei consumi (dovuta alla caduta dei redditi da lavoro), alla crisi economica che oggi la Jugoslavia attraversa.Quindi è stata una guerra mirata a creare il terreno utile per realizzare
ed affermare quello che, sostanzialmente, era alla base dell'intervento, cioe' la conquista di una egemonia economica, politica, territoriale, rispetto ad una zona che era di interesse strategico per il capitale occidentale. Adesso e' inutile soffermarsi sulla guerra all'Iraq, sull'interesse dell'Occidente rispetto alla zona asiatica, perchè è sostanzialmente tutto collegato. Oggi, di fronte alla crisi con cui il capitale si trova a dover fare i conti, esiste la necessità da parte delcapitale di aumentare la propria pervasività sul territorio, sulle economie
altre, per garantirsi praticamente la propria sopravvivenza. Che questo obbiettivo sia stato poi perseguito senza badare alle spese ed alle conseguenze lo dimostrano anche le altre cose che sono state dette prima di me. Quando si parla di danni ambientali, nel senso di crimini di guerra, parliamo di cose che sono sotto gli occhi di tutti e non si dovrebbe fare fatica a dimostrarle. Ha ragione Vlaic quando dice che bisognerebbe fare delle indagini epidemiologiche: ma la NATO e l'Occidente non le faranno mai. Il governo jugoslavo attuale probabilmente non ha interesse che su queste cose si indaghi, perchè tutto deve sembrare come tornato alla normalità rispetto alla confusione precedente. Ma tutti sanno che non è così. Basta pensare agli effetti ambientali e sociali dei bombardamenti. Oggi - lo rivela anche una indagine dell'ONU - metà della popolazione jugoslava (parlo di Serbia) è praticamente sotto la soglia di povertà e quella che risulterebbe ancora sopra la soglia di povertà lo è solo grazie agli aiuti economici, alle mance, alle regalie che le istituzioni possono ancora in parte permettersi di distribuire grazie a certi aiuti, ad introiti avuti in cambio di certi atteggiamenti di fedeltà alla NATO e all'Occidente. Se mancassero anche questi introiti sarebbe un problema dal puntodi vista della stabilità interna. Quando si dice "soglia di poverta'" non
si intendono i 400 euro cui si riferiva prima la compagna di Belgrado, ma si intendono i 225 euro che l'ONU considera come soglia di povertà; 225 euro praticamente non raggiungibili dalla metà della popolazione. Ci sono poi situazioni ancora peggiori. Se consideriamo alcune particolari isole come le cosiddette città operaie - Pancevo, Kragujevac, Nis, ossia le classiche città nate intorno ad una fabbrica - il livello di povertà coinvolge tutta la popolazione, perchè i bombardamenti delle fabbriche hanno fatto mancare l'unica fonte di reddito. E' come se nella Torino degli anni '50, dove c'era solo la FIAT, avessero bombardato la FIAT. Avrebbero messo in ginocchio tutta la città, non solo i lavoratori. La devastazione sociale che è stata prodotta è di per sè gia' un crimine di guerra. Ma se poi ragioniamo da un punto di vista ambientale, distruggere una fabbrica non è come buttare giù una cabina su una spiaggia. Distruggere una fabbrica vuol dire produrre tutta una serie di conseguenze a catena. Solamente a Kragujevac la distruzione della fabbrica ha di fatto causato l'incendio di tutti i depositi di solventi e di tutti i depositi di olio combustibile e lubrificante che servivano per la fabbrica. Questo vuol dire che per settimane intere nella zona di Kragujevac è girato PCB in quantità enorme, è volata diossina in quantità enorme. Se poi facciamo l'esempio di Pancevo è tutto ancora più eclatante. Per spiegare cosa è Pancevo basta dire che è il petrolchimico gemello di Porto Marghera. In breve a Pancevo c'è la stessa linea del Cloro che c'è a Marghera! Se io bombardo Marghera, potete immaginarvi cosa succede. Oggi, quando a Marghera per il problema di una valvola, di una guarnizione che non tiene fuoriescono 2 o 3 ppm di roba, scatta l'allarme in laguna, con interventi di magistrati, blocco delle produzioni eccetera. Ma a Pancevo è uscito ben altro che non 2 o 3 ppm di roba. Lì hanno completamente bombardato una fabbrica con tutto quello che c'era dentro - è uscito TUTTO! Senza contare gli operai morti sotto il bombardamento. Dalle informazioni che abbiamo raccolto noi, quasi tutto il turno di notte di Pancevo ci ha perso la vita. Lavoravano, mica si aspettavano che li bombardassero: operai che erano sul di lavoro e che non sono stati neppure avvisati, neanche invitati ad evacuare rispetto ad un rischio di bombardamento. Nessuno proprio immaginava che qualcuno avesse in testa di bombardare un petrolchimico come quello di Pancevo - eppure lo hanno fatto, sapendo perfettamente le conseguenze. Anche senza indagine epidemiologica (che nessuno si sogna di fare sulla popolazione di Pancevo), basta andare a vedere un bellissimo lavoro - penso che molti di voi lo hanno gia' potuto leggere - redatto non dal medico tal-dei-tali di fama internazionale bensi' da una veterinaria di Pancevo che, vista l'impossibilita' di fare una indagine epidemiologica sulla popolazione, ha fatto una cosa semplicissima: ha tenuto sotto osservazione i piccoli animali domestici per un certo periodo di tempo. Questi animali, avendo un metabolismo breve, manifestano prima dell'uomo determinate disfunzioni. Da questa analisi è venuto fuori che, in misura diversa, tra cani, gatti, agnelli, pecore, cavalli, già un anno dopo il bombardamento si sono manifestate - nelle nascite o nei decorsi normali di alcune fasi di crescita - tutta una serie di problemi che (stando a quello che si puo' presumere) avranno effetti negli anni anche sugli esseri umani, visto che il tempo di metabolismo dell'uomo e' diverso (è più lungo) di quello dei piccoli animali. Un po' quello che e' successo a Seveso, insomma. Cosi' hanno valutato i rischi che la fuoriuscita di diossina a Seveso avrebbe avuto sugli umani, e che poi si sono confermati con gli aborti, con le nascite malformate, successivamente. Anche per Seveso parliamo sempre di pochi ppm, perche' a Seveso non è uscito neanche mezzo etto di roba. Seveso non è stata mica bombardata: avevano dimenticato una valvola aperta per due minuti. A Seveso hanno capito la situazionee i rischi per la popolazione analizzando i conigli, e hanno scoperto che
quello che nei conigli succedeva dopo sei mesi dalla fuoriuscita si e' poi riprodotto sugli uomini, in scala e dimensione diversa. Quindi questa è la situazione. La Zastava dimostra quanto si diceva prima sulle caratteristiche proprie di questa guerra di aggressione, cheaveva in realtà tutta una serie di motivazioni ben particolari. Motivazioni
così forti dal punto di vista economico e dal punto di vista egemonico che non si è guardato in faccia a nulla. Avevano ragione i compagni della Zastava quando dicevano, già sotto le bombe: "Questi hanno intenzione di vincerla, questa guerra". Però non si trattava di una occupazione di territori: questi avevano proprio intenzione di ottenere una resa, la resa sociale, politica, economica rispetto al programma dell'Occidente. Il calvario della Zastava La Zastava era la piu' grande azienda dei Balcani. Prima ancora del disfacimento della Jugoslavia essa era ovviamente molto più grande di quanto non sia adesso. Si concentrava sostanzialmente sulla produzione di camion e di auto per conto e in società con la FIAT. Aveva 36.000 dipendenti. Aveva un mercato garantito dalla Grecia e dagli altri paesi dell'Est perché, pur non producendo macchine qualitativamente eccezionali, rappresentava comunque la possibilità di immettere sui mercati di quei paesi macchine a basso prezzo, ad un prezzo accessibile, il che poteva garantire la continuità della produzione nonostante la necessità di una ristrutturazione che comunque era in discussione anche prima dei bombardamenti. I bombardamenti l'hanno distrutta completamente. Nelle notti del 9 e 12 aprile 1999 la bellezza di una quarantina di missili Cruise l'hanno sventrata, soprattutto nei suoi elementi forti: il centro di calcolo e progettazione è stato completamente distrutto - quindi tutta la rete informatica, tutta la memoria storica della fabbrica; la progettazione è andata praticamente a pezzi; le linee di produzione delle auto sono state completamente distrutte, quelle dei camion pure, poi gli uffici. La devastazione è stata tale da far pensare all'impossibilità di un qualsiasi tipo di ripresa. Ovviamente, il bombardamento della fabbrica non ha coinvolto solo i lavoratori. Quando dico "città operaia" voglio dire che alla Zastava c'erano 36.000 lavoratori, di cui almeno 22.000 residenti in città, a Kragujevac. Se considerate che l'indotto in Kragujevac era rappresentato da altre 40.000 persone, e se considerate che la città ha poco più di 200.000 abitanti, avete presto fatto i conti... Non c'era in tutta Kragujevac una sola famiglia che non vivesse del lavoro della Zastava. Quindi, il bombardamento della Zastava è stato visto con ansia da tutta quanta la popolazione: tanto è vero che, in uno scatto di orgoglio, sotto i bombardamenti come anche prima dei bombardamenti, molti lavoratori hanno occupato la fabbrica, quasi pensando, illudendosi,che facendo da scudi umani il bombardamento sarebbe stato impedito. Il sindacato ha pure avvisato la NATO con e-mail e fax che in fabbrica c'erano gli operai che occupavano. Nonostante questo i bombardamenti sono andati avanti fino alla distruzione completa della fabbrica. A questa situazione i lavoratori, d'accordo con la direzione dello stabilimento hanno cercato di dare una prima ed immediata risposta con l'avvio del lavoro di spostamento delle macerie. E' bene sottolineare come la direzione Zastava, quella precedente, ancora legata all'assetto societario precedente, ossia a quello tipico dell'esperienza jugoslava: non rappresentava più una vera e propria autogestione, perchè era da tempo che l'autogestione in Jugoslavia era stata ripensata sopratutto nelle grandi aziende industriali. Permaneva comunque la forte presenza pubblica, con un evidente interesse pubblico nella gestione della fabbrica che aveva nella salvaguardia dell'occupazione uno degli elementi qualificanti e discriminanti. In questa situazione, dicevo, i lavoratori della Zastava hanno iniziato subito, quasi per rabbia, il lavoro di pulizia delle macerie! E recuperando quel poco che si era riusciti a recuperare dalle macerie erano riusciti a mettere in moto due linee di produzione che andavano manualmente - mancando la corrente era impossibile pensare a livelli di automazione come quelli precedenti. Era un atto simbolico importante. Con quell'atto loro volevano dire che, nonostante i bombardamenti, la fabbrica doveva continuare a vivere. C'è da dire che in quella fase, e soprattutto in quella fase, la solidarietà dal mondo del lavoro italiano è stata preziosissima: i lavoratori Zastava manifestavano da un lato l'orgoglio e la voglia di ricostruire, ma dall'altra parte c'era la paura di non avere sostegno sufficiente per reggere uno sforzo del genere. Quando infatti parlo di rimozione delle macerie e di rimessa in moto delle due linee parlo di una fase in cui i lavoratori non percepivano reddito, neppure la misera indennità di disoccupazione che molti di loro ora percepiscono. Era praticamente quasi tutto lavoro volontario, organizzato, coordinato, diretto in qualche modo all'obbiettivo di dare ai lavoratori una prospettiva e di evitare l'emigrazione, di evitare lo sconforto. Di evitare praticamente che i lavoratori se ne andassero. Da questo punto di vista diciamo che l'aiuto che è stato chiesto esplicitamente dai lavoratori della Zastava al mondo del lavoro,italiano e tedesco soprattutto, in quella fase è consistito in: "aiutateci
a tenere la gente in fabbrica". Quindi: "aiutateci a fare in modo che la gente, se ha bisogno di qualcosa, si abitui a venire sempre in fabbrica a vedere cosa su può fare, cosa c'è e cosa non c'è." In effetti, questa è stata una cosa che ha aiutato psicologicamente, ma anche materialmente, in primo luogo diverse famiglie; ha aiutato a sostenere la loro prima reazione, la voglia di ricostruire la fabbrica. Il problema è che, con il cambio del governo che c'è stato in Jugoslavia il 5 ottobre 2000, sono venuti meno di colpo quei pochi ma utili finanziamenti che, nel frattempo, il governo della Repubblica aveva cominciato a stanziare per la rimessa in moto della fabbrica. Venendo meno questi investimenti è divenuta palese l'impossibilità di continuare. Mancavano le materie prime, mancava la possibilità di completare la rimessa in piedi dei capannoni, e praticamente tutto si è fermato. Anche quella simbolica ripresa produttiva ha dovuto sostanzialmente fermarsi. C'è da dire che la FIOM ha fatto un tentativo, anche piuttosto esplicito e pesante, nei confronti della FIAT che era proprietaria del 48% della Zastava, affinchè la FIAT investisse in qualche modo, desse una mano a rimettere in piedi la situazione. Ma si e' constatato allafine l'assoluto disinteresse della FIAT ad investire in quella direzione,
come se avesse già programmato da tempo il suo abbandono di interessi sulla Zastava. Così si è praticamente bloccato il tentativodi riaprire la fabbrica, salvo che per due reparti, la fucina e l'utensileria,
che oggi occupano in totale non più di 1300 lavoratori. Reparti che però vivacchiano, nel senso che la fucina produce, se ha mercato, poichè non produce più per la produzione interna della Zastava. Ma anche l'utensileria, nonostante lo sforzo che hanno fatto, produce materiale di qualità non competitiva, che può essere destinato a Bulgaria o Romania, ma che non può di per sé, senza ulteriori investimenti, rappresentare una soluzione stabile. Al di là di questi due reparti, che comunque lavoricchiano, in realtà oggi la fabbrica è ferma. Delle migliaia di lavoratori di cui si diceva prima solo 17.000, a rotazione, hanno oggi un qualche rapporto con la produzione, ma per effetto della saltuarietà della loro prestazione il loro reddito non supera i 120 euro al mese. Se questi lavoratori rimangono in qualche modo impiegati all'interno dell'attività, altri 9000 sono finiti in esubero - una specie di mobilità lunga come quella che c'è da noi, una cassa integrazione speciale senza alcun dirito al reintegro. Allo stato attuale essi percepiscono non più di 50 euro al mese. Di questi 9000 già molti hanno scelto la strada dell'emigrazione, tanto è vero che oggi risultano iscritti alla lista solo 7000 lavoratori. Molti hanno firmato per andarsene, in cambio di un piccolo incentivo, prendendo la strada di altri paesi, in cerca di altro lavoro. A questi vanno aggiunti gli 8000 lavoratori che sono stati licenziati, e che non sono quindi neppure in mobilità, e gli 800 lavoratori serbi di Pec in Kosovo che sono stati cacciati e che oggi sopravvivono grazie alla solidarietà del sindacato Zastava, senza il quale non saprebbero a chi rivolgersi ne' dove andare a parare. La svenditaIn questa situazione il rapporto tra la rete di solidarietà e il sindacato
Zastava va avanti. Ma se prima il problema era sostanzialmente comeriprendere l'attività della fabbrica, oggi si tratta piuttosto di sostenere
questi lavoratori in una prospettiva molto più lunga. Sulla Zastava permane - e con il nuovo governo è stato dichiarato subito - l'interesse a vendere, ossia a non impegnarsi per una ripresa dell'attività e viceversa a trattare la Zastava come un supermercato composto da tanti piccoli reparti che possono essere venduti, ceduti in cambio di poco o di niente. Ma fino ad oggi neanche questo nuovo atteggiamento del governo nazionale ha suscitato interesse da parte di acquisitori stranieri. Finita la guerra, la Jugoslavia è diventata terra di conquista pertutta una serie di piccoli truffatori, di piccoli capitalisti che pensano
di andare lì e tirare su palate di soldi approfittando di una economia in ginocchio e della ricattabilità dei soggetti sociali (lavoratori in primo luogo) a cui offrire una "occasione" in cambio però di livelli di subordinazione del lavoro che mai prima questi lavoratori avevano conosciuto. Tutta l'attuale amministrazione pubblica jugoslava si è strutturata per intercettare queste "occasioni", tanto è vero che mai come in questa ultima fase, credo, tra camere di commercio italiane e amministrazioni comunali jugoslave si e' sviluppato un fitto rapporto di scambi, di informazioni, di visite. A noi è capitato spesse volte, essendo lì a Kragujevac, di vedere - una volta proprio in diretta, inun telegiornale locale, una intervista a imprenditori veneti che dicevano
pressapoco: "Noi siamo venuti qui oggi perchè vogliamo vedere alcuni reparti, alcuni capannoni dismessi. Il comune ci ha promesso mari e monti, noi veniamo qui, investiamo..." Però tutti questi imprenditori ponevano la stessa questione: noi veniamo, quindi siamo dei benefattori; e così come stanno le cose ancora non cibasta, bisogna cambiare le regole... Oltre ai terreni gratis, ai capannoni
gratis, al non pagamento delle tasse per 5 o 10 anni, bisogna che anche la manodopera sia gratis! Una vera e propria speculazione che sta investendo soprattutto le piccole e medie aziende dell'indotto, ormai senza lavoro a causa del bombardamento della Zastava, sulle quali si intende trasferire produzioni attualmente fatte in Italia puntando sul costo zero dell'investimento e sulla disponibilità di avere mano d'opera affamata a cui imporre qualsiasi condizione di lavoro e retributiva. Sulla Zastava questo tipo di speculazioni non sono riuscite perchèla Zastava, a differenza di tutte le altre unità produttive, aveva al suo
interno una forte organizzazione sindacale, che rendeva meno fattibile la svendita al capitale estero che arrivava e si dichiarava interessato a quel tipo di soluzione. Operazioni di questo tipo sono invece andate avanti alla grande altrove. Come diceva prima la compagna di Belgrado, stanno privatizzando tutto, cioè tutto è vendibile, oggi, in Jugoslavia. Va giù una immobiliare e si compra appartamenti, case. Va giù una camera di commercio e concorda l'arrivo di faccendieri che comprano piccole fabbriche, capannoni vuoti, tutto quello che è buono, e anche i gioielli di famiglia. E' notizia di pochi mesi fa che tutta la catena dei cementifici (che erano una perla dell'economia pubblica jugoslvava) è stata spezzettata e svenduta a imprenditori francesi e tedeschi che con tutti i problemidi ricostruzione che ci sono non possono che aspettarsi profitti allettanti.
Adesso si parla anche di privatizzare le miniere.Una linea, quella di svendere, di privatizzare tutto, che adesso è arrivata
anche alla Zastava Però, per svendere la Zastava bisognava prima incrinare la sua capacità di tenuta. Voi sapete che per comprare la Zastava si è fatto avanti ora questo Malcom Briklin, il quale in realtà, anche se si presenta come un grande imprenditore, non è altro che un poveraccio, nel senso che si è fatto una fortuna unicamente mettendo in piedi una rete di concessionarie in America per vendere auto giapponesi. Ha tentato due operazioni industriali, una producendo una macchina che portava il suo nome, che però è fallita subito, e un'altra mettendo in piedi una compagnia elettrica, che non è sopravvissuta. Briklin si appoggia su delle banche che hanno la debolezza strutturale ricordata dalla compagna di Belgrado. Adesso, di colpo, si compra la Zastava, mettendo lì una barca di soldi che non si sa dove andrà a prendere. Ha presentato un piano industriale che è a dir poco industriale che èa dir poco fantasioso, vale a dire: io ti compro e ti prometto l'America - pur sapendo bene quali difficoltà ci siano a rimettere in piedi la Zastava.
Questo Briklin promette di assumere 9000 persone nel giro di cinque anni, di produrre 220.000 auto l'anno, e - notate bene - non punta sul mercato dei Balcani o sul mercato dei paesi dell'Est, dove quelle macchine a basso prezzo avrebbero un mercato. Punta piuttosto ad esportarle in America ed in Europa, intendendo competere con il mercato dell'usato, nel senso che a quei prezzi e a quelle condizioni in Europa e in America ormai il mercato dell'usato fornisce materiale equivalente. La situazione è paradossale. Per dirla tutta, condividendo il parere che anche il sindacato metalmeccanici italiano ha espresso, conoscendo il tizio e parlando anche con quelli della Zastava, più che una operazione industriale l'arrivo di questo Briklin è la classica operazione speculativa che punta a comprare a determinate condizioni per poi manipolarla, rivenderla a pezzi, a suo uso e consumo. E' fuor di dubbio, vista la sua storia, che Briklin sia molto più interessato ad acquisire la rete concessionaria della Zastava piuttosto che la fabbrica di produzione delle auto. Infatti, grazie a quella rete concessionaria egli può piazzare in tutti i Balcani e nell'Est Europeo tutto il suo enorme giro di auto usate, di cui già dispone. Grazie al nome Zastava, alle concessionarie ed alla rete Zastava di assistenza, egli potra' guadagnare, con risultati sull'occupazione nulli. I rapporti tra i sindacati Ciò che si presenta agli occhi dei lavoratori della Zastava non è assolutamente confortante. Tanto è vero che il sindacato della Zastava - almeno il più grosso dei tre sindacati presenti - intende opporsi a questo piano industriale. Detto tra noi: quando tu sei impiccato, come fai a dire di no a uno che viene lì e ti dice che assume 9000 persone. Non ci crede nessuno, ma ciononostante ci vuole una bella tenuta per opporsi! Comunque, i limiti di questa operazione sono oggi chiari a tutti. Un piccolo inciso: noi stiamo sostenendo la tenuta del sindacato della Zastava anche attraverso l'inserimento dello stesso dentro il Forum europeo della sinistra sindacale, non tanto perchè questo risolva qualche problema a loro, ma perchè almeno apporta una visibilità europea al problema. In questo senso dovevano essere presenti il 7 novembre scorso al Social Forum di Firenze anche due delegati della Zastava e un esponente del sindacato metalmeccanici nazionale jugoslavo. Ma l'Ambasciata italiana di Belgrado non ha concesso per tempo i visti, benche' fossero stati chiesti direttamente dalla CGIL di Brescia. Sicuramente c'è stato un intervento negativo da parte dell'Ambasciata italiana di Belgrado; sicuramente non c'è stata, da parte del Ministero degli Esteri, alcuna intenzione di forzare la mano, di lasciare che i visti venissero sbloccati. Ma pare quasi sicuro che lo zampino che ha portato all'impedimento del rilascio dei visti venga proprio da Briklin, preoccupato che in occasione del Social Forum qualcuno venisse inItalia a denunciare la stupidità dell'operazione che il governo jugoslavo sta mettendo in piedi con lui. Questo solo per la cronaca, per sottolineare
l'importanza delle cose che si stanno discutendo e decidendo in questi giorni, in questi prossimi mesi, alla Zastava di Kragujevac. Altri aspetti della situazione sociale La capacità di risposta del mondo del lavoro è in larga misura compromessa, per la situazione difficoltosa in cui oggi i sindacati jugoslavi si trovano. Dobbiamo considerare che la guerra ha indebolito la capacità organizzativa della rappresentanza sindacale in Jugoslavia. Le condizioni della classe operaia sono paurosamente peggiorate, aumentando la frantumazione di cui prima si parlava. L'embargo prima, la guerra, l'aumento dei prezzi, la caduta dello stato sociale, il venire meno di una serie di servizi, l'inflazione, producono una situazione di sfaldamento della capacità di tenuta della classe operaia e delle famiglie. Non va dimenticato che anche la situazione dei pensionati è drammatica, nel senso che le pensioni acquisite di diritto non vengono pagate ovvero vengono pagate in una misura che non supera i 50 euro al mese e chi va in pensione oggi sa che non prenderà niente. E chi pensava di andare in pensione tra due-tre anni sa già che non ci andrà, perchè tutto il sistema previdenziale è saltato, non c'è più nessuna garanzia da quel punto di vista. Le condizioni materiali della classe operaia sono peggiorate, e questo accelera, aumenta il peso delle difficoltà organizzative da parte del sindacato. Ma non bisogna dimenticare un'altra cosa importante, e cioe' che con il cambio di governo è partito, all'interno della Jugoslavia, un forte attacco contro la tenuta sindacale attraverso il finanziamento di vere e proprie operazioni di scissione sindacale, attacco che ha avuto un certo successo. Grazie ai grandi aiuti economici che sono arrivati dall'Occidente è stata inventata questa sigla filo-governativa che si chiama Associazione dei Sindacati Indipendenti, che è entrata immediatamente in competizione con il sindacato maggioritario producendo qua e là delle scissioni. Alla Zastava - badate bene - queste scissioni non sono riuscite. Alla Zastava ancora alle ultime elezioni il 92-93% dei lavoratori ha riconfermato la fiducia al sindacato maggioritario; e questo spiega perchè proprio alla Zastava la tensione sindacale sia arrivata alle stelle, con pestaggi, pedinamenti, minacce. Non so se vi sia arrivata all'orecchio voce di alcuni eventi recenti. Il clima si è notevolmente esasperato verso il Sindaco di Kragujevac, che è un filo-Dijndijc, che organizza una manifestazione di operai della Zastava contro il sindacato, e poi si scopre - noi siamo arrivati sul posto due giorni dopo - che in realtà le "masse dei lavoratori" che hanno manifestato erano arrivate con i pullman da Belgrado, e di lavoratori della Zastava non ce n'era quasi nessuno! Oppure i picchettaggi ed i blocchi delle elezioni dei delegati sindacali, nel senso che quando sono state aperte le urne questi sindacati indipendenti sono entrati, hanno impedito che si tenessero le elezioni, secondo l'assunto che i posti nel sindacato dovevano essere ripartiti in funzione delle percentuali elettorali che nelle ultime elezioni politiche i singoli partiti avevano ottenuto: ben sapendo che se si fosse andati al voto tra i lavoratori essi non avrebbero preso gran che, rivendicavano una rappresentanza di tipo politico. Tutte queste situazioni hanno ulteriormente aggravato il clima alla Zastava, ma sono anche testimonianza di come il controllo dei sindacati sia elemento indispensabile, per chi vuole controllare gli sviluppi politici ed economici del paese nei prossimi mesi. Anche in questo la Zastava rappresenta un elemento di controtendenza, perchè proprio nel punto più importante, la' dove la scissione doveva sortire dei grossi risultati, questi non si sono prodotti, e questo anche grazie alla capacità di resistenza e di tenuta della struttura sindacale attuale. La contro-riforma del mercato del lavoro E' difficile, in questa situazione di concorrenza sindacale e di operazioni scissionistiche filo governative, per il sindacato jugoslavo reggere, oltre allo scontro sulla difesa del posto di lavoro anche l'offensiva governativa in materia di diritti e di distruzione del piano normativo in materia di mercato del lavoro. Una riforma che il governo federale ha già presentato, e che in queste settimane sta realizzando, con la contrarietà di alcuni sindacati e con l'assenso di questa Associazione dei Sindacati Indipendenti il cui segretario generale è addirittura l'attuale Ministro del Lavoro. Quindi il proponente di questa legge sul lavoro! Una legge che a noi non suona tanto strana, perchè pur essendo stata scritta in modo diverso, partendo da una situazione precedente diversa, è praticamente identica al Libro Bianco ed alla riforma del mercato del lavoro che stiamo contrastando in Italia. C'è la riduzione del contatto nazionale di lavoro a mero riferimento normativo. Praticamente, salta il salario minimo nazionale, si proponeuna sorta di sistema a gabbie salariali, legate al territorio ed alla tipologia
industriale - quindi con gabbie e sotto-gabbie. Poi c'e' l'aumento del lavoro precario, con l'introduzione di un contratto a termine che,in confronto, la proposta di Maroni è acqua di rose. Ed inoltre altri punti
da non sottovalutare, tra cui uno simbolico, che dovrebbe far gridare allo scandalo. Pur di risparmiare, con la scusa che si devono trovarerisorse per il rilancio dell'economia (che pero', come sapete, non avviene
perchè il governo ha demandato il rilancio dell'economia agli interessidegli speculatori stranieri e non al suo intervento diretto), è stata ridotta la copertura per la tutela delle lavoratrici incinte; ed inoltre è stata inserita
una norma, che non è proprio uguale alla nostra sull'articolo 18, ma cheda' sostanzialmente alle aziende la libertà di licenziare senza giusta causa se la tipologia del lavoratore non corrisponde più alle esigenze dell'azienda.
Una riforma che punta inoltre, elemento non secondario, alla riduzionedella rappresentatività sindacale. Si chiede che il singolo lavoratore, se
interessato, possa anche firmare contratti di assunzione individuali, scavalcando quindi la mediazione contrattuale e sindacale. Voglio dire, per concludere: la questione della Zastava è significativa, perchè a mio parere apre una discussione che altri hanno posto in mododiverso qui dentro. Noi siamo convinti tutti che la situazione in Jugoslavia, così come è, è destinata allo sfacelo perchè la Jugoslavia è diventata terra di conquista di speculatori. Non esiste oggi in Jugoslavia una rappresentanza politica in grado di programmare, di dirigere, di mantenere, di tutelare al
minimo neanche quelli che sono gli interessi nazionali, neanche quellidella borghesia nazionale. Non c'è nessuna preoccupazione in questo senso.
Che cosa si può fare? Si può fare molto, sapendo che naturalmente saràsolo la nascita e la determinazione di condizioni oggettive a favorire poi
uno sbocco piuttosto che un altro. Ma noi come compagni, come italiani, come vicini,come solidali a un punto di vista che comunque dentro a quei territori ancora sta lottando per sopravvivere possiamo lavoraresoprattutto per favorire la tenuta di quello che è l'unico soggetto sociale
che può effettivamente contrastare questi processi.Questo soggetto sociale è la classe lavoratrice in tutte le sue articolazioni:
lavoro dipendente, disoccupati, pensionati. E quindi, come già diceva Vlaic stamattina nella sua introduzione e come altri hanno ricordato, noi dovremo, oltre che ascoltare, fare domande, chiedere, dovremo saper sviluppare un lavoro capace di una solidarietà concreta, fortementeindirizzata al sostegno di una lotta di resistenza che la classe lavoratrice jugoslava, in completa solitudine sta cercando di fare contro i tentativi di chi la vorrebbe silenziosa ed asservita al nuovo potere economico e politico.
Saremo utili ed efficaci se sapremo produrre iniziativa utili a far si che la classe lavoratrice jugoslava riesca a incidere sulle condizioni oggettive
dentro le quali è oggi costretta a muoversi. Per esperienza nostra, questo sbocco per noi vuol dire rafforzamento delpeso, del ruolo sociale, della capacità di organizzazione e della capacità
di rappresentanza sociale della classe operaia. [fine]Mercoledì, 11 Feb 2004, alle 15:22 Europe/Rome, Other News - Roberto Savio / IPS ha scritto:
//Reproduction in whole or in part without permission is prohibited, article sent for information purposes.// After Yugoslavia, the Yugo Goes By Vesna Peric Zimonjic KRAGUJEVACK, Serbia, Feb (IPS) û After 20 busy years in formerYugoslavia and the Balkans, the little "Yugo" car has come to the end of theroad.It is more than a car that is now coming to a halt. The end of productionmarks the symbolic end of an ethos of self-sufficient industrial production.Production of the Yugo, or the Zastava to give it its proper name, is due toend this year.Some 180,000 Yugos, an offspring of two Fiat models of the late 1970s, were manufactured in the central Serbian town Kragujevac. At peak production it wasone of the biggest car manufacturing plants in the Balkans. Yugos were priced at a modest 3,900 dollars. Tens of thousands wereexported to 74 countries, including India, Egypt, Sudan, Colombia and even theUnited States. Now they are among few visible signs of former Yugoslavia in the newrepublics. Thousands still roam the roads of Croatia, Bosnia-Herzegovina andMacedonia 13 years after the common homeland fell apart.Production should have been switched off long back, financial analyst Milan Kovacevic told IPS. "It is clinically dead and no sentiments should prevailnow. This should have been done 12 years ago. There is no way but to claim bankruptcy."Miki Savicevic, chairman of the board of directors and a veteran of Serbian entrepreneurship took the job in 2001. He looked for a foreign partner to helprevive the car complex that produced only 13,000 cars in 2002.Toyota and Peugeot spent several million dollars on feasibility studies butfinally said no. The original parent Fiat was not interested either."We have to give up the illusion that Serbia can produce a car of its own," Savicevic now says. "Negotiations with foreign investors failed when they sawall the accumulated problems." The decline began in 1992 when international sanctions were imposedagainst Serbia for its role in the wars of former Yugoslavia. Disintegration ofthe common Yugoslav market that absorbed 60 percent of the cars broughtproduction to near standstill. Many of the new republics were also productioncentres for parts.The regime of former president Slobodan Milosevic kept the car factory running somehow until 2000 when it fell from power. More than 18,000 workers remained formally employed, with their meagre income paid out of the statecoffers.The Zastava complex in Kragujevac included also a trucks assembly unit and an arms factory. Milosevic's regime feared social unrest if the plant wereto be closed down.The new authorities took a different approach. Generous bonuses were paid to more than 25,000 workers with the help of international aid. Only a fractionofthe workforce remained, in the hope that the plant would attract new investors.Others turned to farming or to private small business.Trade union leaders proposed a 230 million dollar project to design and produce a new family car. "Serbia has the knowledge and technology for that,"union leader Zoran Mihajlovic told visiting media representatives in Kragujevac."Our project is almost ready, but we need support from the state budget tostart production."Few think this can work. "Such a project is completely senseless," financialanalyst Misa Brkic told IPS. "That would be romantic gambling with the budget ofa poor nation. There is no bank that would credit this. The approach is ahangover of the era of self-sufficiency."Self-sufficiency was the trademark of communist Yugoslavia for decades. It meant that workers took active part in strategic decision-making in factories, offices, hospitals and universities through "workers councils". Many stillthink that was a good way. And many think the Yugo was a good car. Workers and executives say asurvey by the U.S. magazine Forbes that ranked the Yugo as the worst foreigncar ever to enter the U.S. market was an insult.The magazine said the look, the performance and road safety of the car were all questionable. More than 150,000 Yugos were exported to the United Statesin 1988-91."Yugo is not a tin can as some people describe it," says Miljko Kokic at the development department of the car factory. "It was among the cheapest carsproduced in Europe and proved to be a lasting product."Many Serbs agree, but point out also that years of isolation and povertymeant they could not try anything else."I've been driving my Yugo for the past 13 years," says Borivoje Spasojevic from the northern Serbian town Novi Sad. "Only twice I have had to see the mechanic since then. I spent only about 700 dollars in maintenance in theseyears."Local television cameraman Zoran Ljubojevic says it helps that you can buy spares for the car at local kiosks. "It's not comfortable, but it's great forshort ridesand the bumpy and curvy roads of Serbia," he says. "And for nothing else."(END/IPS/----------------------------------------------------------------------- --------- "Other News" is a personal initiative seeking to provide information thatshould be in the media but is not, because of commercial criteria. Itwelcomes contributions from everybody. Work areas include information on global issues, north-sutrh relations, gobernability of globalization. The"Other News" motto is a phrase which appeared on the wall ofBarcelona’s old Customs Office, at the beginning of 2003:”Whatwalls utter, media keeps silent”. Roberto Savio ==================================================================== Update your profile here: http://soros.u.tep1.com/survey/?b1dnYs.b7sSRx.bXJ0YUBi Unsubscribe here: http://soros.u.tep1.com/survey/?b1dnYs.b7sSRx.bXJ0YUBi.u Delivered by Topica Email Publisher, http://www.email-publisher.com/ -- Mailing list Balcani dell'associazione PeaceLink.Per ISCRIZIONI/CANCELLAZIONI: http://www.peacelink.it/mailing_admin.html Archivio messaggi: http://www.peacelink.it/webgate/balcani/maillist.htmlSi sottintende l'accettazione della Policy Generale: http://www.peacelink.it/associazione/html/policy_generale.html
- References:
- The end of Yugo, the last Yugoslavian car
- From: Other News - Roberto Savio / IPS <soros at topica.email-publisher.com>
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