"La mia Serbia" - articolo dalla rivista NIN



NIN / Moja Srbija - da Ana Vuckovic
Beograd, 11. Ottobre, 2001.
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[Ringrazio alla redazione della rivista "NIN" per la gentile 
concessione di inviare questa traduzione del articolo - Dragomir 
Kovacevic] 
             
                            Mia Serbia/Moja Srbija

Ci sono già due anni trascorsi da quando il professore della lingua 
serba in pensione, chiuso nella sua propria casa, di regola sta 
sistemando le barricate “diurne” e “notturne”, scrive il diario, ed 
attende i giorni migliori.

Ci sono soltanto novantina Serbi che oggi vivono a Prizren, la seconda 
città di grandezza a Kosmet. Una parte di loro, maggiormente i anziani, 
sono sistemati nei villaggi dintorni di comune, dove la loro labile 
sicurezza viene difesa col il filo spinato e a mezzo degli controlli 
occasionali delle pattuglie di KFOR. In centro città, nella Chiesa 
Ortodossa St. Cirillo e Metodius, circondati con i caffè e i ristoranti 
di fast-food, ci sono momentaneamente loro 13, benché c’è n’erano cca 
trecento in questa “fortezza sotto le rovine della città medioevale di 
Imperatore Dushan.

Tra di loro, c’è una Albanese, Riva Demaj di anni 103, cacciata per la 
sua pretesa orientazione filo-serba. Questi dentro, fuori non escono; 
qualcheduno eventualmente fa un salto per comprare le sigarette. Il 
cibo gli viene fornito da rappresentanti di corpo internazionale. E 
siccome per questa zona di Kosovo e Metohija, sono incaricati i 
Tedeschi, "Gut?""Gut!" è un consueto dialogo breve tra guardiani e 
guardati, così raccontano i Serbi.

Non è facile paragonare le tragedie di chiunque, però le tredici 
persone nella Chiesa si tengono uno al altro, hanno con chi scambiare 
la parola. Milosh Nekic, il settantre-enne professore della lingua 
serba, in pensione, già per due anni, cioè dalla introduzione del 
protettorato internazionale, conduce una sua solitaria lotta dal 
fortino, per il suo domicilio famigliare. "Ci sono soltanto io, unico 
Serbo, dai Alloggi chiesili fino al cimitero”.                          
          
                                     
Fuoco

Sua casa è situata nella parte vecchia di Prizren, nella via che fino 
al 1956, era la principale, quando il nuovo Prizren cominciò a 
costruirsi, sulla sponda destra di fiume Bistrica. Secondo la 
narrazione del professore, nella via di Boris Kidrich (l’ultimo nome 
della via, di quale lui si ricorda) una volta vivevano le famiglie 
serbe più rispettabili. Ora, le uniche tracce del passato sono la sua 
casa  e luogo vuoto rimasto dopo l’incendio, dove giaceva la casa di 
una vecchia e alquanto ricca famiglia serba. “Potete immaginare come 
erano quelli  alberi, il fuoco ardeva per quindici giorni.”

La porta del numero 30 della via (scancellato), si distingue 
chiaramente dai altri edifici vicini, dal traffico stradale, dalla 
musica moderna di vicino bar. “La serratura di entrata era forzata ed è 
rotta, così che anche volendo, non posso uscire, perché non riesco 
chiudere la porta a chiave.” Dall’ altra parte della porta usurata, si 
trovano le barricate “diurne” e “notturne”. Le diurne consistono di 
blocchi di cemento, mentre le notturne, anche di tronchi di albero, e 
le barre di acciaio. Questo perché ogni notte tra nove e undici, un 
gruppo di Albanesi, da i calci alla porta, con massima forza. Capita 
che dopo cadono i blocchi di protezione, dalla cima della barriera.

I pericolosi sassi lanciati di ammonizione, da parte del ns. ospite 
sono stati messi nel angolo, insieme con le bottiglie di plastica, 
conserve vuote, scatole delle sigarette vuote, le teste delle cipolle 
secche...Materiale di prova. I pezzi dei petardi esplosi ha messo 
separatamente. Però, la KFOR non ha fatto niente di concreto, tranne 
proporgli seriamente di trasferirsi, visite occasionali a parte. Lui 
per la OCSE, fino ad un anno fa, era interessante. “Ho deciso di 
rimanere. Ho deciso non perché sono Serbo, ma perché questo è la mia 
terra. L’esilio per via che sono Serbo, per me non è una novità. Dai 
tempi dai Turchi ormai.”

Terrore
                   
Per la verità, la polizia internazionale gli ha regalato anche un paio 
di guanti spessi di cottone, per poter maneggiare più facilmente le sue 
“barricate”. I ricorsi presentati al commando locale, al commando 
principale, al Bernard Kuschner, sono rimaste vane. I autori dei 
delitti non vengono ricercati, e il terrore non viene impedito. “Nei 
ultimi due anni, ho subito quattro incendi, dieci irruzioni dai quali 
tre erano accompagnati con saccheggio...Rimpiango le mie reliquie 
numismatiche soprattutto...Svariate minacce di uccisione, la rottura 
dei cavi elettrici due volte, ed una interruzione della connessione 
telefonica per due mesi. In due di ottobre, hanno tentato di tagliarmi 
l’acqua.” “L’Ultimo dei Mohicani”, si fa nominare da se, con timore di 
un nuovo silenzio del ricevitore telefonico, ed ha creato un panello 
con messaggio S.O.S. scritto sopra, per ogni eventualità, per attrarre 
i elicotteri della KFOR.

Mentre ai rari ospiti offre i biscotti del tipo “Petit Beurre” (non si 
può non servirsi), spiega come, prima di andar a dormire, installa una 
barriera di cartone, davanti la porta di pianterreno. Alla porta sulla 
quale ci sono ancora le impronte polverose di scarpa di tennis, del 
invasore. Nel pianterreno che assomiglia ad una capanna, Nekic proprio 
trascorre le giornate. Il piano di sopra è andato in fiamme, le 
finestre sono rotte, un tetto che è vicino a cadere. La lamiera di 
metallo lo protegge dai sassi. “Temo che non cade giù questa, prima del 
inverno.” Dall’ una delle tre camere sul primo piano, Milosh Nekic ha 
un unico posto di osservazione sulla strada, sulla vita.

Dando uno sguardo dal cortile, è scarsamente possibile vedere un’ anima 
viva. Amichevole, soprattutto. Il cortile e circondato con filo, di 
quale i lati, il professore collega ogni giorno, con arrivo di 
tramonto. Il cortile è strapieno di tegole, cicchi, però anche con 
delle piante. Accanto alla cisterna abbandonata, crescono le rose, i 
cactus, le fragole, ed un semprevivo simbolico. C’è anche il posto per 
incenerimento dell’immondizia organica, mentre quella inorganica, lui 
smista nei sacchi ed attende che venisse KFOR a ritirarla. In due anni 
si sono accumulati sette sacchi.

Sig. Nekic non ha alcuna intenzione di lasciare la sua, quasi trincea. 
“Prima, mentre ancora uscivo, uno mi aveva attaccato davanti alla posta 
dicendomi di lasciare Prizren in tre giorni.” Nessuno dai vicini non lo 
visita ormai da tempo, “neanche il prete che sta 80 metri lontano da 
qui”. Ha avuto degli amici tra i Albanesi, “però loro non invitano me, 
io non invito loro, non vorrei metterli nella situazione imbarazzante”.

Pane

Dice che da Giugno di quest’ anno non ha più neanche la assicurazione 
sanitaria. Fino a quel mese, dells salute di Serbi nelle enclavi si 
occupava KFOR, dopo di che (i Serbi) hanno ricevuto un circolare di 
rivolgersi ai medici locali, cioè albanesi. Operatori umanitari gli 
portano il cibo due volte al mese. Nel frattempo aveva imparato ad 
impastare il pane, di tagliarsi i capelli, di mendare, riparare: “Quel 
scaldabagno ho riparato io, mentre il piccolo di 7 litri perde, la 
cucina e la lavatrice sono anche loro guasti. “Ma è in vano, nessuno di 
tecnici albanesi vuole venire.” Il professore vive dal aiuto sociale 
datagli dalla Amministrazione Provvisoria delle Nazioni Unite. Riceve 
65 DM. Potrebbe nuovamente chiedere il diritto alla pensione che 
riceveva fino alla bombardamento (di due e mezzo anni fa), però “che 
cosa sono 16, 20 marchi”. Inoltre non ha alcun contatto con i organi 
statali della Repubblica di Serbia, e sulla domanda chi sia 
responsabile per tutto ciò che li succede, risponde: “Unmik.” 
Nonostante tutto, è sicuro che i giorni migliori verranno: “Soltanto 
non so se sarò vivo fino a tal momento.”

Come trascorre la giornata? Si alza alle otto, va a dormire alle 
undici. Non si annoia, lavora sempre qualcosa, rinforza la sicurezza, 
“per ogni eventualità, per non dover rifugiarmi nella cantina”. Le ora 
passa leggendo, sfogliando il dizionario del tedesco. Cucina, mantiene 
l’igiene personale (“mi preparo per la giornata”), pulisce e ripara, 
specialmente i danni dagli incidenti che succedono quasi ogni notte, 
“mi riposo se non ho delle altre difficoltà” Non possiede l’apparecchio 
TV, il radio di marca “Sony” gli hanno rubato, un altro “buono” è 
guasto, e gli è rimasto uno vecchio, prima dalla Seconda Guerra. Nelle 
sere ascolta “Voice of America” e “Radio Free Europe”. Croce Rosa gli 
ha regalato il radio con la maniglia per la carica, ma non lo usa, “è 
peri bambini”. In fine, scrive il suo diario pedantemente.

Milosh Nekic dalla Prizren non ha i parenti vicini. I cugini più 
lontani di parentela, si trovano “nei campi di rifugio, oppure 
girovagano per la Serbia”. Anche i suoi genitori lavoravano nella 
pubblica istruzione, il padre sotto il regime turco, faceva a mano la 
mappa di Kosovo e il globo terrestre. Non era mai membro di alcun 
partito politico.

Dalla sua biografia si può dedurre che dai entrambi i lati “era 
Kosovaro”, e perciò non ha nessuna intenzione di lasciare la città 
nativa, il patrimonio rimastogli in eredità. “La mia Serbia è qua. Mie 
mani e il cuore sono puliti. Dopo tutte le tentazioni, penso che non 
abbia compromesso l’onore di mia casa, i miei antenati. Una morte sotto 
questo tetto mi viene più dolce, che altrove, come profugo, di fare 
brutta figura di me stesso e dei miei vecchi. La mia famiglia è una 
delle più antiche di Prizren. Tutto il suo lavoro e il sangue, ha 
investito qui, nel Kosovo”, dice e ripete: “La mia Serbia è qua”.

ANA VUCKOVIC

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