Notizie Est #284 - Kosovo



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NOTIZIE EST #284 - KOSOVO
27 novembre 1999
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DOSSIER: LE SPECULAZIONI SULLE VITTIME IN KOSOVO 
/ 3
a cura di Andrea Ferrario


IL CONTESTO DELLA CAMPAGNA DI DISINFORMAZIONE 
SULLE VITTIME IN KOSOVO

E' sempre difficile interpretare in tempo reale 
le "grandi manovre" politiche che si svolgono 
intorno alla situazione assolutamente caotica 
del dopoguerra in Kosovo. Cercheremo qui di 
riassumere gli eventi salienti che si sono 
prodotti in coincidenza con i principali momenti 
della campagna di disinformazione e di 
abbozzarne qualche interpretazione. 

L'articolo di "El Pais" riportante le 
dichiarazioni di Pujol e Palafox e' stato 
pubblicato il 23 settembre, negli stessi giorni 
in cui si chiudeva il processo di disarmo e 
scioglimento dell'UCK e del suo parziale 
confluire in una forza di protezione civile 
controllata dalla NATO e pressoche' disarmata, 
ma allo stesso tempo inglobante la catenda di 
comando della forza albanese. Si e' trattato 
della conclusione, senza particolari intralci 
per l'alleanza occidentale, di uno dei momenti 
politici piu' delicati del dopoguerra. La 
chiusura di tale capitolo ha consentito di 
concentrarsi maggiormente su un altro aspetto 
cruciale, rimasto pericolosamente aperto e 
indefinito gia' da tempo. In quei medesimi 
giorni sono infatti emerse con chiarezza, in 
seno ai paesi NATO, divergenze riguardo ai 
futuri destini del Kosovo, evidenziatesi in 
particolare con le dichiarazioni di anonimi 
funzionari USA, riportate dal "Washington Post" 
il 24 settembre (il giorno dopo l'uscita 
dell'articolo di "El Pais"), secondo i quali 
l'indipendenza del Kosovo sarebbe indesiderata, 
ma inevitabile a medio termine (si veda "Notizie 
Est" #264, 25 settembre 1999). A tali 
dichiarazioni ha fatto seguito immediatamente 
una grande quantita' di altre dichiarazioni da 
parte di esponenti USA ed europei che si sono 
pronunciati chiaramente contro una tale ipotesi 
(si veda "Notizie Est" #269, 18 ottobre 1999). 
E' chiaro che i circoli che vedono un Kosovo 
indipendente come inevitabile rimangono ancora 
minoritari, anche in seno alla sola 
amministrazione USA, ma in realta' le loro 
argomentazioni sono particolarmente "pericolose" 
perche' le voci contrarie a tale ipotesi, 
seppure in maggioranza, non sembrano sapere 
offrire alternative concrete e infatti tutti 
coloro, americani o europei, che hanno reagito 
opponendosi ogni ipotesi di indipendenza del 
Kosovo, si sono ben guardati dallo specificare 
in concreto come arrivare ad altre soluzioni. 
Tra fine settembre e i primi di ottobre ci sono 
stati due altri sviluppi di grande importanza. 
Il primo e' stato il drastico calo di 
partecipazione media alle manifestazioni 
organizzate dall'opposizione serba a Belgrado e 
in altre citta' (piu' nutrite la' dove invece 
non erano egemonizzate dai principali partiti di 
opposizione), rendendo cosi' sempre piu' 
evidente l'impossibilita', a breve termine, di 
un cambio di regime in Serbia su pressioni di 
una piazza "controllata" da forze politiche 
fidate. L'altro e' stato il passaggio da un 
impegno generico a tenere in Kosovo elezioni in 
primavera, a quello di tenere elezioni 
unicamente locali al fine esplicito di evitare 
ogni dibattito riguardo al futuro status del 
Kosovo. Successivamente, nel corso di ottobre si 
e' passati dal termine previsto della primavera 
a un vago "non prima dell'estate", diventato poi 
a meta' novembre un "nell'autunno 2000" 
("Danas", 2 novembre 1999). Contro la fissazione 
immediata di qualsiasi termine per le elezioni 
si sono pronunciati in ottobre i vertici 
dell'OSCE, che e' poi l'organizzazione alla 
quale l'ONU ha conferito in Kosovo le competenze 
per la "democrazia" e per l'organizzazione delle 
elezioni. Secondo l'OSCE, l'amministrazione ONU 
deve prima procedere a un censimento della 
popolazione (compito necessariamente molto lungo 
da eseguire, nella situazione attuale) e solo 
dopo di cio' fissare un termine per le elezioni.

Abbiamo visto, nelle parti precedenti, che a 
fine settembre le dichiarazioni rese da Pujol e 
Palafox a "El Pais" sono state riprese cosi' 
come erano da numerose fonti, senza tuttavia 
dare luogo a ulteriori sviluppi. Una vera e 
propria campagna e' cominciata invece solo a 
partire dal 17 ottobre, con l'articolo della 
"Stratfor", molto piu' lungo di quello di "El 
Pais", ma che non aggiungeva nulla, a livello di 
fatti, rispetto al primo. Alla luce di cio' e' 
difficile spiegarsi perche' proprio nella 
seconda meta' di ottobre, e non subito dopo il 
pezzo di "El Pais", questa campagna abbia 
trovato tra le grandi testate di tutto il mondo 
una tale eco (che tra l'altro dura ancora oggi). 
Se si ripercorrono gli eventi di quei giorni, 
tuttavia, se ne possono intuire in qualche modo 
i motivi. Lo stesso giorno in cui veniva 
pubblicato il pezzo della "Stratfor" (17 
ottobre), il "Washington Post" pubblicava un 
lungo articolo di Peter Finn sulla perdita di 
consensi da parte di Thaci in Kosovo, sostenendo 
un ritorno "alla grande" di Rugova. L'articolo 
si basa in massima parte su fonti anonime e su 
dichiarazioni di esponenti del partito di Rugova 
e contiene affermazioni che francamente e' 
difficile non definire grottesche ("Un'indagine 
di opinione scientifica commissionata da 
un'organizzazione occidentale e non pubblicata 
ha trovato un sostegno di 4-1 per Rugova 
rispetto a Thaci. Una recente indagine non 
scientifica condotta su 2.500 elettori da 
un'organizzazione informativa indipendente [a 
giudicare dai dati, si dovrebbe trattare 
dell'"indagine" condotta dal KIC, controllato 
dal partito di Rugova, appena prima 
dell'operazione di fuga di Rugova in Italia - 
a.f.] in una competizione a due tra Thaci e 
Rugova il secondo vincerebbe con il 92% dei 
voti" [sic!]. E' il solito modello: dati 
anonimi, privi di riscontro e quindi non 
smentibili da nessuno. Attraverso il "Washington 
Post" passano tuttavia spesso le posizioni o gli 
esorcismi dei vertici USA. In questo caso e' 
chiaro che il timore non e' certo un 
difficilmente ipotizzabile massiccio ritorno di 
popolarita' per Rugova (come invece sostiene 
Joseph Halevi nel "Manifesto" del 18 novembre 
scorso), che provocherebbe gli entusiasmi di 
tutti gli occidentali, vista la sua provata 
affidabilita', quanto piuttosto il fatto che 
ANCHE Thaci e i suoi stiano perdendo 
credibilita', una cosa piu' che probabile viste 
le sciagurate politiche che stanno conducendo. 
L'articolo e' cioe' un sintomo dei timori delle 
cancellerie occidentali per la perdita di 
controllo sugli sviluppi in Kosovo, timori 
strettamente legati ai futuri destini del Kosovo 
e alle richieste univoche di indipendenza degli 
albanesi del Kosovo, "radicali" o "moderati" che 
siano.

A meta' ottobre si sapeva gia' che era imminente 
la comunicazione da parte del Tribunale dell'Aja 
di dati riguardanti le vittime ritrovate, visto 
che gia' dall'estate era stato affermato che con 
la fine di ottobre sarebbe finita la prima fase 
delle ricerche, prima della loro prevista 
interruzione invernale. Quando e' uscito il 
pezzo della "Stratfor", ci si trovava inoltre 
alla vigilia di molti appuntamenti cruciali per 
il futuro assetto dei Balcani, appuntamenti che 
erano tutti gia' in programma almeno fin da 
settembre e che rientrano anch'essi nel quadro 
generale dei timori per i futuri assetti 
balcanici, che dovranno necessariamente avere al 
loro centro Kosovo e Serbia. Per i giorni 
successivi al via della campagna (piu' 
esattamente, per il 25 ottobre) era previsto 
l'avvio dei cruciali incontri tra partiti 
montenegrini e partiti serbi, i cui esiti sono 
di importanza cruciale per tali assetti. Gli 
incontri si sono svolti in un'atmosfera molto 
"diplomatica", senza scontri o scambi di accuse, 
terminando con l'impegno a proseguire il 
dialogo. Negli stessi giorni, il vice-primo 
ministro serbo Nikolic dichiarava che Belgrado 
non si opporra' a un eventuale secessione del 
Montenegro, con un linguaggio moderato ben 
diverso dai toni roventi dei mesi precedenti. 
Alcuni giorni dopo il termine dei colloqui serbo-
montenegrini, il capo dell'esercito jugoslavo, 
Ojdanic (fedele di Milosevic e tra l'altro 
ricercato dal Tribunale dell'Aja, di fronte al 
quale il Montenegro si era impegnato a 
consegnare ogni accusato di crimini di guerra), 
si e' recato in visita in Montenegro e ha avuto 
un colloquio "su aspetti politici e della 
sicurezza" con il primo ministro Vujanovic, uomo 
di Djukanovic. Alcuni giorni prima avevano 
cominciato a circolare voci sulle imminenti 
dimissioni da primo ministro federale del 
montenegrino Bulatovic, uomo di Milosevic e 
acerrimo nemico di Djukanovic, e sull'offerta 
del suo posto a Djukanovic. Bulatovic ha 
dichiarato di essere disponibile a mettere a 
disposizione la sua carica "se gli interessi del 
paese lo richiedono" (si vedano in merito i 
numerosi articoli comparsi su "Monitor", "Vreme" 
e "Danas" tra fine ottobre e inizio novembre). 
Immediatamente dopo gli incontri tra partiti 
serbi e montenegrini, vi e' stata l'introduzione 
ufficiale del marco tedesco come valuta 
parallela in Montenegro. La mossa e' stata 
preceduta da svariati incontri bilaterali, in 
cui USA, Gran Bretagna e Germania hanno 
categoricamente ammonito Djukanovic che la 
"comunita' internazionale" non e' favorevole a 
un'indipendenza del Kosovo, ma allo stesso tempo 
hanno mostrato un aperto entusiasmo per 
l'adozione ufficiale del marco tedesco come 
valuta parallela, condannata invece dal governo 
federale. Dalle modalita' e dal contesto 
dell'introduzione del marco come valuta 
parallela in Montenegro si puo' intuire (ma e' 
solo una nostra ipotesi), che tale mossa venga 
considerata dagli occidentali come un test per 
le future politiche economiche previste dal 
Patto di Stabilita' per i Balcani (consigli 
valutari e "euroizzazione" delle monete locali), 
condotto a partire dal cuore del problema, la 
Federazione Jugoslava. Non a caso, la mossa del 
governo di Podgorica e' stata accolta con 
particolare fervore dall'opposizione serba e, in 
particolare, Draskovic ha chiesto l'adozione 
ufficiale del marco come valuta parallela anche 
in Serbia (di fatto, il marco e' gia' da anni in 
Serbia una valuta parallela, ma non ufficiale). 
I vertici del potere montenegrino, tuttavia, non 
sono uniti nelle loro politiche - tra i piu' 
moderati l'introduzione del marco non viene 
vista come un passo verso l'indipendenza, mentre 
i piu' radicali la considerano apertamente un 
passo in tale direzione.

In un altro paese vicino al Kosovo, la 
Macedonia, si sono svolte elezioni presidenziali 
che hanno una grande importanza per la regione e 
per i futuri del Kosovo in particolare e sono 
state attese con ansia dalle grandi potenze. 
Dopo una "preoccupante" vittoria al primo turno 
di Tito Petkovski, che aveva basato la sua 
campagna sui sentimenti patriottici macedoni e 
antialbanesi, al secondo turno ha vinto il 
candidato del fidato premier Georgievski, ma, 
soprattutto, il partito albanese guidato da 
Arben Xhaferri (DPA), che fa parte della 
coalizione di governo, ha dimostrato grande 
disciplina nel mobilitare gli elettori di 
nazionalita' albanese a dare il loro voto al 
candidato di un partito macedone fino a ieri 
radicalmente antialbanese (e, come sembra ormai 
certo, nell'arrotondare in maniera decisiva il 
voto a suo favore organizzando ampi brogli). La 
situazione in Macedonia rimane instabilissima, 
ma la totale obbedienza e disciplina di cui ha 
dato prova il maggiore partito della minoranza 
albanese ha dato un sospiro di sollievo agli 
strateghi della NATO. Per Xhaferri, si tratta di 
un'ulteriore conferma della propria 
"affidabilita'", dopo che durante i 
bombardamenti aveva evitato di criticare nel 
governo le politiche inumane verso i profughi 
dal Kosovo e, soprattutto, aveva operato di 
concerto con il governo macedone e la NATO per 
soffocare ogni tentativo di creare cellule 
dell'UCK nei campi profughi in Macedonia (si 
vedano le dichiarazioni rilasciate a riguardo 
dal ministro degli interni macedone Trajanov, in 
AIM Skopje, 4 novembre 1999).

Accanto a questi sviluppi, ve ne sono stati 
altri successivi di minore rilievo, ma che 
completano in maniera eloquente un quadro di 
generale rimescolamento delle carte che trova le 
sue radici proprio tra settembre e ottobre. Per 
esempio, del tutto a sorpresa, la settimana 
scorsa sono stati aperti in Serbia processi 
contro alcuni riservisti per crimini commessi in 
Kosovo (sei accusati in tutto, uno in un 
processo isolato e altri cinque in un processo 
collettivo in cui comunque il principale capo di 
accusa e' quello di avere lavorato come spie 
della NATO). Sono stati liberati senza preavviso 
anche alcuni prigionieri politici albanesi 
deportati nelle prigioni serbe. Si tratta di due 
fatti davvero piccoli, ma che vanno nella 
direzione di un "rifarsi il trucco". C'e' stato 
poi il vertice OSCE dei giorni scorsi, per il 
quale era previsto da settimane un tentativo 
della Albright di portare all'"unificazione 
politica" dei principali leader jugoslavi che si 
oppongono a Milosevic, cioe' Djukanovic, 
Draskovic, Djindjic e Avramovic, tentativo poi 
riuscito solo in parte. Prima del vertice, a 
fine ottobre, si erano fatte sempre piu' 
insistenti, all'interno dell'UE, le pressioni 
per una parziale cancellazione delle sanzioni 
contro la Serbia, per ora rimandata. Ma e' 
rilevante che tali pressioni abbiano trovato per 
la prima volta un'apertura da parte del "falco" 
USA Albright che, ricevendo i leader 
dell'opposizione serba il 3 novembre, ha 
dissociato la cancellazione delle sanzioni dalla 
rimozione di Milosevic, legandola a una piu' 
vaga "tenuta in Serbia di elezioni libere e 
democratiche" (esponendosi al sarcasmo dei 
giornalisti quando, alla domanda scontata su 
cosa avrebbe fatto se Milosevic avesse vinto le 
elezioni, ha risposto: "se mia nonna avesse le 
ruote sarebbe una bicicletta" - Associated 
Press, 3 novembre 1999). Tutto questo in un 
momento in cui politici ed economisti continuano 
a osservare che non e' possibile alcuna 
stabilita' dei Balcani tenendo fuori la Serbia. 
Altri due fatti poco chiari si sono verificati 
sempre tra ottobre e novembre: il misterioso 
incidente subito il 3 ottobre dall'autovettura 
di Draskovic, nel quale sono rimasti uccisi 
quattro suoi collaboratori, mentre il leader del 
SPO e' rimasto miracolosamente illeso, e 
l'attentato dalle dinamiche poco chiare compiuto 
il 31 ottobre contro il leader del Movimento di 
Resistenza Serba del Kosovo, Momcilo Trajkovic 
(si veda AIM Pristina, 11 novembre 1999). 
Riguardo a quest'ultimo attentato, va segnalato 
che i giornali del regime di Belgrado 
("Politika" e "Borba") hanno esplicitamente 
attaccato il loro ex alleato Trajkovic, 
accusandolo di essersi inflitto la ferita da 
solo - un'accusa davvero poco credibile, ma che 
e' indice delle tensioni esistenti riguardo alla 
funzione politica di quello che rimane della 
comunita' serba in Kosovo. La storia degli 
ultimi anni insegna che spesso i momenti di 
"svolta interna" negli assetti dellapolitica 
serba sono stati contrassegnati da aggressioni e 
atti di violenza. Ai casi poco chiari di 
Draskovic e Trajkovic va aggiunto l'attentato 
compiuto il 22 ottobre contro il giornalista 
serbo-bosniaco Zeljko Kopanja, vicino a Milorad 
Dodik, scampato per miracolo a una bomba (ha 
avuto le gambe amputate) dopo essersi "esposto" 
di recente con la pubblicazione di una serie di 
materiali sui legami tra Belgrado e i criminali 
serbi responsabili di stragi in Bosnia. Anche in 
campo albanese vi sono stati episodi poco 
chiari, come l'uccisione di uno stretto 
collaboratore di Rugova e lo strano incidente 
all'ex comandante dell'UCK Remi, che ai tempi si 
era opposto alla firma di Rambouillet ed era 
rimasto su posizioni contrarie a Thaci, in 
particolare per quanto riguarda la 
smilitarizzazione dell'UCK (AFP, 26 novembre 
1999).

L'ultimo evento da segnalare e' quello 
dell'incidente all'aereo Atr-42 in volo da Roma 
a Pristina, avvenuto il 12 novembre. Non vi e' 
alcun elemento concreto che consenta di mettere 
in dubbio la versione dell'incidente. Le 
lentezze nel comunicarne l'avvenimento, o le 
spiegazioni contraddittorie, possono essere 
semplicemente il frutto del caos totale della 
doppia amministrazione NATO/ONU o degli eccessi 
di prudenza di fronte a un caso cosi' delicato 
in una situazione di protettorato e di immediato 
dopoguerra. Quello che invece e' sorprendente e' 
che il 17 novembre, a ben cinque giorni di 
distanza dall'incidente, l'inviato jugoslavo 
all'ONU, Jovanovic, si sia sentito in dovere di 
esprimere, senza esserne sollecitato, le proprie 
condoglianze per l'incidente, aggiungendo la 
sibillina frase: "putroppo ["regrettably"], i 
voli diretti in Kosovo vengono operati in 
violazione della sovranita' e dell'integrita' 
della Repubblica Federale di Jugoslavia", 
aggiungendo che "i voli verso il Kosovo violano 
'le norme e le norme e i regolamenti di 
traffico, la cui implementazione' e' di 
responsabilita' della Jugoslavia" e "chiedendo 
che i suoi diritti sovrani vengano rispettati 
nel suo intero spazio aereo" (Reuters, 17 
novembre 1999). Tre giorni dopo l'aeroporto di 
Pristina e' stato chiuso ai voli civili per 
motivi tecnici (ai quali viene attribuita per 
ora l'origine del disastro), con conseguenze 
disastrose per la consegna degli aiuti in questo 
cruciale inizio d'inverno. Il governo jugoslavo 
non ha esitato a utilizzare la tragedia dell'Atr-
42 per mandare uno dei tipici avvertimenti 
trasversali che emergono nei momenti di 
riassetto della scena balcanica, pure al prezzo 
di esporsi a pesanti sospetti.

Per completare il quadro generale, vanno 
segnalate le dichiarazioni fatte di recente da 
Clinton a Firenze in occasione del suo incontro 
con D'Alema. Il presidente USA, secondo quanto 
riferisce "La Stampa" del 21 novembre, ha 
concordato con D'Alema che e' necessario 
"affrontare la sfida della stabilita' nei 
Balcani mettendo alle strette Milosevic, ma 
evitando l'indipendenza del Kosovo", 
sottolineando la necessita' di  "rafforzare il 
Patto di Stabilita' ed i progetti di 
ricostruzione". Clinton ha poi affermato: "sono 
a favore di un'immediata revisione delle 
sanzioni se ci saranno libere elezioni in 
Serbia. [...] Non bisogna lasciare alcuna carta 
in mano a Milosevic", dicendosi poi 
"profondamente preoccupato" per il rischio della 
proliferazione di Stati indipendenti nei 
Balcani, "a cominciare dal Kosovo". Anche a 
Sofia, in Bulgaria, il presidente USA ha 
precisato il 22 novembre che "il Kosovo non puo' 
configurarsi come stato indipendente" ("Corriere 
della Sera", 24 novembre 1999).

Non esistono elementi per stabilire nessi 
diretti tra la pubblicazione dei pezzi di "El 
Pais" e "Stratfor" e tutti questi fatti che 
trovano origine nelle spinte interne ai Balcani 
e negli obiettivi che si pongono in merito le 
grandi potenze. L'enorme fortuna che hanno avuto 
i due pezzi (e forse la loro stessa origine) e' 
tuttavia attribuibile a questo clima generale di 
incertezza, di timori e di conseguenti lotte 
interne alle leadership occidentali, un clima 
confermato anche dalle numerose 
reinterpretazioni divergenti delle strategie 
militari applicate durante la guerra e dai 
saltuari scambi di accuse in merito. Cosi' come 
nel maggio scorso avevamo notato che, al di la' 
delle dichiarazioni di facciata, 
l'incriminazione di Milosevic alla vigilia degli 
accordi era probabilmente frutto delle pressioni 
di solo alcune lobby occidentali ed era 
risultata sgradita ad altre importanti lobby 
(con ogni probabilita', alla Casa Bianca, per 
fare solo un esempio - si vedano "Washington 
Post", 28 maggio 1999 e "New York Times", 28 
maggio 1999, nonche' "Notizie Est" #235, 28 
maggio 1999), in questo momento sembrano essere 
passate all'attacco altre lobby che si 
preoccupano soprattutto di restituire un ruolo 
alla Serbia nei Balcani e di evitare mosse come 
l'indipendenza del Kosovo che potrebbero avere 
ripercussioni disastrose sulla "stabilita'" 
(quella che interessa alla NATO) nell'intera 
penisola. Le opzioni cui mirano queste lobby 
sono, a quanto si puo' intuire, di diverso segno 
e coprono una gamma di soluzione che va da una 
parziale reintegrazione del Kosovo nella Serbia 
(che evidentemente qualcuno ha in testa, ma che 
dal punto di vista pratico sembra difficilmente 
realizzabile e probabilmente e' poco gradita 
perfino a governo e opposizione a Belgrado), 
alla creazione di una Repubblica del Kosovo 
interna a una Federazione Jugoslava piu' 
elastica (progetto propugnato, seppure non 
esplicitamente, da Carl Bildt, inviato speciale 
dell'ONU per il Kosovo  - "Blic", 23 ottobre 
1999). Una soluzione che eviti possibilmente 
l'indipendenza del Kosovo e' comunque urgente, 
per i paesi NATO. Infatti, la situazione 
generale dei Balcani ha subito una forte 
accelerazione verso la "destabilizzazione", 
prodottasi tra ottobre e i primi di novembre, ma 
chiaramente nell'aria gia' a fine settembre: al 
quadro perennemente irrisolto in Bosnia si sono 
aggiunti l'accentuarsi, con la malattia di 
Tudjman, dell'incertezza sui futuri sviluppi in 
Croazia, gia' in piena crisi economica e 
politica; la ripresa delle rivolte operaie in 
una Romania sempre piu' in un vicolo cieco 
economico; la caduta del fidato Majko in Albania 
e le faide interne al Partito Socialista di Nano 
e al Partito Democratico di Berisha, con la 
sconfitta dei rispettivi "moderati"; le gia' 
menzionate elezioni macedoni, che hanno 
dimostrato l'assenza di una base sufficiente di 
consenso popolare per l'attuale governo 
Georgievski, salvato poi all'ultimo dal partito 
di Xhaferri; la parallela fragilita' del governo 
in Bulgaria, evidenziatasi alle ultime 
amministrative, e l'emergere del fatto che anche 
in questo finora tranquillo paese covano 
tensioni nazionali.


Una campagna mirata a negare, o a 
"ridimensionare", i crimini compiuti in Kosovo, 
costituisce un'arma politica rilevante nei 
conflitti all'interno della NATO per quelle 
lobby che intendono ottenere, tra le e'lite, 
maggiori consensi a qualche nuova forma di 
distensione con la Serbia o a nuove 
"architetture" balcaniche delle quali la Serbia 
deve necessariamente essere il centro 
geografico. Al limite estremo, negando il 
"genocidio", mirano al ritiro 
dell'incriminazione degli indagati dal Tribunale 
dell'Aja, che costituisce un ostacolo non 
indifferente. Tale ritiro non interessa tanto 
per quanto riguarda Milosevic (o al massimo 
interessa solo nella misura in cui permetterebbe 
a quest'ultimo di andare in un dorato esilio), 
con il quale ormai i ponti sembrano 
definitivamente rotti e per la riabilitazione 
del quale ci vorrebbe un voltafaccia colossale, 
quanto piuttosto per "sdoganare" tutto il folto 
sottobosco di personaggi medio-alti che 
potrebbero minare le basi del regime passando 
all'opposizione (quelli che lo hanno gia' fatto 
prima della guerra sono una schiera, ma i veri 
detentori del potere politico ed economico sono 
ancora con Milosevic). Ma un ritiro delle 
incriminazioni non ci sempra probabile visto 
che, come abbiamo esposto, ne mancano le basi. 
La campagna, piu' verosimilmente, e' sostenuta 
da quei soggetti che vogliono in generale creare 
il clima piu' adatto per le nuove architetture 
di cui sopra, approfittando tra le altre cose 
dei prossimi cinque mesi in cui gli operatori 
del Tribunale Internazionale non lavoreranno 
alla ricerca delle fosse comuni e quindi non ci 
sara' l'impaccio di macabre scoperte a turbare 
il loro agire. Vista la contraddittorieta' dei 
loro obiettivi e le difficolta' del dovere fare 
i conti con una realta' estremamente complessa, 
i loro piani non dovranno necessariamente avere 
un pieno successo.


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