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Una finestra sul mondo



Una finestra sul mondo
Edward Said*


Gli intellettuali occidentali hanno contribuito a preparare e giustificare 
la guerra all’Iraq. Venticinque anni dopo la pubblicazione di Orientalismo, 
Edward Said ribadisce le sue tesi nella nuova introduzione al libro

Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una postfazione a 
Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo di aver detto e 
non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non soltanto i 
molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della prima 
edizione del saggio, ma anche gli errori d’interpretazione sempre più 
frequenti a cui si prestava quell’opera sulle rappresentazioni correnti 
dell’“Oriente”.

Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con più ironia che 
irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo all’incalzare 
dell’età. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali, 
politici e personali – gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim 
Abu-Lughod – ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche 
rassegnazione e una certa ostinata volontà di andare avanti.

Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999) 
descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e 
presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata 
degli ambienti della Palestina, dell’Egitto e del Libano che hanno inciso 
sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si 
fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la 
guerra arabo-israeliana del 1967.

Orientalismo è un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia 
contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente 
quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: 
entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte 
come identificazione dell’Altro.

Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e 
all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più 
evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del 
disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza – sentimenti che per la 
maggior parte hanno a che fare con l’islam e gli arabi da un lato, e “noi” 
occidentali dall’altro – sono imprese su larga scala.

La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra 
civile libanese. Quella guerra terminò nel 1990, ma le violenze e gli 
orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al 
fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda 
intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova 
invasione della Cisgiordania e di Gaza.

Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte 
le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente è più 
ripugnante e apocalittica degli eventi dell’11 settembre 2001 con le loro 
conseguenze, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre scrivo queste 
righe, prosegue l’occupazione illegale dell’Iraq da parte della Gran 
Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente 
preoccupanti. Tutto ciò fa parte di quello che viene definito uno scontro 
fra civiltà implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.

Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del 
Medio Oriente, degli arabi e dell’islam è migliorata, ma purtroppo non è 
così. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli 
Stati Uniti l’irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre più stretta 
delle generalizzazioni svilenti e dei cliché trionfalistici, il dominio del 
potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli 
“altri” ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione 
delle biblioteche e dei musei iracheni.

I governanti americani e i loro lacchè intellettuali sembrano incapaci di 
capire che la storia non si può cancellare come una lavagna per permettere 
a “noi” di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e 
pretendere che quei popoli inferiori le seguano. È abbastanza comune, a 
Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano 
di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche 
società e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in 
un barattolo.

Ma questo è accaduto spesso con l’“Oriente”, concetto semi-mitico che dopo 
l’invasione napoleonica dell’Egitto alla fine del diciottesimo secolo è 
stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso 
una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa è la 
natura dell’Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo 
processo gli innumerevoli sedimenti della storia – una varietà vertiginosa 
di popoli, lingue, esperienze e culture – vengono accantonati o ignorati, 
mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e 
portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.

La mia tesi è che la storia è fatta da uomini e donne, e può essere 
disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme 
imposte e distorsioni tollerate, in modo che il “nostro” est, il “nostro” 
Oriente diventi una cosa “nostra” che possiamo possedere e dirigere a 
piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i 
popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea 
di ciò che sono e vogliono essere.

L’attacco alle società arabe e musulmane contemporanee per la loro 
arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti 
delle donne è stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato 
una cosa semplice: i concetti di modernità, illuminismo e democrazia non 
sono così ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi 
giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la 
minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal 
nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana può costruire un 
finto modello di “democrazia” da libero mercato.

Ma c’è una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi 
che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia, da uno studio e un’analisi 
attenti e condotti per amor di ricerca, e l’altra conoscenza, che 
s’inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e 
guerra aperta.

Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia è il fatto 
che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una 
guerra imperialistica e l’abbia mossa contro una sconquassata dittatura da 
terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo, 
al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma 
mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi 
orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.

Gli esperti
Le persone che hanno più influito sul Pentagono e sul Consiglio per la 
sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush sono stati personaggi come 
Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che 
hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la 
“mentalità araba” e l’ormai secolare declino dell’islam, che soltanto la 
potenza americana, secondo loro, può arrestare.

Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli 
allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di 
pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una 
conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di 
quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di 
commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici, 
innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse 
invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per 
aizzare l’“America” contro il demone straniero.

Il nocciolo del dogma
La guerra contro l’Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa 
in modo organizzato l’idea che quelli laggiù non sono come “noi” e non 
condividono i “nostri” valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma 
tradizionale dell’orientalismo.

I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi 
cliché, gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del 
potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l’unica cosa 
che quella gente capisce è il linguaggio della forza) che usavano gli 
studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e 
dell’Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in 
Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in 
Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una 
schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verrà 
affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione, 
alla riorganizzazione della vita politica dell’Iraq e alla privatizzazione 
della sua industria petrolifera.

Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come 
gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione: 
illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene 
di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor più triste è 
vedere che c’è sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a 
presentare l’impero sotto una luce benevola o altruistica con parole 
tranquillizzanti.

Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare 
la questione se l’imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia 
proseguito in Oriente dopo l’ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa. 
Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi 
incessantemente delle depredazioni dell’impero non è che un modo per 
sottrarsi alle responsabilità del presente. “Avete sbagliato, avete 
fallito”, dice loro l’orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca 
il contributo letterario di V.S. Naipaul, il quale descrive le vittime 
dell’impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.

Che superficialità nel valutare l’intrusione imperiale! E che scarso 
desiderio di tenere conto dell’interminabile successione di anni durante i 
quali l’impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare 
un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.

Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con 
l’ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa 
attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per 
tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il 
controllo strategico sul Golfo, l’Iraq, la Siria, la Palestina e 
l’Afghanistan. Si pensi inoltre all’ascesa dei nazionalismi anticoloniali 
per il breve periodo dell’indipendentismo liberale, all’era dei colpi di 
mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo 
religioso, della lotta irrazionale e della brutalità senza mediazioni nei 
confronti dell’ennesimo branco di “indigeni”. Ognuna di queste epoche e di 
queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell’altro; ognuna dà luogo 
a immagini riduttive, a polemiche litigiose.

In Orientalismo l’idea era usare la critica umanistica per ampliare il 
terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi 
più lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia 
polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel 
che ho cercato di fare l’ho chiamato “umanesimo”, termine che continuo 
ostinatamente a usare malgrado l’atteggiamento sprezzante con cui lo 
liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per “umanesimo” intendo 
innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake definì 
poeticamente “le pastoie forgiate dalla mente”, cosicché si possa usare la 
propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una 
comprensione riflessiva.

Aggiungo che l’umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri 
interpreti e altre società e periodi, tanto che a rigor di termini 
l’umanista non può esistere nell’isolamento.

Il contesto della storia
È dunque corretto affermare che ogni sfera è legata all’altra e che nulla 
di quanto accade nel nostro mondo è mai isolato e immune da influssi 
esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell’ingiustizia e della sofferenza 
collocandoli nel più ampio contesto della storia, della cultura e della 
realtà socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi 
ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese 
all’autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando 
piena attenzione alla realtà del popolo ebraico, delle persecuzioni e del 
genocidio che ha subìto.

La cosa importante è che la lotta per l’uguaglianza in Palestina/Israele 
deve tendere a una finalità umana, cioè la coesistenza, non l’ulteriore 
repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da 
aver ricevuto la mia formazione quarant’anni fa nel campo della letteratura 
comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la 
fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Ma non si deve 
dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il 
filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori 
tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey, 
Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo 
secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.

Ai giovani dell’attuale generazione, l’idea stessa di filologia suggerisce 
qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realtà la filologia 
è la più fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi è 
esemplificata nel modo più ammirevole dall’interesse che Goethe aveva in 
generale per l’islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano 
del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il 
Westöstlicher Diwan e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur 
(letteratura mondiale).

Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del 
mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando 
l’individualità di ciascuna opera senza perdere di vista l’insieme. È assai 
ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato 
cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a 
quella standardizzazione e a quell’uniformità che Goethe cercò di evitare 
con il suo pensiero.

È quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il 
titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, 
pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach 
era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere 
proprio una testimonianza della molteplicità e concretezza della realtà 
rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.

Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il 
suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di 
un’epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo 
filologico, concreto, con sensibilità e intuito, usando l’erudizione e la 
loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacità 
di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della 
letteratura islamica.

La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non è mai 
stata sufficiente, così come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai 
potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un 
autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura 
filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in 
pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la 
propria soggettività, nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal 
punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziché accostarsi a 
tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilità, la 
filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente 
umanistico da applicare con generosità e ospitalità. Solo così la mente 
dell’interprete può fare posto dentro di sé a un Altro estraneo. 
Quest’attività creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, è 
l’aspetto più importante della missione dell’interprete.

In Germania, inutile dirlo, l’avvento del nazionalsocialismo intervenne a 
delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra, 
osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la 
crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli 
orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca 
incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor più deprimente è che 
dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l’idea e la pratica della ricerca 
umanistica hanno perso respiro e centralità. Anziché leggere nel vero senso 
della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere 
frammentario disponibile su internet e dai mass media.

Ma c’è di peggio: l’istruzione è minacciata da ortodossie nazionalistiche e 
religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo 
astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste, 
mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realtà 
oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra 
moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come 
“terrorista” per mantenere l’opinione pubblica in stato di tensione 
rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un’attenzione 
eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e 
d’insicurezza come quelli del dopo 11 settembre.

Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non 
sottovalutare la visione del mondo semplificata che l’élite relativamente 
esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come 
politica americana verso l’intero mondo arabo e musulmano. Una visione in 
cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di 
regime, sostenuti dal bilancio militare più gonfiato della storia, sono i 
concetti chiave discussi incessantemente da organi d’informazione che si 
attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti “esperti”, i quali 
confermano la linea del governo.

La riflessione, il dibattito, l’argomentazione razionale e i principi 
morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono 
plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che 
celebrano l’eccezionalità americana e occidentale, sminuiscono l’importanza 
del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.

Mi si obietterà forse che stabilisco nessi troppo diretti fra 
interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall’altra, e che 
una società tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza 
precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere 
comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e 
Richard Perle. Ma quel che si è perso davvero è il senso dello spessore e 
dell’interdipendenza della vita umana, che non si può né ridurre a una 
formuletta né liquidare come irrilevante.

Questo è solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi 
arabi e musulmani non è certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula 
Khalaf, giornalista del quotidiano britannico Financial Times, la regione è 
scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di 
che cosa sia davvero la società statunitense. Poiché i governi dei paesi 
arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana, 
usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.

Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per 
rendere più aperte quelle società dove la concezione laica della storia e 
dello sviluppo umano è stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione, 
ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di 
cancellazione di forme di sapere secolare, considerate “altre” e 
concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione 
dell’ijtihad islamico, cioè del processo di elaborazione delle norme 
islamiche a partire dal Corano, è uno dei grandi disastri culturali del 
nostro tempo. Il risultato è che ogni pensiero critico e ogni tentativo 
individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono 
semplicemente tramontati.

Identità collettive
Con ciò non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente 
regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall’altra a un 
rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile 
delle Nazioni Unite tenuto l’anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi 
limiti ha però rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il 
che denota come fatto positivo l’emergere di una nuova collettività e 
conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo “unito”.

Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno può davvero conoscere l’unità 
straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi 
conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti 
come “America”, “Occidente” o “islam” e che inventano identità collettive a 
uso e consumo di vaste masse di individui in realtà molto diversi vanno 
contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacità interpretative 
razionali che formano il retaggio dell’educazione umanistica, intese non 
come un pietismo sentimentale che c’imponga di tornare ai valori 
tradizionali o ai classici, bensì come pratica attiva di un discorso 
razionale, mondano e secolare.

Il mondo secolare è il mondo della storia così come la fanno gli esseri 
umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai 
ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziché a un 
artificioso scontro di civiltà, dobbiamo dedicare la nostra attenzione al 
lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si 
sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre e coesistono.

Ma per raggiungere questa visione più ampia occorre tempo, occorre 
un’indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunità di 
interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e 
reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo 
attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziché su luoghi comuni 
e autorità imposte dall’esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono 
nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma ciò 
non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il 
potere s’insinui persino nelle discipline più recondite e vi s’intrecci.

L’ultima cosa, ma non in ordine d’importanza, che vorrei dire è che 
l’umanesimo costituisce l’unica – oserei dire anche la massima – forma di 
resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la 
storia dell’umanità.

http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=4202
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*Edward W. Said
Nato nel 1935 a Gerusalemme, era il più noto intellettuale palestinese 
contemporaneo. Insegnava letteratura comparata alla Columbia University di 
New York. I suoi libri sono stati tradotti in 26 lingue. La sua opera più 
importante, Orientalismo, è stata pubblicata nel 1978. È morto a New York 
il 25 settembre 2003.