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Una finestra sul mondo
- Subject: Una finestra sul mondo
- From: luisa rizzo <lu-sa@mail.clio.it>
- Date: Sat, 27 Sep 2003 17:30:57 +0200
Una finestra sul mondo
Edward Said*
Gli intellettuali occidentali hanno contribuito a preparare e giustificare
la guerra all’Iraq. Venticinque anni dopo la pubblicazione di Orientalismo,
Edward Said ribadisce le sue tesi nella nuova introduzione al libro
Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una postfazione a
Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo di aver detto e
non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non soltanto i
molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della prima
edizione del saggio, ma anche gli errori d’interpretazione sempre più
frequenti a cui si prestava quell’opera sulle rappresentazioni correnti
dell’“Oriente”.
Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con più ironia che
irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo all’incalzare
dell’età. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali,
politici e personali – gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim
Abu-Lughod – ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche
rassegnazione e una certa ostinata volontà di andare avanti.
Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999)
descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e
presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata
degli ambienti della Palestina, dell’Egitto e del Libano che hanno inciso
sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si
fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la
guerra arabo-israeliana del 1967.
Orientalismo è un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia
contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente
quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica:
entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte
come identificazione dell’Altro.
Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e
all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più
evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del
disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza – sentimenti che per la
maggior parte hanno a che fare con l’islam e gli arabi da un lato, e “noi”
occidentali dall’altro – sono imprese su larga scala.
La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra
civile libanese. Quella guerra terminò nel 1990, ma le violenze e gli
orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al
fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda
intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova
invasione della Cisgiordania e di Gaza.
Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte
le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente è più
ripugnante e apocalittica degli eventi dell’11 settembre 2001 con le loro
conseguenze, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre scrivo queste
righe, prosegue l’occupazione illegale dell’Iraq da parte della Gran
Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente
preoccupanti. Tutto ciò fa parte di quello che viene definito uno scontro
fra civiltà implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.
Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del
Medio Oriente, degli arabi e dell’islam è migliorata, ma purtroppo non è
così. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli
Stati Uniti l’irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre più stretta
delle generalizzazioni svilenti e dei cliché trionfalistici, il dominio del
potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli
“altri” ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione
delle biblioteche e dei musei iracheni.
I governanti americani e i loro lacchè intellettuali sembrano incapaci di
capire che la storia non si può cancellare come una lavagna per permettere
a “noi” di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e
pretendere che quei popoli inferiori le seguano. È abbastanza comune, a
Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano
di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche
società e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in
un barattolo.
Ma questo è accaduto spesso con l’“Oriente”, concetto semi-mitico che dopo
l’invasione napoleonica dell’Egitto alla fine del diciottesimo secolo è
stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso
una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa è la
natura dell’Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo
processo gli innumerevoli sedimenti della storia – una varietà vertiginosa
di popoli, lingue, esperienze e culture – vengono accantonati o ignorati,
mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e
portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.
La mia tesi è che la storia è fatta da uomini e donne, e può essere
disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme
imposte e distorsioni tollerate, in modo che il “nostro” est, il “nostro”
Oriente diventi una cosa “nostra” che possiamo possedere e dirigere a
piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i
popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea
di ciò che sono e vogliono essere.
L’attacco alle società arabe e musulmane contemporanee per la loro
arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti
delle donne è stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato
una cosa semplice: i concetti di modernità, illuminismo e democrazia non
sono così ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi
giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la
minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal
nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana può costruire un
finto modello di “democrazia” da libero mercato.
Ma c’è una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi
che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia, da uno studio e un’analisi
attenti e condotti per amor di ricerca, e l’altra conoscenza, che
s’inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e
guerra aperta.
Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia è il fatto
che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una
guerra imperialistica e l’abbia mossa contro una sconquassata dittatura da
terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo,
al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma
mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi
orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.
Gli esperti
Le persone che hanno più influito sul Pentagono e sul Consiglio per la
sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush sono stati personaggi come
Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che
hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la
“mentalità araba” e l’ormai secolare declino dell’islam, che soltanto la
potenza americana, secondo loro, può arrestare.
Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli
allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di
pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una
conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di
quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di
commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici,
innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse
invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per
aizzare l’“America” contro il demone straniero.
Il nocciolo del dogma
La guerra contro l’Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa
in modo organizzato l’idea che quelli laggiù non sono come “noi” e non
condividono i “nostri” valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma
tradizionale dell’orientalismo.
I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi
cliché, gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del
potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l’unica cosa
che quella gente capisce è il linguaggio della forza) che usavano gli
studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e
dell’Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in
Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in
Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una
schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verrà
affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione,
alla riorganizzazione della vita politica dell’Iraq e alla privatizzazione
della sua industria petrolifera.
Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come
gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione:
illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene
di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor più triste è
vedere che c’è sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a
presentare l’impero sotto una luce benevola o altruistica con parole
tranquillizzanti.
Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare
la questione se l’imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia
proseguito in Oriente dopo l’ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa.
Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi
incessantemente delle depredazioni dell’impero non è che un modo per
sottrarsi alle responsabilità del presente. “Avete sbagliato, avete
fallito”, dice loro l’orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca
il contributo letterario di V.S. Naipaul, il quale descrive le vittime
dell’impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.
Che superficialità nel valutare l’intrusione imperiale! E che scarso
desiderio di tenere conto dell’interminabile successione di anni durante i
quali l’impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare
un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.
Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con
l’ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa
attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per
tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il
controllo strategico sul Golfo, l’Iraq, la Siria, la Palestina e
l’Afghanistan. Si pensi inoltre all’ascesa dei nazionalismi anticoloniali
per il breve periodo dell’indipendentismo liberale, all’era dei colpi di
mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo
religioso, della lotta irrazionale e della brutalità senza mediazioni nei
confronti dell’ennesimo branco di “indigeni”. Ognuna di queste epoche e di
queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell’altro; ognuna dà luogo
a immagini riduttive, a polemiche litigiose.
In Orientalismo l’idea era usare la critica umanistica per ampliare il
terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi
più lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia
polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel
che ho cercato di fare l’ho chiamato “umanesimo”, termine che continuo
ostinatamente a usare malgrado l’atteggiamento sprezzante con cui lo
liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per “umanesimo” intendo
innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake definì
poeticamente “le pastoie forgiate dalla mente”, cosicché si possa usare la
propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una
comprensione riflessiva.
Aggiungo che l’umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri
interpreti e altre società e periodi, tanto che a rigor di termini
l’umanista non può esistere nell’isolamento.
Il contesto della storia
È dunque corretto affermare che ogni sfera è legata all’altra e che nulla
di quanto accade nel nostro mondo è mai isolato e immune da influssi
esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell’ingiustizia e della sofferenza
collocandoli nel più ampio contesto della storia, della cultura e della
realtà socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi
ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese
all’autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando
piena attenzione alla realtà del popolo ebraico, delle persecuzioni e del
genocidio che ha subìto.
La cosa importante è che la lotta per l’uguaglianza in Palestina/Israele
deve tendere a una finalità umana, cioè la coesistenza, non l’ulteriore
repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da
aver ricevuto la mia formazione quarant’anni fa nel campo della letteratura
comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la
fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Ma non si deve
dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il
filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori
tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey,
Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo
secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.
Ai giovani dell’attuale generazione, l’idea stessa di filologia suggerisce
qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realtà la filologia
è la più fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi è
esemplificata nel modo più ammirevole dall’interesse che Goethe aveva in
generale per l’islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano
del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il
Westöstlicher Diwan e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur
(letteratura mondiale).
Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del
mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando
l’individualità di ciascuna opera senza perdere di vista l’insieme. È assai
ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato
cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a
quella standardizzazione e a quell’uniformità che Goethe cercò di evitare
con il suo pensiero.
È quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il
titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis,
pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach
era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere
proprio una testimonianza della molteplicità e concretezza della realtà
rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.
Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il
suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di
un’epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo
filologico, concreto, con sensibilità e intuito, usando l’erudizione e la
loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacità
di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della
letteratura islamica.
La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non è mai
stata sufficiente, così come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai
potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un
autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura
filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in
pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la
propria soggettività, nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal
punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziché accostarsi a
tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilità, la
filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente
umanistico da applicare con generosità e ospitalità. Solo così la mente
dell’interprete può fare posto dentro di sé a un Altro estraneo.
Quest’attività creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, è
l’aspetto più importante della missione dell’interprete.
In Germania, inutile dirlo, l’avvento del nazionalsocialismo intervenne a
delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra,
osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la
crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli
orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca
incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor più deprimente è che
dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l’idea e la pratica della ricerca
umanistica hanno perso respiro e centralità. Anziché leggere nel vero senso
della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere
frammentario disponibile su internet e dai mass media.
Ma c’è di peggio: l’istruzione è minacciata da ortodossie nazionalistiche e
religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo
astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste,
mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realtà
oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra
moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come
“terrorista” per mantenere l’opinione pubblica in stato di tensione
rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un’attenzione
eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e
d’insicurezza come quelli del dopo 11 settembre.
Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non
sottovalutare la visione del mondo semplificata che l’élite relativamente
esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come
politica americana verso l’intero mondo arabo e musulmano. Una visione in
cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di
regime, sostenuti dal bilancio militare più gonfiato della storia, sono i
concetti chiave discussi incessantemente da organi d’informazione che si
attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti “esperti”, i quali
confermano la linea del governo.
La riflessione, il dibattito, l’argomentazione razionale e i principi
morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono
plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che
celebrano l’eccezionalità americana e occidentale, sminuiscono l’importanza
del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.
Mi si obietterà forse che stabilisco nessi troppo diretti fra
interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall’altra, e che
una società tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza
precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere
comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e
Richard Perle. Ma quel che si è perso davvero è il senso dello spessore e
dell’interdipendenza della vita umana, che non si può né ridurre a una
formuletta né liquidare come irrilevante.
Questo è solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi
arabi e musulmani non è certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula
Khalaf, giornalista del quotidiano britannico Financial Times, la regione è
scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di
che cosa sia davvero la società statunitense. Poiché i governi dei paesi
arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana,
usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.
Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per
rendere più aperte quelle società dove la concezione laica della storia e
dello sviluppo umano è stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione,
ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di
cancellazione di forme di sapere secolare, considerate “altre” e
concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione
dell’ijtihad islamico, cioè del processo di elaborazione delle norme
islamiche a partire dal Corano, è uno dei grandi disastri culturali del
nostro tempo. Il risultato è che ogni pensiero critico e ogni tentativo
individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono
semplicemente tramontati.
Identità collettive
Con ciò non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente
regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall’altra a un
rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile
delle Nazioni Unite tenuto l’anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi
limiti ha però rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il
che denota come fatto positivo l’emergere di una nuova collettività e
conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo “unito”.
Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno può davvero conoscere l’unità
straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi
conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti
come “America”, “Occidente” o “islam” e che inventano identità collettive a
uso e consumo di vaste masse di individui in realtà molto diversi vanno
contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacità interpretative
razionali che formano il retaggio dell’educazione umanistica, intese non
come un pietismo sentimentale che c’imponga di tornare ai valori
tradizionali o ai classici, bensì come pratica attiva di un discorso
razionale, mondano e secolare.
Il mondo secolare è il mondo della storia così come la fanno gli esseri
umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai
ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziché a un
artificioso scontro di civiltà, dobbiamo dedicare la nostra attenzione al
lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si
sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre e coesistono.
Ma per raggiungere questa visione più ampia occorre tempo, occorre
un’indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunità di
interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e
reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo
attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziché su luoghi comuni
e autorità imposte dall’esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono
nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma ciò
non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il
potere s’insinui persino nelle discipline più recondite e vi s’intrecci.
L’ultima cosa, ma non in ordine d’importanza, che vorrei dire è che
l’umanesimo costituisce l’unica – oserei dire anche la massima – forma di
resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la
storia dell’umanità.
http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=4202
.................................................................................................
*Edward W. Said
Nato nel 1935 a Gerusalemme, era il più noto intellettuale palestinese
contemporaneo. Insegnava letteratura comparata alla Columbia University di
New York. I suoi libri sono stati tradotti in 26 lingue. La sua opera più
importante, Orientalismo, è stata pubblicata nel 1978. È morto a New York
il 25 settembre 2003.