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diario dal Kenya



Ciao  a tutti.
E' ormai da parecchio che non mando notizie da quaggiù. E qualcuno comincia
a chiedersi il motivo.
Ma i motivi sono tanti. Innanzitutto perché le cose da fare incominciano a
riempirmi la giornata. In secondo luogo perché i miei genitori prima e la
malaria dopo mi hanno distratto un poco dal trovarmi qua tranquillo davanti
al computer. (comunque non vi preoccupate, qua al dispensario mi hanno ben
curato e ora sto riprendendo forze)
E poi, motivo forse più importante, è che la vita sta diventando un po'
routine e quindi non sento più l'esigenza di scrivere, di condividere, di
far sapere perché finirei col diventare ripetitivo. Non pensavo mi sarei
abituato a una realtà simile. O meglio, alla vita in una realtà simile.
Perché ai bambini di strada, alle distese immense di baracche di Kibera, ai
visi sofferenti dei malati di aids, alla fatica di chi ogni giorno combatte
per tirare avanti non voglio abituarmi. Vorrei ogni volta provare lo stesso
sdegno, la stessa rabbia positiva, la stessa forza di reazione che queste
situazioni mi hanno dato la prima volta che me le sono trovate di fronte.
Per riuscire a continuare la carica per andare avanti nella lotta. Per
quanto sia possibile lottare contro mostri così grandi.
Ormai sono quasi alla fine di quest'anno. I giorni stanno correndo via
veloci e l'arrivo questa settimana dei nuovi caschi bianchi che daranno il
cambio a me e Matteo mi indica che ormai siamo sulla via dell'arrivo. Ma
sono ancora tante le cose da fare. A volte mi pare che il lavoro serio
incominci adesso. Mentre devo cominciare a  organizzare per una fine 
del mio
lavoro qui, anche se ho sempre cercato di camminare in questo senso e di
inserirmi tenendo presente che la mia presenza sarebbe stata una presenza
momentanea. E quindi ho sempre cercato di puntare a una non 
indispensabilità
della mia presenza nei progetti in cui mi sono inserito. Mi spiace che a
volte questo mio modo di essere sia stato inteso come di chi non vuole
prendersi responsabilità, di chi non ha tanta voglia di fare, o di chi ha
paura di fare le cose. Certo mi sarebbe piaciuto molto condividere di 
più la
vita della comunità del quartiere in cui vivo, ma in una realtà come quella
di Kivuli, che ti tutela, ma nello stesso tempo ti mette un po' in una
campana di vetro, non è facile. In questo un po' invidio i caschi bianchi
della papa Giovanni xxiii che invece sono ben inseriti nello slum in cui
vivono, anche se comunque hanno un ruolo un po' distorto dovuto al lavoro
che si trovano a svolgere: organizzazione delle adozioni a distanza con
distribuzione cibo e pagamento delle tasse scolastiche, con tutti i 
problemi
che ne derivano dal maneggiare soldi in una situazione di povertà com'è
quella di Soweto Kawa west.
Comunque forse è presto per tirare delle conclusioni. Ne avrò di tempo al
mio ritorno per pensare a questo lungo anno. Ora forse è meglio che 
continui
a cercare di fare del mio meglio.
Vi abbraccio forte, a presto
Carlo

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Enrico Marcandalli (ramalkandy@iol.it) - http://www.peacelink.it
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