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Chiama l'Africa news 2/11/02



Chiema l'Africa news - 2 novembre 2002

Esprimiamo il più profondo dolore per le calamità naturali che nei giorni
scorsi hanno sconvolto la vita di tante persone in Molise e in Sicilia.
Siamo sentitamente vicini alle vittime, ai loro parenti, agli sfollati.

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SOMMARIO
1. Costa d'Avorio
2. Repubblica Democratica del Congo
3. Burundi
4. Sudan
5. Sierra Leone
6. L'artigianato africano: una industrializzazione dal basso
7. Artisti contro la deforestazione in Kenya

Continua la faticosa ricerca della pace in molti paesi africani sconvolti
da conflitti durati anni, anche se contemporaneamente si accendono nuovi
focolai di crisi, come nel caso della Repubblica Centroafricana, dove dal
25 ottobre sono scoppiate forti tensioni a causa di un nuovo tentativo di
colpo di stato, o della Costa d'Avorio, particolarmente al centro
dell'attenzione in queste ultime settimane; un paese fino a qualche tempo
fa considerato un modello di democrazia e di sviluppo economico per
l'Africa subsahariana, e in particolare per quella occidentale.
Nel difficile tentativo di costruire la pace in questi paesi è di
fondamentale importanza il ruolo della comunità internazionale,
dell'opinione pubblica mondiale e dei mezzi di comunicazione. Tutti siamo
tenuti a vigilare affinché le notizie non siano consumate nello spazio di
poche ore. Dobbiamo appoggiare gli sforzi della gente e delle
organizzazioni locali nel respingere ogni forma di sopruso e di violenza, e
fare pressione sui governi e sulle istituzioni affinché prestino fede agli
accordi sottoscritti, e governino con serietà e trasparenza, in favore
della pace.
Dobbiamo insistere perché l'Onu assuma piena responsabilità del suo ruolo;
un ruolo che vuole questo organismo impegnato nella tutela della sicurezza,
dei diritti e della democrazia di tutti i popoli, lontano da logiche di
parte o di potere.

1. COSTA D'AVORIO
Dopo un mese di vera e propria guerra civile, venerd" 18 ottobre il governo
ivoriano e i ribelli del Movimento Patriottico della Costa d'Avorio (MPCI)
hanno finalmente firmato il "cessate il fuoco". L'insurrezione, scoppiata
il 19 settembre su iniziativa di un gruppo di militari ammutinati, aveva
portato ad una vera e propria spaccatura del paese con il nord, a
maggioranza musulmana, controllato dai ribelli, e il sud, a maggioranza
cristiana, sotto il controllo del governo.
Sono intanto iniziati a Lomé, capitale del Togo, le trattative di pace tra
una delegazione dei ribelli e i rappresentanti del governo, turbate però
dalla notizia che sarebbero in arrivo, in Costa d'Avorio, mercenari
sudafricani pronti ad intervenire a fianco delle forze lealiste. Un
analista della sicurezza di uno stimato Istituto di ricerca di Pretoria, ha
affermato, all'inizio della settimana, che circa 40 mercenari, tra cui dei
sudafricani, sarebbero recentemente arrivati in Costa d'Avorio su invito
del governo, e che altri 160 seguiranno presto. Ufficialmente essi
avrebbero il compito di proteggere il presidente, ma il loro numero induce
a sospettare un loro diverso impiego.
Nella drammatica crisi scoppiata poche settimane fa in questo paese,
numerose sono state le violenze e le violazioni dei diritti umani. Giungono
voci di uccisioni sommarie, perquisizioni arbitrarie nelle abitazioni
civili, saccheggi.
I principali sospetti del governo per quanto riguarda la regia occulta del
tentativo di colpo di stato ricadono sul leader dell'opposizione ed ex
premier, Alassane Dramane, ma anche sul vicino Burkina Faso. Le ricorrenti
dichiarazioni in tal senso della leadership al potere, non fanno altro che
aumentare la crescente ostilità da parte degli ivoriani nei confronti delle
minoranze etniche presenti nel paese. La Costa d'Avorio è un paese di forte
immigrazione; si calcola che circa il 28 % della popolazione residente sia
straniera; tra questa almeno il 14% di origine burkinabé. Molti lavoratori
dei paesi confinanti sono giunti qui attratti dalle possibilità di impiego
nelle piantagioni di cacao incontrando, con il passare del tempo, le
resistenze e la diffidenza della popolazione locale.
Tra i lavoratori impiegati nelle piantagioni di cacao, caffè e cotone in
Costa d'Avorio, sono migliaia i ragazzi tra i 7 e i 18 anni, molti di loro
provenienti da altri paesi africani, spesso condotti nelle piantagioni con
la forza o con l'inganno. Secondo uno studio condotto da una equipe di
ricercatori dell'Istituto Internazionale dell'agricoltura tropicale (IITA)
presso 150 produttori, il 64% dei minori occupati nelle piantagioni avrebbe
meno di 14 anni. Tra questi 109.299 lavorerebbero con strumenti o sostanze
pericolose per la loro salute. Consapevole di questo fenomeno, il governo
ivoriano sembrava volersi impegnare siglando accordi con i paesi africani
di provenienza di questi ragazzi per procedere al loro rimpatrio. Ma la
recente crisi rimette tutto in discussione. Infatti migliaia di stranieri
impauriti dal clima di violenza, fuggono verso i loro paesi d'origine,
lasciando in Costa d'Avorio i ragazzi, alla mercè di imprenditori agricoli
senza scrupoli. Il coordinamento dell'Africa Occidentale della campagna
contro il traffico di ragazzi, portata avanti dalla ong Terres des Hommes,
esprime la sua più viva preoccupazione al riguardo.

Fonti: Misna, Le Monde (19/10/02), fraternità Matin (Abidjan), Sidwaya
(Ouagadougou)

Appuntamenti
Che cosa succede in Costa d'Avorio? La crisi di un paese modello
marted" 5 novembre a Roma, presso la Libreria Odradek, nell'ambito dei
Marted" dell'Africa

2. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Carolyn Mc Aslie, alto funzionario dell'Onu per gli aiuti d'emergenza,
durante una conferenza stampa tenuta il 23 ottobre, al rientro da una
missione nella Repubblica Democratica del Congo, ha sottolineato la gravità
della situazione umanitaria nell'est del paese. Il 64% degli abitanti della
regione soffre di carenze alimentari e il 41% dei bambini sotto i cinque
anni è affetto da malnutrizione.
A questo si aggiunge il dramma dei profughi, circa 330 mila, rifugiati nei
paesi confinanti. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (Acnur) soltanto nelle ultime settimane, almeno 13 mila persone
avrebbero abbandonato la provincia del sud Kivu, teatro di violenti scontri
tra la Coalizione Democratica Congolese (RCD-Goma) e i Mayi Mayi,
partigiani nazionalisti.
Non si tratta di una sola crisi, ma piuttosto di una serie di crisi
umanitarie, che vedono anche il dilagare dei casi di colera, in particolare
nella provincia del Kasai.
- Nonostante gli accordi siglati negli ultimi mesi tra le varie fazioni
coinvolte nella crisi congolese, in questa regione si continua a morire. Il
ritiro degli eserciti occupanti, primo fra tutti quello ruandese, lascia
preoccupanti vuoti di controllo e di potere, di cui approfittano bande
armate di tutti gli schieramenti, creando un clima generale di violenza,
paura e insicurezza. In molte città, soprattutto lungo il confine con
Uganda, Burundi e Ruanda, le varie fazioni continuano a combattere per
contendersi il controllo sul territorio, sulle infrastrutture e sulle
risorse strategiche. Nei giorni scorsi abbiamo ripreso la notizia - diffusa
Le Cercle Solidarie, un forum informativo telematico specializzato sulla
Regione dei Grandi Laghi - di un vero e proprio massacro avvenuto ad Uvira,
in cui sarebbero state uccise 450 persone. Fortunatamente la notizia è
stata smentita da appropriate verifiche, anche se permane la preoccupazione
per la gravità della situazione.
Il coordinamento di "Anch'io a Kisangani" (Beati Costruttori di Pace, Break
the Silence, Chiama L'Africa, Agesci, Emmaus Italia, Gavci, Pax Christi,
Missionari/e: Comboniani, Dehoniani, Saveriani, Consolata, Pime) ha
lanciato un <http://www.cipsi.it/africa/dettagli.asp?ID=348&tipo=1> appello
che raccoglie le istanze delle chiese e delle organizzazioni della società
civile congolese. Chiedono che la forza Onu presente nella regione (Monuc)
ottenga dal Consiglio di Sicurezza un rafforzamento del proprio mandato, e
che sia trasformata da semplice forza di osservazione in contingente di
"peacekeeping". Un altro appello è stato lanciato per chiedere a tutti i
quotidiani che il 31 luglio scorso hanno dato con enfasi la notizia
dell'accordo di Pretoria di dar conto del suo effettivo adempimento e di
tenere i riflettori puntati su una guerra troppo a lungo trascurata
dall'opinione pubblica.
Dopo quello ruandese, anche gli eserciti alleati di Kinshasa (Angola,
Namibia e Zimbabwe) - che erano intervenuti nel conflitto nell'agosto del
1998 - hanno lasciato mercoled" 30 ottobre il territorio congolese, con una
cerimonia presenziata dallo stesso Kabila.
Intanto sono ripresi venerd" 25 ottobre i colloqui di pace, secondo atto
del dialogo intracongolese svoltosi nella primavera di quest'anno, che
aveva portato ad un accordo solo parziale tra le parti in causa. Mediatore
è questa volta il senegalese Moustapha Niasse, inviato speciale delle
Nazioni Unite, affiancato dal presidente sudafricano Thabo Mbeki. Sul
tavolo negoziale la proposta di quest'ultimo, di dare vita ad un governo di
transizione con Kabila presidente e 4 vicepresidenti rappresentativi delle
varie forze in campo.
Ma sullo sfondo emerge in modo sempre più chiaro il reale movente di questa
drammatica guerra: il reiterato saccheggio delle risorse naturali da parte
di uomini politici, imprese locali, potenze straniere e multinazionali. In
un nuovo <http://www.cipsi.it/africa/files/security.pdf>rapporto di 50
pagine, una commissione delle Nazioni Unite ha ribadito la denuncia già
avanzata un anno fa, e ha chiesto al Consiglio di sicurezza di imporre
sanzioni economiche e restrizioni a società e personaggi politici che hanno
depredato le ricchezze del paese. In tutto 54 persone e 29 imprese - di cui
4 con base in Belgio - vengono citate nel rapporto come direttamente
coinvolte in traffici illeciti. Oltre una ventina tra gli accusati sono
responsabili militari o politici di Ruanda, Uganda, Zimbabwe e Congo. Ma il
rapporto evidenzia anche semplici violazioni amministrative ed etiche ai
protocolli internazionali sul commercio, compiute da ben 85 imprese
multinazionali.
Il governo ruandese ha tempestivamente stroncato il rapporto redatto dal
panel di esperti, dichiarandolo privo di professionalità e
insufficientemente documentato. Ha respinto ogni accusa riguardante il
coinvolgimento di istituzioni, funzionari, civili o militari ruandesi nei
fatti descritti, fino ad indicare nel gruppo di esperti un fattore di
incitamento alla violenza etnica, razziale o religiosa. Infine, invita il
Consiglio di Sicurezza dell'Onu a respingere il rapporto nella sua
interezza, poiché la sua accettazione finirebbe per minare l'immagine
stessa del Consiglio.
Ma tra i responsabili della rapina perpetrata in questi anni non figurano
soltanto ruandesi. Molti sono i nomi di esponenti degli stati alleati di
Kabila (Uganda, Namibia e Zimbabwe) e dello stesso governo di Kinshasa, e
di fronte ad una verità cos" scomoda è pressoché unanime la reazione della
stampa, delle chiese, delle organizzazioni della società civile, delle ong
per la difesa dei diritti umani, che chiedono le dimissioni dei
responsabili o addirittura l'adozione di severe misure di risarcimento.
Una presa di posizione molto chiara arriva dalle parole di Kofi Annan, che
ha firmato l'introduzione al rapporto. "La volontà di approfittare della
guerra continua - ha detto - e non c'è nessun interesse nella pace", e
invita ad una decisa azione internazionale contro i responsabili, per non
rischiare di vanificare i tentativi di pacificazione nella regione.

Fonti: Misna, UN Integrated Regional Information Networks, Avvenire
(23/10/02), Angola Press Agency

3. BURUNDI
Dopo la firma del "cessate il fuoco", avvenuta il 7 ottobre tra il governo
in carica e le componenti minoritarie della ribellione, è cominciato luned"
21 ottobre a Dar El Saalam, in Tanzania, un nuovo giro di trattative,
questa volta con le Fdd (Forze per la difesa della democrazia) e con le Fnl
(Forze Nazionali di Liberazione). Le due fazioni sedute in questi giorni al
tavolo dei negoziati sono quelle che controllano in modo massiccio e
militarmente significativo vaste aree di territorio; è' quindi in queste
negoziazioni che si gioca davvero la pace di questo piccolo paese
dell'Africa centro-orientale. In realtà sembra che soltanto il primo dei
due movimenti oltranzisti abbia per ora accettato di inviare propri
delegati all'incontro. In una dichiarazione, il capo del movimento si è
impegnato a sospendere unilateralmente le ostilità a partire dal 3
novembre, per raccogliere le aspettative della gente e l'invito della
comunità internazionale a mantenere la calma per tutta la durata dei
negoziati.
Il conflitto è iniziato nel 1993, dopo l'assassinio dell'allora presidente
Malchoir Ndadaye, che aveva sconfitto alle elezioni l'attuale presidente
Pierre Buyoya. Da allora è in corso una guerra civile che ha causato circa
300.000 vittime, quasi tutte civili, e che vede contrapposti l'esercito
governativo, a prevalenza tutsi, e movimenti ribelli hutu.
Il 1 novembre 2001 si è installato nel paese un governo di transizione che
prevede la suddivisione delle responsabilità tra esponenti delle due etnie.
L'esecutivo attuale è guidato da M.Buyoya, esponente dell'etnia tutsi, che
dovrà lasciare la mano ad un successore hutu dopo 18 mesi dall'inizio del
suo mandato.
Intanto - come in ogni area di guerra - anche qui c'è un'emergenza
sfollati. Circa 20.000 civili provenienti da villaggi nei pressi di
Bujumbura si sarebbero rifugiati sabato 26 ottobre in località a circa
20-25 km dalla capitale, in seguito agli scontri tra l'armata regolare e i
ribelli del Fronte Nazionale di Liberazione
- Un grave problema nel paese riguarda il sistema scolastico, fortemente
compromesso dalla instabilità politica e civile. Una buona notizia viene
dall'Unesco: circa 370 ragazzi hanno lasciato definitivamente la strada per
tornare a scuola, grazie ad un progetto delle Nazioni Unite, mentre il
ministro burundese per l'educazione ha appena concluso una missione in
Europa finalizzata alla ricerca - all'interno della diaspora universitaria,
di candidati disponibili a tornare in patria per contribuire al
rafforzamento dei programmi scolastici ed educativi.

Fonti: Misna, Panapress, AFP (Agence France Press)

4. SUDAN
In Sudan serve una pace per salvaguardare i diritti umani e non una tregua
per spartirsi il petrolio. La mia grande paura è che il cessate il fuoco
appena firmato apra la porta soltanto alla ripartizione delle risorse del
Paese". Padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano in Kenya, smorza
gli entusiasmi che ieri (16/10/02) hanno accompagnato la firma della tregua
tra il governo di Khartoum e i ribelli dell'Esercito di liberazione
popolare del Sudan (Spla), a Machakos (Kenya). Padre Kizito sospetta una
'forzatura' da parte dei negoziatori, intravede lo 'zampino' americano,
frena i toni trionfalistici ma 'spera che sia almeno un piccolo passo'. Da
anni impegnato con le popolazione sudanesi dei Monti Nuba, il religioso
comboniano conosce molto bene le dinamiche geo-politiche del conflitto
scoppiato nel 1983. Per questo ora è scettico: "Dagli elementi raccolti
mentre mi trovo in Italia - spiega alla MISNA - ho la sensazione che vi sia
stato una sorta di cedimento da parte dello Spla, che in precedenza non
aveva mai voluto deporre le armi se non in presenza di un accordo finale
con il governo sudanese". Questa volta, invece, i ribelli hanno accettato
di mettere fine alle ostilità. Successivamente apriranno la trattativa
sulle altre questioni rimaste insolute dopo l'importante accordo della fine
di luglio con il governo sudanese. "Ho la sensazione che questo sia
avvenuto per le pressioni internazionali - aggiunge il missionario - e non
credo che la pace si debba imporre, ma piuttosto vada cercata dalle due
parti". Anche se, precisa, sia il regime del presidente Omar el-Beshir che
la ribellione del Sud guidata da John Garang, hanno probabilmente cercato
di ottenere i vantaggi migliori da questa situazione. Non solo, ma i
'facilitatori' del dialogo potrebbero aver cercato un risultato positivo a
tutti i costi: "Sospetto una forte interferenza dei negoziatori - afferma
il religioso - soprattutto da parte degli Stati Uniti, che sono alla
disperata ricerca di un successo diplomatico nella regione. Alla firma
dell'intesa di luglio, gli Usa hanno enfatizzato i risultati ottenuti e
probabilmente ora hanno forzato le parti a firmare". Il rischio, denuncia
padre Kizito, "è quello di un negoziato che ora metta al centro il
petrolio, dimenticando che la questione più importante da risolvere in
Sudan riguarda i diritti umani. E' necessario dare una risposta di fronte
alle sofferenze delle popolazioni del sud e del nord del Paese". Le
clausole principali dell'accordo, conclude il missionario, devono risolvere
il problema delle sistematiche violazioni dei diritti ai danni dei civili.
"Sarebbe già positivo se la firma rappresentasse un piccolo passo - chiosa
padre Kizito - lo spero davvero. Ma resto in attesa di conoscere i dettagli
di questa tregua".

Fonte: Misna

5. SIERRA LEONE

La Sierra Leone ha incarnato negli anni '90 lo stereotipo del conflitto
africano: amputazioni, rapimenti, bambini arruolati come soldati e
costretti a commettere le più gravi atrocità, 50 mila morti, centinaia di
migliaia di profughi. Un vero e proprio campionario di inumanità. Pochi
sanno che nel 2001 il paese ha guadagnato una pace faticosa, che ha portato
al disarmo di circa 45.000 uomini, tra ribelli del RUF, mercenari e
formazioni armate minori, alla liberazione di circa 5.400 bambini (stima
Unicef), a libere elezioni e alla costituzione di organismi controllati
dalle Nazioni Unite che dovranno contribuire a fare chiarezza e, per quanto
è possibile, a rendere giustizia (si tratta di una Corte Penale
Internazionale e di una Commissione per la verità e la riconciliazione).
"La gente - ha detto Mons. Biguzzi, vescovo di Makeni, durante un incontro
svoltosi a Roma luned" 21 ottobre - vuole la pace, ed è alacremente
impegnata a costruirla. Il problema, però, è riconoscere le vere cause di
questa guerra che ha devastato per dieci anni il paese, e creare nel
contempo prospettive di lavoro e di speranza per i giovani". La situazione
è resa ancora più fragile dalla tensione presnete nell'intera regione. In
Liberia continua la ribellione nel nord del paese, mentre nella vicina
Costa D'Avorio è in atto dal 19 settembre una violenta insurrezione e una
altrettanto violenta repressione.
La Sierra Leone è stata al centro della puntata di Report del 22 ottobre.
Durante la trasmissione sono state messe in evidenza le tante ombre che
accompagnano la presenza di ong in zone di guerra. Dubbi sono stati
sollevtai anche sull'operato della Caritas di Makeni e del vescovo Mons.
Biguzzi. Ad un nostro comunicato in cui esprimevamo dubbi sulla serietà
dell'inchiesta, ha fatto seguito la replica di Milena Gabbanelli, una delle
autrici del programma, alla quale abbiamo a nostra volta risposto fornendo
ulteriori precisazioni. Per maggiore chiarezza anche di chi ci segue,
riportiamo qui di seguito lo scambio di e.mail.
La replica di Report
Report non ha problemi ad ammettere errori, a fare precisazioni o
rettifiche. Nel caso specifico non credo che esistano i presupposti.
Monsignor Biguzzi ha replicato nel corso della puntata sui punti
contestati. Inoltre, vorrei ricordare che rai 3 ha dato ampio spazio
all'operato di Monsignor Biguzzi in Sierra leone e a tante altre Ong che
operano nel mondo. A loro sostegno e' stata fatta anche una raccolta fondi.
La nostra puntata aveva come obiettivo le contraddizioni del sistema
"emergenze". A nostro avviso, anche la Caritas Makeni "soffre" di
contraddizioni. Penso che un Paese intellettualmente libero debba accettare
anche la critica. A maggior ragione Monsignor Biguzzi, il quale, nel corso
della lunga intervista realizzata da Giorgio Fornoni, lancia, a sua volta,
pesanti accuse verso altre organizzazioni. Milena Gabanelli (29/10/02)
La nostra precisazione
Gentile Milena, la ringraziamo per la sua mail.
Come prima cosa ci teniamo a sottolineare che Chiama l'Africa è una
associazione indipendente, non legata alla Caritas italiana, ne' a quella
internazionale e neppure a quella di Makeni, se non per il fatto che nel
2000 abbiamo appoggiato l'azione di quest'ultima in favore dei bambini
soldato, in concomitanza con una nostra campagna contro la diffusione delle
armi leggere in Africa. Chiama l'Africa non è una ong, non opera nel
settore della cooperazione allo sviluppo e non ususfruisce di fondi
destinati a questo scopo. Con il nostro comunicato non avevamo intenzione
di chiedere una rettifica (sarà lo stesso Mons. Biguzzi, nel caso, a
richiederla).
Abbiamo voluto soltanto dichiarare la nostra fiducia nei confronti di una
persona di cui conosciamo bene l'operato, e sottolineare il fatto che il
suo intervento in Sierra Leone non è, come sembrava emergere dal filmato,
legato all'emergenza, bens" il frutto di un lungo lavoro in una delle aree
di crisi più drammatiche dell'Africa subsahariana.
Riguardo alle critiche più specifiche avanzate nel filmato sappiamo che è
stato lo stesso Mons. Biguzzi a dichiararsi "amareggiato" per il fatto che
gli autori della trasmissione non hanno tenuto in debito conto la
documentazione fornita per smentirle.
Confermiamo la stima nei confronti della vostra trasmissione, ma non
possiamo fare a meno di sottolineare con dispiacere una evidente
approssimazione nel trattare un argomento che ci sta particolarmente a
cuore.
Abbiamo capito benissimo qual'era l'intento della trasmissione (mettere in
luce le contraddizioni del sistema "emergenze"), ma da telespettatori
"informati sui fatti" ci sentiamo liberi di poter dichiarare che
l'obiettivo non è stato centrato. La realtà della cooperazione vede
coinvolti tanti attori, compresi i governi e le istituzioni internazionali,
in un sistema in cui le organizzazioni umanitarie rappresentano solo
l'ultimo gradino. Eppure si è parlato solo di queste ultime e dei loro
"peccati". Sono state messe insieme le "cattedrali nel deserto" del Malawi,
se non ricordo male - che nulla hanno a che fare con le emergenze - con lo
sminamento in aree di guerra. Si è parlato principalmente di ong italiane.
Sono stati raffigurati tanti personaggi "cattivi" e due soli veri eroi, in
puro stile fiction. Secondo lei quale idea può essersi fatto il
telespettatore medio? Probabilmente penserà che l'unica vera solidarietà
passi attraverso gli show televisivi di Pavarotti and friends.
Queste critiche non ci impediscono tuttavia di continuare a considerare la
vostra trasmissione come l'espressione di una informazione coraggiosa e
nuova.
Buon lavoro, cordialmente. Per Chiama l'Africa, Paola Luzzi (30/10/02)

Invito alla lettura : Non chiamarmi soldato. Frammenti di pace in Sierra
Leone, EGA-Edizioni Gruppo Abele (www.egalibri.it), * 12,00

6. L'ARTIGIANATO AFRICANO: UNA INDUSTRIALIZZAZIONE DAL BASSO
Ouagadougou ospita dal 25 ottobre al 3 novembre l'ottava edizione del
Salone Internazionale dell'Artigianato. Si tratta di una manifestazione che
rappresenta una vera e propria vetrina per l'artigianato africano, nella
quale assumono un ruolo di primo piano i piccoli produttori. La rilevanza
del settore artigianale in Africa - sempre al limite tra economia
tradizionale ed economia informale - è difficile da quantificare. Si tratta
in ogni caso di un'importanza capitale, dal momento che l'artigianato ha
rimpiazzato le speranze deluse dell'industrializzazione.
L'artigianato artistico che i turisti vengono ad acquistare alla fiera non
è che la punta dell'iceberg, la parte più appariscente di una realtà in cui
tanti piccoli "imprenditori" inventano tecniche e mestieri per soddisfare
il mercato interno a basso costo. E' il caso, per esempio, delle
riparazioni di beni di nuovo consumo (cellulari, pc portatili, automobili),
che va dilagando e beneficia di una buona dose di inventiva e di creatività.
L'Africa infatti resta esclusa dai flussi degli investimenti mondiali (solo
il 2% degli investimenti esteri del pianeta). I piccoli produttori si sono
di fatto impossessati del mercato lasciato vuoto dal mancato processo di
industrializzazione. Essi innovano, per tentare di ridurre i costi di
produzione: utilizzano tecniche autoctone, materiali alternativi o di
recupero, per abbattere i costi di importazione di alcune materie prime.
L'artigianato rappresenta inoltre la vera sfida nel campo del valore
aggiunto. La sola esportazione di materie prime non è servita a garantire
risultati nella lotta contro la povertà, e alcuni governi stanno
attualmente cercando di favorire la trasformazione sul posto delle materie
prime : legname, cotone, petrolio, prodotti agricoli; ma vista l'esiguità
degli investimenti stranieri, questo processo non garantisce ancora
risultati apprezzabili su scala industriale. Per contro, la "piccola
trasformazione" permette la sopravvivenza di molte famiglie. E' il caso di
piccole imprese per la produzione di latte pastorizzato e di yogurt, che
garantiscono utili maggiori rispetto al solo latte fresco, utili che
vengono reinvestiti in attrezzature e personale, con un conseguente
miglioramento della qualità e della quantità della produzione. Un esempio
delle possibilità di ottimizzare le produzioni locali viene dal Ghakoi-Sud,
una associazione tra le organizzazioni professionali di sette paesi
dell'Africa occidentale, grazie alla quale i produttori si tengono
vicendevolmente informati sui propri bisogni. Il principio guida è quello
di sfruttare al massimo la complementarietà tra i paesi per reperire pezzi
di ricambio e materie prime là dove sono meno care, alimentando nel
contempo il mercato locale.

Fonte: RFI Actualité

7. ARTISTI CONTRO LA DEFORESTAZIONE IN KENYA
Il Kenya è un paese ricco di diversi ecosistemi, dalla foresta pluviale
alle foreste di mangrovie della costa, conserva oggi più di 480 specie di
piante autoctone e una varietà biologica unica, tuttavia in vista delle
elezioni, previste nel dicembre prossimo, è in atto in Kenya un'ampia
deforestazione sotto il pretesto di dar "le terre ai contadini più poveri":
in verità solo le briciole arriveranno a quest'ultimi, costretti ad un
acquisto illegale. Le autorità potranno cos" riprendersi un domani le terre
rifacendosi sull'illegalità dell'atto. "Affinché sia garantita una risposta
ai bisogni delle popolazioni locali la foresta dovrebbe coprire almeno il
10% del territorio nazionale, anziché dell'attuale 2,7% o 3% dello scorso
anno. Ma, di questo, il governo sembra non curarsene" - sostiene Fabio
Pipinato, già direttore di Unimondo - che presenta un'importante iniziativa
che la creatività della gente locale è riuscita a realizzare. La scritta in
lingua Kikuyu "non tagliate le nostre foreste" accompagnata da un disegno
che raffigura alberi tagliati, la scomparsa del verde sottobosco e la
comparsa della sabbia del deserto, è apparsa ad opera di artisti locali,
dapprima sui muri delle toilette pubbliche, poi coordinati in un
microprogetto, hanno dipinto i loro murales su ampie metrature di edifici
pubblici. I loro disegni invitano la gente a difendere le foreste e nel
contempo a piantare alberi nelle rispettive proprietà in modo da garantire
una risposta al proprio fabbisogno. E' un modo di comunicare semplice ed
essenziale; raggiunge tutti, anche coloro che non sanno leggere e scrivere.

Fonte: Unimondo (21/10/02)