L'Alto Commissario Onu per
i diritti umani, Navi Pillay, denuncia oggi le politiche nei confronti
degli immigrati. Persone, secondo l’esponente dell’Onu, "abbandonate e
respinte senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da
persecuzioni, in violazione del diritto internazionale".
Tra l’altro, in un discorso previsto per domani, la Pillay cita il
caso del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra la Libia, Malta e
Italia, ad agosto. E denuncia che “in molti casi, le autorità respingono
questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la
morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti
pericolosi”.
Ma che fine hanno fatto i
primi 227 africani respinti a maggio dall’Italia? Redattore Sociale è
andata a verificare, constatando che 24 rifugiati eritrei e somali,
infatti, hanno denunciato il governo italiano alla Corte europea. E per la
prima volta emergono le loro storie.
Era il sei maggio del 2009.
Le autorità italiane intercettarono nel Canale di Sicilia tre gommoni con
227 emigranti e rifugiati a bordo. Per la prima volta in anni di
pattugliamento, venne dato l’ordine di respingere tutti in Libia. Comprese
le 40 donne. Quattro mesi dopo, siamo in grado di dare un nome e una
storia a quei respinti. Alcuni di loro erano richiedenti asilo politico. E
hanno nominato un avvocato italiano, Anton Giulio Lana, del foro di Roma,
perché li difenda dinnanzi alla Corte europea dei diritti umani, a
Strasburgo. Sono 11 cittadini eritrei e 13 somali. Quattro mesi dopo
essere stati respinti, si trovano ancora detenuti nei campi libici.
Nonostante siano richiedenti asilo politico, e nonostante siano difesi da
un avvocato di rango internazionale. Eppure il ministro Maroni aveva
dichiarato: “La Libia fa parte dell’Onu:
lì c’è l’Unhcr che può fare l’accertamento delle persone che richiedono
asilo”.(Ansa, 12 maggio 2009).
Chi sono i 24 rifugiati che
hanno denunciato l’Italia alla Corte Europea? Sono disertori eritrei,
fuggiti dopo anni di servizio nell’esercito, in un paese dove la
coscrizione militare a tempo indeterminato è diventata una delle armi del
regime di Isaias Afewerki per controllare la popolazione. Sono ex
combattenti della seconda guerra eritrea-etiope, che dopo aver disertato
si sono consegnati alla polizia eritrea per far rilasciare i genitori
arrestati al posto loro. E poi ci sono i cittadini somali sfuggiti alla
violenza della guerra civile. Uomini che a Mogadiscio hanno sepolto i
parenti più cari e hanno lasciato le case distrutte dai violenti scontri
armati tra le forze dell’Unione delle Corti islamiche e quelle del governo
transitorio federale della Somalia, spalleggiate dalle truppe etiopi.
Il ricorso depositato
dall’avvocato Lana fa appello all'articolo 3 della “Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”, che
vieta la tortura e trattamenti inumani e degradanti, oltre che la
riammissione in paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura;
all'articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e
all'articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione, che vieta
espressamente le deportazioni collettive.
Fuggito dalla Somalia, era già stato
respinto nel 2008. La storia di 'A'
Nell'agosto del 2008 un peschereccio
spagnolo salvò la vita a 49 naufraghi e li riportò a Tripoli. A. era
uno di loro. Dopo 8 mesi di carcere a 'Ain Zara si era imbarcato di
nuovo a fine aprile. L'Italia lo ha respinto |
Sono 13 i cittadini
somali che hanno depositato un ricorso alla Corte europea dei
diritti dell’uomo contro l’Italia per essere stati respinti in Libia
lo scorso 6 maggio. Conosciamo i loro nomi ma non possiamo svelarli
per motivi di sicurezza, dato che a tutt’oggi si trovano in campi di
detenzione in Libia. A. è uno di loro. Appartiene alla minoranza
degli Ashraf. È nato nel 1983 a Mogadiscio, ed è sempre vissuto
nella capitale fino a quando, nel 2006 è stato costretto a
abbandonare il paese, lacerato da anni di guerra civile e violenze
claniche. Gli Ashraf in particolare hanno dovuto subire negli anni
numerose persecuzioni da parte dei clan maggioritario del paese, gli
Hawiye. Nel 2004, il padre di A. venne ucciso per mano di un
esponente del clan degli Hawiye, che aveva cercato di estorcergli
con la forza i documenti attestanti la proprietà della loro casa. E
lo stesso A. era stato costretto sotto minaccia a divorziare dalla
moglie. Dopo la morte del padre, la responsabilità per il
sostentamento e la tutela della madre e della sorella, pesava su A.
Ma soltanto due mesi dopo, la sorella scomparve. L’avevano vista
uscire di casa con una vicina. Si pensa che l’abbiano portata in
Yemen. La decisione di lasciare Mogadiscio maturò nel 2006, dopo che
le milizie delle Corti islamiche ebbero preso il controllo della
città. Per tutelare la propria incolumità, A. fuggì in Etiopia, ma
era senza documenti, e venne arrestato alla frontiera e detenuto per
otto mesi, prima di essere rilasciato e ritornare in Somalia, a
Hargeysa, da dove ripartì immediatamente per Gibuti, e poi – dopo un
altro mese di carcere – per il Sudan, dove consegnandosi
spontaneamente alle autorità venne trasferito nel campo profughi di
Kasala.
Cinque mesi dopo
riuscì a attraversare il deserto del Sahara e a entrare in Libia.
Era il luglio del 2007. Un anno dopo, nell’agosto del 2008 riusciva
a imbarcarsi per l’Italia. Ma l’imbarcazione rimase presto senza
carburante e finì alla deriva nel Canale di Sicilia. Passavano i
giorni e i soccorsi non arrivavano. Cinque persone morirono
disidratate e di stenti. La salvezza arrivò da una nave spagnola. Il
peschereccio “Clot de l'Illot”, che il 22 agosto del 2008 attraccò
nel porto di Tripoli consegnando i 49 naufraghi alle guardie
libiche. A. venne nuovamente arrestato. A Tripoli, nel carcere di
‘Ain Zara, dove venne detenuto per otto mesi. Lo rilasciarono
nell’aprile del 2009. Non volle aspettare altro tempo, e comprò un
passaggio sulla prima imbarcazione diretta a nord, insieme a altri
45 passeggeri. E per la seconda volta in un anno, venne respinto.
Stavolta però dalle autorità italiane. Era il 6 maggio del 2009.
Oggi, quattro mesi dopo, si trova ancora in un campo di detenzione
in Libia, pur essendo un potenziale rifugiato politico, e pur
essendo difeso da un avvocato dinnanzi alla Corte
europea. |
Aveva la protezione delle Nazioni Unite.
L'Italia lo ha respinto
La storia di un rifugiato eritreo.
Disertore dell'esercito, l'Acnur in Sudan gli aveva riconosciuto
l'asilo politico. Le nostre motovedette lo hanno respinto in Libia a
maggio. E oggi è ancora in carcere |
Sono 11 i cittadini
eritrei che hanno depositato un ricorso alla Corte europea dei
diritti dell’uomo contro l’Italia per essere stati respinti in Libia
lo scorso 6 maggio. Conosciamo i loro nomi ma non possiamo svelarli
per motivi di sicurezza, dato che a tutt’oggi si trovano in campi di
detenzione in Libia. Alcuni di loro erano già stati riconosciuti
rifugiati politici dall’Alto commissariato per i rifugiati delle
Nazioni Unite. Per esempio K., che nel settembre 2006 si vide
riconosciuto lo status di rifugiato in un campo profughi in Sudan.
Classe 1971, K. era stato arruolato nell’esercito nazionale eritreo
nel 2000, per la coscrizione militare a tempo indeterminato cui sono
obbligati tutti i cittadini eritrei al compimento della maggiore
età. Dopo un anno e mezzo tuttavia, non vedendosi corrispondere
nessun salario mensile, il signor K. decise di disertare l’esercito.
Ma la sua latitanza durò poco. Nel 2004 venne individuato e
arrestato dalla polizia militare, trasportato a Korkogy e detenuto
per due anni, dal 2004 al 2006. Nell’agosto del 2006 venne
rilasciato e ricollocato nella divisione dell’esercito dove si
trovava precedentemente, presso Dar Anto, nel Mandefra. K. stavolta
decise di abbandonare il paese, e riuscì a raggiungere
clandestinamente il Sudan, dove rimase fino al febbraio 2007 in un
campo profughi.
Tuttavia, temendo la
deportazione da parte degli agenti dei servizi segreti eritrei in
azione lungo il confine, K. decise di emigrare in Europa, e
attraversò il deserto sudanese alla volta della Libia. Ma al suo
ingresso venne arrestato e detenuto per un mese nel centro di
detenzione di Ajdabiya, per poi essere trasferito nel centro di
detenzione dedicato agli eritrei, a Misratah, 200 km a est di
Tripoli. Vi rimase detenuto dall’aprile del 2007 alla fine del marzo
del 2009. Un mese dopo, alla fine dell’aprile del 2009, K. tentò la
traversata del Mediterraneo, verso l’Italia, su un’imbarcazione con
circa 60 passeggeri a bordo. Ma vennero intercettati e respinti
dalle autorità italiane. Era il 6 maggio del 2009. Oggi, quattro
mesi dopo, si trova ancora in un campo di detenzione in Libia, pur
essendo difeso da un avvocato dinnanzi alla Corte europea e pur
essendo un rifugiato politico riconosciuto a tutti gli effetti dalle
Nazioni Unite, che evidentemente in Libia non hanno alcuna influenza
decisionale, se non riescono nemmeno a far uscire da un centro di
detenzione un loro assistito. |
L'Italia denunciata alla Corte europea.
Respingimenti contrari ai diritti umani
L'avvocato Anton Giulio Lana ha
ricevuto le procure da parte di 24 rifugiati somali e eritrei
respinti in Libia il 6 maggio 2009. Contestata la violazione degli
articoli 3 e 13 della Convenzione, e l'articolo 4 del IV
protocollo |
I respingimenti
sono contrari ai diritti umani. E non per una dichiarazione di
principio, ma perché violano la giurisdizione italiana e
internazionale. Ne è convinto l’avvocato Anton Giulio Lana, che è
stato nominato difensore da 24 rifugiati somali e eritrei respinti
dalla Marina italiana lo scorso 6 maggio 2009 e che ha formalizzato
il ricorso alla Corte europea per i diritti umani (Cedu) di
Strasburgo. Il ricorso fa appello all'articolo 3 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, che vieta la tortura e trattamenti inumani e
degradanti, oltre che la riammissione in paesi terzi dove esista un
effettivo rischio di tortura; all'articolo 13, che stabilisce il
diritto a un ricorso effettivo; e all'articolo 4 del quarto
protocollo, che vieta espressamente le deportazioni
collettive.
Tutti articoli che
secondo l'avvocato Lana sarebbero stati violati, dal momento che le
persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo
collettivo, senza permettere di presentare richiesta d'asilo
politico e tantomeno di poter fare ricorso presso un giudice. E sono
state respinte in Libia, dove è documentata la pratica di torture e
trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E se è
vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto
vero che gli emigranti respinti sono stati fatti salire a bordo di
unità marittime italiane, che in base all'articolo 4 del codice di
navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E
quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla
legge Bossi-Fini, che vieta il respingimento in frontiera di chi
presenta richiesta d’asilo. Il respingimento con accompagnamento
alla frontiera nei confronti degli stranieri che “sottraendosi ai
controlli di frontiera, sono fermati all'ingresso o subito dopo”,
non si applica - secondo l’articolo 10, comma 4 del Testo unico –
“nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano
l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero
l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi
umanitari”.
Adesso si dovranno
aspettare i tempi della pronuncia della Corte europea. Il caso non
rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i 24 ricorrenti sono
già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero passare mesi prima
che la Corte dichiari l'ammissibilità o meno dei ricorsi e notifichi
al governo italiano l'apertura delle indagini. Per un'eventuale
sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che ancora
non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia
effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il
ricorso sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di
tempo perché soggetti terzi depositino i loro interventi presso la
Corte, in quello che si annuncia come un ricorso chiave per il
destino delle politiche di contrasto all’immigrazione nel
Mediterraneo. |
''Eravamo in mare da 12 giorni''. Le
testimonianze di due somali respinti
Uno di loro ha riferito che si trovava
in gravi condizioni di salute al momento del respingimento verso la
Libia, e di non aver ricevuto nessuna assistenza medica. Anche loro
hanno fatto ricorso alla Corte europea |
Una delle
imbarcazioni intercettata dalle motovedette italiane il 6 maggio
scorso e poi riportata a Tripoli, era in mare da 12 giorni. E i
passeggeri non hanno ricevuto nessun tipo di sanitaria una volta
riportati in Libia. È quanto dichiarato da due rifugiati somali che
hanno denunciato l’Italia alla Corte europea di Strasburgo per
averli respinti. B. fu costretto a lasciare la Somalia nel marzo
2008, per via dell’instabilità del paese durante gli scontri tra le
truppe delle Corti islamiche e le forze del governo di transizione
somalo. Dopo aver attraversato clandestinamente Etiopia e Sudan, B.
arrivò in Libia nel luglio del 2008, per poi essere arrestato a
settembre e detenuto per due mesi. Nel febbraio del 2009 riuscì a
imbarcarsi per la Sicilia, ma finirono per sbarcare a Bengasi e
vennero arrestati di nuovo dalla polizia libica, per poi essere
rilasciati nell’aprile del 2009. Subito dopo tentò di imbarcarsi
nuovamente, ma l’imbarcazione venne fermata in mare dopo 12 giorni
di navigazione. Su quella stessa barca viaggiava anche il signor C.
Anche lui somalo, di 25 anni, del clan dei Loboge, era fuggito da
Mogadiscio nel marzo 2007, quando le forze etiopi invasero la
capitale. Nel corso dei bombardamenti, la madre e il fratello
rimasero feriti e la loro casa venne distrutta dai bombardamenti.
Temendo persecuzioni da parte delle truppe etiopi, C. si rifugiò
temporaneamente nel campo per sfollati a Elasha, per poi decidere
definitivamente di fuggire nel dicembre del 2007. Raggiunse prima il
Kenya, e dopo 4 mesi a Nairobi riprese la rotta, prima verso Addis
Abeba, in Etiopia, poi verso il Sudan e la Libia, dove arrivò nel
novembre 2008. Per l’Italia si imbarcò alla fine di aprile del 2009,
con altre 90 persone. Anche lui ha dichiarato di essere rimasto in
mare per 12 giorni, alla deriva, prima dell’intervento degli
italiani, che li ricondussero in Libia, ha aggiunto, senza procedere
ad alcuno tipo di indagine circa la nazionalità delle persone tratte
in salvo. Tra l’altro, il signor C. risultava estremamente malato
all’epoca del rimpatrio in Libia e nonostante ciò veniva comunque
detenuto nel campo di detenzione di Garaboulli, vicino Tripoli,
senza che gli fossero impartite le cure necessarie.
(gdg)
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