Se fossimo davvero per la vita come cattolici non
succederebbero queste tragedie....io non capisco perchè per ogni uomo o per
ogni donna che muore di fame in Africa o in altri paesi del mondo non si
facciano manifestazioni come per Eluana, se vogliamo salvare lei che ormai
giace da 17 anni senza quasi vita, perchè non dobbiamo lottare e
salvare ogni uomo e ogni donna e ogni bambino che pur cosciente sta morendo
di fame o di terribili soprusi come questi che ci manda Luisa? anche
per colpa nostra succedono... se non smettiamo di volere le guerre non
riusciremo mai a salvare nessuna di queste persone. Eppure i cattolici stanno
zitti. A Vicenza si sta costruendo una Base di guerra, nessun prete ieri è
venuto a bloccare i lavori con la gente neanche chi ce l'aveva promesso...e
nessuno parlerà nella sua omelia di questo tremendo avvenimento impegnati
tutti immagino a difendere una vita ormai non vita con suo padre che sa che
lei non voleva questo! ( qualche sacerdote c'è e anche qualche cattolico ma
non hanno voce) Antonella
--- Sab 7/2/09, luisa.rizzo <luisa.rizzo at alice.it>
ha scritto:
Da: luisa.rizzo
<luisa.rizzo at alice.it>
Oggetto: [africa] Congo: La donna e' un campo di battaglia
A: africa at peacelink.it
Data: Sabato 7 febbraio 2009, 06:38
Congo,
l'inferno nel nostro corpo
http://www.corriere.it/esteri/09_febbraio_06/congo_stupro_strategia_di_guerra_0a571f3a-f458-11dd-952a-00144f02aabc.shtml
La
donna è un campo di battaglia. Lo stupro una strategia di guerra
«Devo
proteggermi» sussurra l’uomo in camice bianco. «Ho imparato
a essere insensibile per poter curare pazienti che perdono urina e materia
fecale dopo che lo stupro di gruppo le ha lacerate. Donne torturate con bastoni,
coltelli, baionette esplose dentro i loro corpi rimasti senza vagina,
vescica, retto. Ragazze alle quali devo dire: mademoiselle, lei non ha più un
apparato genitale, non diventerà mai una donna». Dieci anni fa, una giovane
violentata a cento metri da qui si è trascinata da lui. Da allora, nel suo
ospedale Panzi a Bukavu, il ginecologo Denis Mukwege ha operato 25 mila
vittime di stupri efferati e ne ha medicato altrettante nei villaggi,
condannato a leggere nei loro corpi gli scempi di questo cruciale lembo
d’Africa, l’est della Repubblica Democratica del Congo.
Si combatte dal 1998 nel Nord e nel Sud del
Kivu, fuori dalle città di Goma e Bukavu, sulle rive di un lago
beffardamente incantevole a ridosso della frontiera con il Ruanda. Cinque
milioni di morti dal ’98 al 2002, nel conflitto più sanguinoso del globo dopo
la seconda guerra mondiale. Poi i ribelli impazziti, i villaggi cancellati,
la missione dell’Onu Monuc - la più imponente, con 17 mila caschi blu -
capace solo di contare i morti dopo battaglie sbrigativamente attribuite a
faide etniche e che invece mirano al controllo di immense e maledette
ricchezze minerarie: oro, tantalio, diamanti. Lo stupro, qui, è l’arma
affilata di una guerra che da tempo ha perduto la linea del fronte. La strategia
primordiale di tutte le sigle paramilitari che annidano plotoni assassini nel
cuore di tenebra della foresta equatoriale. Stuprano i ribelli del Cndp del
generale Nkunda, appena messo fuori gioco dai suoi storici alleati ruandesi,
e forse - mentre scriviamo - già ammazzato o spedito in un esilio dorato.
Stuprano le milizie della Fdlr, gli hutu responsabili del genocidio ruandese
del ’94 fuggiti in Congo. Stuprano i Mai Mai, combattenti filogovernativi,
allucinati da riti tribali. E stupra l’esercito regolare.
Violenza sistematica, compiuta davanti a
figli e mariti: annientare le donne è un metodo veloce e sicuro
per riuscire a mutilare intere comunità, spaccandole in un’invincibile
vergogna. Il presidente congolese Joseph Kabila ha appena autorizzato l’esercito
ruandese a entrare in Congo per sgominare gli hutu della Fdlr, come promessa
di pace per il Kivu, ma la sua gente non si aspetta che altri morti, altri
inferni. «Perché chiamare qui i ruandesi a risolvere un loro problema? » si
chiede Mathilde Muhindo, che si è dimessa dal Parlamento disgustata
dall’immobilismo di Kinshasa e da sempre assiste le vittime di stupro nel
Centro Olame della diocesi di Bukavu. «Perché il governo è sceso a patti con
Bosco Ntaganda, l’antagonista di Nkunda, ricercato dalla Corte dell’Aja per
crimini contro l’umanità? È triste che nella nostra terra chiunque sia
autorizzato a fare ciò che vuole, esattamente come i militari sul corpo delle
donne».
Corpi sfioriti come quello di Elise
Mukumbila, maschera di rughe e livore: nelle credenze tribali,
forzare un’anziana porta ricchezza, così i Mai Mai hanno abusato di Elise per
mesi, nella foresta a nord di Goma, lasciandole l’Hiv. La incontro a Goma,
nel piccolo centro di Univie Sida, associazione locale che convince le donne
sieropositive del fatto che la vita può, deve continuare. E corpi di bambine
come Valentine, orfana dodicenne, perché violare una vergine rende immortali.
Lei ha perso la parola dopo i ripetuti stupri di gruppo, ha la gonna fradicia
di urina per una fistola mai curata: la sorella maggiore vuole nascondere la
tragedia agli altri sfollati nel campo di Buhimba, poco lontano da Goma,
dicendo a tutti che il sorriso vuoto della bimba non è che una pazzia senza
nome. A Bukavu Janette Mapengo, 31 anni, mi si avvicina zoppicando. Gli otto
hutu che l’hanno violentata nella sua capanna costringevano il marito a
guardare, per poi seccarlo con una pallottola in fronte ed esplodere su
Janette altri tre colpi, appena lei ha osato urlare.
Alza la gonna scolorita mostrando l’arto di
plastica: all’ospedale Panzi le è stata amputata la gamba destra
maciullata dagli spari. Janette piange piano: «Sono inutile». Françoise
Mukeina ha 43 anni, undici figli, occhi color miele: «Cento hutu ci hanno
prese in otto dal villaggio, a Shabunda, tenendoci schiave nella foresta per
due anni, nutrite con gli avanzi, violentate a turno ogni giorno, marchiate
col fuoco. Quando mi hanno mandato a fare legna sono fuggita. Ho dolori che
non finiscono mai ma ringrazio Dio: io sono viva, le altre no». Solo nel Sud
Kivu, da gennaio a settembre 2008, l’agenzia dell’Onu Unfpa ha censito 11.600
donne che hanno chiesto cure dopo la violenza carnale: per il 95 per cento di
loro, gli autori erano miliziani. Nel Nord Kivu si stimano 30 mila vittime di
stupro dal 98, ma quelle che tacciono per vergogna sarebbero molte di più.
«È un femminicidio: gli stupri aumentano,
sembrano contagiosi» esplode Fanny Mukendi di Action Aid,
organizzazione internazionale che tra Bukavu e Goma finanzia i gruppi locali
più attivi nel ricomporre i brandelli di esistenza di queste donne. «Sono
povere, sfollate dopo gli attacchi dei ribelli: la violenza è il colpo di
grazia. Hanno bisogno di un sostegno psicologico e di entrate economiche: con
noi fabbricano sapone, panieri, preparano dolci da vendere al mercato. Nulla
di spettacolare, ma le aiuta ad accettarsi di nuovo». A Goma, Action Aid ha
fondato un movimento femminile che a novembre, durante l’assedio di Nkunda,
ha riempito lo stadio al grido “stop aux viols”. E per Fanny, «ogni donna del
mondo dovrebbe essere solidale con loro». Pensava soprattutto all’est del
Congo, l’Onu, quando l’anno scorso si è decisa a inserire lo stupro di guerra
tra i crimini contro l’umanità, perseguibile dai tribunali internazionali.
Ma per ora, qui, domina l’impunità:
«Con i militari si può solo segnalare l’esercito di appartenenza» spiega
Julienne Mushagaluja, avvocatessa del gruppo Afejuco a Bukavu, che raccoglie
testimonianze di vittime in vista di un appuntamento importante: «Sta per
arrivare un inviato della Corte dell’Aja» rivela. «Dovrà capire se esistono
prove sufficienti a denunciare per stupro i signori della guerra». Delle 58
condanne eseguite a Bukavu nel 2008 (su 353 denunce), solo 9 riguardavano
militari, ma rispondevano anche di altri delitti. «Se a soffrire fossero gli
uomini e non le donne» dice sommesso il dottor Mukwege «la comunità
internazionale avrebbe già trovato una soluzione». Nel campo di Buhimba,
durante il consueto acquazzone pomeridiano, siedo in una capanna buia sopra
la terra nera del vulcano Nyiragongo, con un gruppo di donne e i loro
neonati. I figli della violenza. In Congo l’aborto è illegale, per quello
clandestino ci vogliono soldi, e non è il caso di Dativa Twisenge, 22 anni,
scheletrica, bella, che disprezza il suo piccolo Oliver: «Che me ne faccio?
Voglio solo morire. Due stupri sono troppi» mi gela. «Due anni fa in casa
mia, a Masisi, con mia madre: a lei hanno spezzato le gambe. L’anno scorso
qui vicino: tre militari del governo mi montavano come una cagna e intanto mi
bastonavano la schiena: non ho fatto che urlare “uccidetemi!”». Agnès è un
raggio di luce: 33 anni, sei figli, l’ultimo nato dallo stupro. Rapita vicino
al campo con altre nove, legata e bendata dall’alba al tramonto, gettata tra
i banani come spazzatura. Non riesco a non chiederle cosa prova per questo
neonato paffuto, che per sempre le ricorderà la tortura. Lei sgrana gli occhi
allungati: «Devi capire, è il mio bambino. L’ho chiamato Chance affinché,
almeno lui, abbia la fortuna di conoscere un mondo migliore».
Emanuela Zuccalà
06 febbraio 2009
|