Quando l'ONU non ce la fa... Alla fine si muove George W.
Bush contro il genocidio in Darfur |
Washington rafforza le
sanzioni economiche contro le aziende del Sudan. Pechino è
avvertita
New York. L’America, al contrario delle Nazioni
Unite, non esita a chiamare “genocidio” il massacro delle popolazioni nere
del Darfur ad opera delle milizie arabe janjaweed sostenute dal governo
islamista del Sudan. E ora, dopo aver dato un’ulteriore chance alla
diplomazia dell’Onu, Washington ha deciso di cominciare a fare sul serio
per fermare le stragi di civili (“450 mila morti” secondo il Washington
Post, “almeno 200 mila” per il New York Times) e il flusso di profughi (2
milioni e mezzo) cominciate nel 2003 contro le etnie africane del Darfur
che chiedono una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza
nazionale gestita dal presidente islamista Omar Hassan al-Bashir. Ieri
mattina, alla Casa Bianca, George W. Bush ha delineato il suo piano
d’azione per salvare il Darfur, andando incontro alle pressanti richieste
di una strana alleanza tra i gruppi liberal impegnati nella difesa dei
diritti umani e le organizzazioni cristiano-evangeliche. Bush ha deciso di
rafforzare l’applicazione delle sanzioni economiche già adottate nei mesi
scorsi contro un centinaio di aziende sudanesi controllate dal governo di
Khartoum. Bush, inoltre, ha dato mandato al Dipartimento del tesoro di
aggiungere alla lista altre trenta società sudanesi, in particolare
aziende petrolifere e sospettate di comprare armi. Tutte queste società
non potranno entrare nel sistema finanziario americano e diventerà reato
per qualsiasi azienda o individuo americano averci a che fare. La Casa
Bianca ha esteso le sanzioni imposte alle aziende anche a singoli
cittadini sudanesi responsabili per i fatti di sangue. Bush, infine, ha
annunciato che Condoleezza Rice è al lavoro con i colleghi britannici e
gli altri alleati su una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu che estenda il divieto di fare affari con le società governative
sudanesi a tutti i paesi del mondo. Se ne discuterà al G-8 di inizio
giugno, in modo che anche il club delle più grandi economie mondiali
cominci l’opera di persuasione nei confronti di chi, come la Russia e
soprattutto la Cina, non vuole saperne di un’ulteriore risoluzione Onu.
Il Sudan ha subito definito “ingiuste e intempestive” le misure
annunciate da Washington e ha pubblicamente chiesto al resto del mondo di
ignorarle. “Queste iniziative americane cadono in un momento in cui il
Sudan sta discutendo la pace in Darfur e collaborando per una forza
Onu-Unione africana, da dispiegare nella regione”, ha detto all’Associated
Press il portavoce del ministero degli Esteri sudanese. In realtà è vero
il contrario. Ad aprile, dopo l’iniziativa di pace promossa l’anno scorso
dagli americani e dalle Nazioni Unite, il Sudan aveva accettato il
dispiegamento di un primo contingente di tremila caschi blu Onu a sostegno
dei settemila uomini della forza di pace dell’Unione africana già presenti
sul territorio. Già il mese scorso, Bush aveva denunciato il governo di
Khartoum proprio perché non consentiva il pieno dispiegamento delle truppe
Onu, così come previsto dall’accordo di pace, ma anche perché continuavano
i bombardamenti sui civili ordinati dal governo centrale. Il Segretario
generale dell’Onu Ban Ki-moon era fiducioso di poter convincere il
presidente al-Bashir ad accettare l’arrivo dei caschi blu e, soprattutto,
a fermare il genocidio. Bush gli ha concesso il tempo richiesto, ma un
mese dopo non è cambiato nulla e non si è visto alcun segno di
disponibilità da parte del governo sudanese.
Le armi dei cinesi in
cambio di petrolio Il mondo occidentale questa volta non è diviso
sulla necessità di intervenire per fermare un dittatore islamista che
massacra all’interno del suo stesso paese i membri di altre etnie e
religioni. Il problema diplomatico è soprattutto con la Cina, sebbene
ultimamente sembri più disponibile perlomeno a far accettare al Sudan la
presenza di caschi blu e truppe africane più adeguatamente attrezzate a
condurre il compito di peace-keeping. Quanto a nuove risoluzioni Onu e a
possibili embarghi economici, la Cina minaccia il veto al Consiglio di
Sicurezza. Pechino è da sempre contraria a interventi della comunità
internazionale negli affari interni di un paese sovrano, per l’evidente
ragione che prima o poi potrebbe toccare alla Cina essere messa sotto
scacco. Ma in questo caso specifico del Sudan ha anche altri interessi
economici e geopolitici. Oggi Pechino è il principale partner commerciale
di Khartoum, comprando i due terzi della produzione petrolifera sudanese e
pagandoli, in parte, almeno secondo Amnesty International, con forniture
di armi che poi il governo sudanese usa contro i civili del
Darfur. |
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