La fatica di essere stranieri



La fatica di essere stranieri. Ostacoli e ricerca di equilibri durante il lungo percorso verso l'integrazione  
 
La fatica di essere stranieri
Come «straniera» in possesso di un documento di cittadinanza italiana sono in pieno inseguimento di integrazione

tratto da Promiseland.it

Integrazione. Che parolone, cosa si può dire di una roba così complessa, grossa e complicata come questa? Mi sento davvero in difficoltà nel dover scrivere su questo argomento. A mio avviso l’integrazione è un latitante, è un latitante che non riusciremo mai a catturare, che non si farà mai catturare. Sul quale non potremo mai mettere le bríglie. È indomabile l’integrazione, è ribelle, sovversiva, ci scappa a ogni nostro tentativo di afferrarla. Benchè le nostre intenzioni siano le migliori, fortemente marcate per la nostra determinazione di gustarla «in pieno», l’integrazione e tutto quello che la precede, quella carica di significati e valori, è qualcosa che rimarrà per sempre nella nostra lista, grande o piccola che sia, delle mete mai raggiunte.
Sto parlando dell’integrazione cercata e ricercata chissà quante volte, tra gioie e dolori, da questi individui che un giorno, volontariamente o meno, lasciano la propria terra - motivati da spinte le più diverse - per stabilirsi in terre altrui.

Il mondo, questo strano, oltre che affascinante mondo in cui viviamo, è stato stupidamente, crudelmente e arbitrariamente diviso tra ricchi e poveri, potenti e impotenti, opressori ed opressi, «sviluppati e sottosviluppati», «primi e terzi» e altro, se questo non basta. Categorie che in gran parte inconsciamente, ma non solo, abbiamo assimilato senza un previo lavoro mentale di selezione, di riflessione e di critica. Purtroppo. E questo riguarda tutti, tutti noi, anche quelli che coscientemente credono e lottano per abbattere queste barriere. Figuriamoci allora quelli che non hanno nemmeno mai avuto l’occasione di rifletterci sopra. Siamo avvolti, coperti ed impregnati da questa enorme tenda «ideologica» invisibile, che ci copre e ci domina da molto, molto tempo. Ma che diventa chiara e quasi tangibile quando questi due mondi creati per essere uno ma che sono diventati due, si trovano uno di fronte all’altro. Ed è qui che l’ambìta, sognata e desiderata integrazione si rivela nella sua prepotente incompiutezza. Ed è anche qui, purtroppo.

L’individuo che lascia la propria terra di origine - e oso anche dire, soprattutto quelli che vengono dai paesi che contano poco in questo universo di contraposizioni squilibrate - non troverà mai e perderà, per sempre, quell`«equilibrio interiore», quello stato naturale che gli procura una deliziosa e primordiale sensazione di «sentirsi a casa». Sensazione che sperimentava, anche in modo inconscio, quando camminava sulla terra dove era nato e cresciuto e che ben conosceva, anche se lì ancora probabilmente non lo sapeva.

Ovviamente sto parlando di individui che si stabiliscono in modo definitivo in un altro paese o che quantomeno restano lontani dalla terra di origine per molti anni. Il vincolo resta e resta per sempre, forse anche più forte, perché nel confronto con l’altro la nostra essenza rivendica presenza. Rivendica rispetto. Vuole essere considerata, valorizzata, conservata e difesa, oltre che amata.

Personalmente considero integrazione quella dell’individuo con la propria terra di origine. Ma attenzione, se questa non la lascia mai per lungo tempo. E inseguimento di integrazione quel processo interminabile e non poche volte frustrante che intraprende lo «straniero» al momento del suo arrivo nella nuova nazione dove inizia una nuova vita. Questo stesso inseguimento rischia di ripettersi nel ritorno al paese di origine se rimane a lungo lontano da esso. E qui, in alcuni casi, la perdita di quell`equilibrio primordiale sembra persa davvero per sempre. Sembra. Ma la speranza di ritrovarlo, quell’ equilibrio, c’è sempre.

Come «straniera» in possesso di un documento di cittadinanza italiana sono in pieno inseguimento di integrazione, nonostante sia in Italia da quasi dodici anni. E non mi vergogno a dirlo. I miei diritti li inseguo ancora, anche se questa cittadinanza acquisita sembra non avermeli garantiti. I miei studi qui non valgono nulla e in questo - sia a livello accademico sia a livello lavorativo - ci sono tutti gli ostacoli possibili alla partecipazione ai concorsi pubblici e alla ricerca di posizioni lavorative adeguate alla mia preparazione. Ho deciso di non fare carriera come collaboratrice domestica, badante e altro di questo scarso «orizzonte lavorativo» a noi riservato e qui invito chi fosse interessato a leggere e se possibile a indignarsi di fronte a un discorso del presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi.

Un discorso pronunciato l’undici marzo scorso, in occasione del 60° anniversario dell`istituzione delle Acli (Associazione cristiana lavoratori italiani), in cui lascia intendere chiaramente che noi immigrati siamo venuti in Europa per assistere le famiglie, gli anziani, i bambini ed i disabili. Addirittura ci ringrazia, alla fine del suo intervento, per questo prezioso servizio.

In merito a questo suo discorso, di evidente contenuto discriminatorio e assolutamente contestabile, ho scritto una lunga lettera di indignazione e l’ho indirizzata non solo alla presidenza della Repubblica, ma anche ad alcuni parlamentari ed europarlamentari italiani, ad associazioni che lavorano con e per gli immigrati, a svariati quotidiani, testate televisive, organizzazioni non governative e altro, ma l’indifferenza generale ha vinto ogni mio sforzo. Lo sforzo di non accettare e di contestare questo mercato di lavoro a noi riservato. Il silenzio, che non mi sorprende assolutamente provenendo da settori poco interessati a smuovere acque assai delicate e a dir poco turbolente come quelle della così detta società multiculturale, mi ha invece stupita venendo dagli stessi immigrati, siano essi rappresentati o meno da istituzioni le più diverse. Mi ha veramente stupita l’assenza di reazioni da parte dei veri interessati. E qui forse si può constatare quanta strada dobbiamo ancora percorrere, anche all’interno di noi stessi e delle nostre coscienze, per vederci diversamente da prestatori di mano d’opera per sottolavori tappabuchi.

Non meritiamo altro? Siamo qui per questo? Non gliene importa niente? Possiamo dire quello che vogliamo? A ognuno la risposta. Personalmente credo che meritiamo di meglio. Come cittadina brasiliana, profondamente innamorata di quell`immenso gigante chiamato Brasile per il quale il mio cuore batte e batte forte, per il quale sono sempre e ancora sempre in stato di incantamento amoroso, ormai spinta dal mio inguaribile «mal di Brasile» a prescindere dai suoi anche qui grossi e immensi guai, lamento che i brasiliani si siano rivelati - almeno per quanto riguarda l’Italia - una presenza di tipo estremamente individualista, competitiva e per nulla solidale. Non mi sembra di poter vedere una «comunità brasiliana» in Italia. Non la vedo. A dire il vero la parola comunità, al giorno d’oggi, mi sembra assolutamente priva di significato, per quanta buona volontà ci si voglia mettere. E non parliamo di quanto «stranieri» siano, a noi brasiliani, paradossalmente, la nostra Ambasciata e il nostro Consolato. E quanto lo vogliono essere.

Tuttavia, sono molto contenta di sapere che esistono iniziative come questa di `Musibrasil`. Credo che per i cittadini brasiliani residenti in Italia, ciò debba essere vissuto come un segno positivo e degno di riconoscenza. E penso anche di potervi ringraziare per questo importante lavoro che state facendo, cercando di trasmettere un’immagine diversa di un paese che per anni si è venduto sotto un basso profilo propagandistico e questo, di certo, non ci ha reso la vita facile nei nostri già delicati processi di integrazione nei vari paesi dove siamo diretti. Infine se è vero che Giovanni Paolo II, questo straordinario uomo che ha girato e rigirato questo mondo, ha amato il proprio paese al punto di aver allestito un «angolo polacco» nella sua residenza estiva, allora forse anche questo gesto ci dice qualcosa a proposito di integrazione. Quella primordiale ed unica, viscerale, che ha davvero origini e radici molto più profonde di quello che potremmo cercare di immaginare.

Da quel che abbiamo appreso in questi ultimi giorni, di certo c’è che le suore che lo accudironno in questi lunghi anni del suo pontificato sono polacche, gli cucinavano i piatti polacchi da lui prediletti e sicuramente parlavano tra di loro nella propria lingua, ricordavano insieme la loro Polonia e condividevano insieme la loro nostalgia. E non solo. Condividevano certamente l’idea della sacralità della terra. La terra dove si nasce, dove si cresce, dove si impara a camminare, a parlare, ad amare e dove si fanno i primi passi di un percorso di vita che non si sa dove sarà diretto e quanto durerà. Ma che di certo non ci deve fare dimenticare dove tutto ebbe inizio. Dove tutto ebbe anche ragione, ragione di essere. Buon viaggio di ritorno, Wojtyla. E se questo ultimo viaggio non sarà del corpo, sarà sicuramente dello spirito, che in fondo è il nostro viaggio più importante.

Testo di Ana Cláudia Pinheiro Teixeira

Tratto da: musibrasil.net