IL DESTINO DELL'AFRICA E' NELLE MANI DEGLI AFRICANI



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Chiama l'Africa News 16 aprile 2004


Pubblichiamo in questa news un articolo scritto da Jean Leonard Touadi
in occasione della grande manifestazione sull'Africa che si sta
svolgendo a Roma in questi giorni, dal titolo Italia-Africa 2004 "Il
destino dell'Africa non è immutabile, molto dipende da noi" (
www.italiafrica.org <http://www.italiafrica.org> ).
La riflessione di Touadi prende spunto proprio dalla parola-chiave
contenuta nel titolo dell'iniziativa: "destino".

La manifestazione - promossa da Comune di Roma, Provincia di Roma, CGIL,
CISL, UIL, FAO, IFAD, WFP, UNICEF, Comunità di Sant’Egidio, ONG
italiane, Forum del Terzo settore, Comitato cittadino per la
Cooperazione e la Solidarietà, WWF Italia, Istituti Missionari Italiani
- ha visto in queste settimane lo svolgersi di numerose iniziative, di
cui abbiamo riportato il calendario nella news precedente, e avrà come
suo momento conclusivo un corteo che partirà sabato 17 aprile da Piazza
Barberini alle ore 15:00 e che confluirà in Piazza del Popolo, dove si
terrà un grande concerto con Youssou N'Dour, Pape Siriman Kanouté, Paola
Turci, Max Gazzè, Riccardo Sinigallia, Daniele Silvestri e tanti altri
artisti .
L'intento, secondo quanto dichiarato dal sindaco Veltroni, è quello di
"rompere il silenzio sulla più grande catastrofe del pianeta: l'Africa,
dimenticata dai media e oscurata dal disinteresse del mondo. Il primo
obiettivo è dire agli africani, a tutti gli africani: "non vi abbiamo
dimenticato", vogliamo spingere i nostri governi ad occuparsi di voi".

Noi saremo alla manifestazione del 17 Aprile (appuntamento alle ore
14.30 a Largo Santa Susanna, insieme agli amici di Amref), perchè ne
cogliamo il grande significato politico. Ciò non ci esime dal muovere
alcune critiche a questa iniziativa, come abbiamo espresso in un recente
comunicato firmato insieme a Nigrizia, Missione Oggi ed Emmaus Italia.
"L’Africa è certamente un continente dove i drammi si assommano ai
drammi, con guerre, malattie e povertà che non possono non interpellare
i popoli dell’opulenza. Ma da anni ormai chi ha lavorato in Africa e
conosce questo continente sa bene che la prima cosa che gli africani
domandano è il riconoscimento della loro dignità. Tutti noi sappiamo che
il futuro dell’Africa è innanzitutto nelle mani degli africani e che
soltanto mettendosi accanto alla società civile africana che in questi
decenni si è rafforzata e organizzata, è possibile pensare di risolvere
i suoi drammi. Allora, per favore, si parli innanzitutto dell’Africa che
vive e vuole vivere, si appoggino le iniziative della società civile
africana, piuttosto che attardarsi soltanto in discorsi pietistici, che,
certo, piacciono tanto alla moda di quello che Bush chiama il
“capitalismo compassionevole”, ma che, oltre a non risolvere i problemi,
portano anche a cadere nel semplice assistenzialismo. L’Africa muore di
elemosine. Proprio per questo a parlare di Africa devono essere
soprattutto gli africani. L’Africa di oggi è un continente dove ci sono
intellettuali, professionisti, persone organizzate, leader di movimenti,
che potrebbero avere una parola nuova da dire e che non vengono
ascoltati. E’ il difetto che neanche la manifestazione promossa dal
Comune di Roma è stata capace di superare".

IL DESTINO DELL'AFRICA E' NELLE MANI DEGLI AFRICANI
di Jean Leonard Touadi (jltouadi at libero.it)
Qualunque utilizzo del testo da parte di giornalisti o organi di stampa
dovrà essere concordato con l’autore
Disponibile anche sul sito alla pagina
http://www.cipsi.it/africa/dettagli.asp?ID=637&tipo=1
<http://www.cipsi.it/africa/dettagli.asp?ID=637&tipo=1>

Il destino dell’Africa non può e non deve essere messo nelle mani degli
altri. Non tanto perché noi africani siamo diffidenti nei confronti
degli altri. Al contrario, tutte le nostre culture e società si
distinguono per uno spiccato e caldo senso dell’ospitalità, soprattutto
nei confronti dei lontani, di coloro cioè che “vengono dal di là della
foresta, del fiume o degli oceani”. Dunque non è il rifiuto degli altri
che ci spinge all’orgogliosa rivendicazione di non consegnare il nostro
destino a “deus ex machina” venuti dall'Europa. E’ la dura lezione della
storia che ci raccomanda quanto meno prudenza e discernimento. Perché
ogni volta che l’Africa e gli africani sono stati costretti ad
abbandonare nelle mani degli altri il loro destino, i risultati sono
stati tragici. La memoria collettiva africana non potrebbe dimenticare
questa costante della storia, perché farlo significa coltivare e
perpetuare una cocciuta propensione alla resa, una collettiva
inclinazione al suicidio collettivo.

In effetti, cinquecent’anni di rapporti comuni tra Europa e Africa
narrano storie devastanti di conquista, dominio, sangue e sudore sotto
le stive delle navi dei negrieri, nei campi di cotone e di canna da
zucchero e, una volta abolita la schiavitù, il giogo degli altri è
proseguito con la colonizzazione in loco grazie all’arrogante
usurpazione del nostro spazio avvenuta con la colonizzazione, e
l’inserimento forzato dell’Africa e degli africani nel tempo e nella
storia degli altri. E non basta la nobile giustificazione della
“Missione civilizzatrice” per cancellare questa gigantesca operazione
d’espropriazione demografica, politica, economica ed antropologica
subìta dai popoli del continente. Popoli e culture che vivevano da sé e
per sé sono stati costretti a declinare il tempo degli altri e a
mendicare una patente d’umanità concessa solo se adoperavano il
linguaggio e la sostanza della visione del mondo europea. Tutto questo
ha lasciato un’eredità pesante nelle strutture demografiche ed
antropologiche; nei meccanismi dell’economia e in generale nel gioco
ormai travisato del rapporto tra uomo e natura; nella gestione del
consenso politico e nella strutturazione delle gerarchie di potere. In
poche parole la schiavitù prima, la colonizzazione in seguito hanno
liberato scorie negative che ammorbano ancora oggi l’ossigeno mentale
respirato dagli africani.
E’ davvero sorprendente che i discendenti di coloro che sono stati
fautori di questa meticolosa estraniazione dell’Africa da se stessa ci
chiedano oggi di voltare pagina, fare finta di niente per cominciare un
altro cammino storico (chiamato con altri nomi: globalizzazione, mercati
globali, democrazia calata dall’alto, planetarizzazione degli
scambi…ecc) che per noi ha un sapore antico. Quel sapore per noi
africani si chiama, secondo l’azzeccata espressione del romanziere
senegalese Cheick Anta Diop, “l’arte di vincere senza avere ragione”.
Vincere senza avere ragione significa vincere sul sangue e il sudore di
milioni di persone e di decine di generazioni che, per effetti di
meccanismi cinici, perpetuano il dominio con forme sempre più
sofisticate e “high tec”. Mutamenti semantici e concetti postindustriali
o neotecnologici che seguitano ad affermare che si tratta di una cosa
che non ci appartiene. Una pianta bellissima le cui radici non affondano
nella nostra terra. Ecco perché vogliamo negoziare il nostro ingresso
nella globalizzazione, non avendo avuto modo di negoziare a suo tempo il
nostro ingresso nella modernità. In mancanza di questo anche la
globalizzazione, alla stregua della modernità, sarà sempre la
globalizzazione degli altri con le regole fissate da loro per i loro
interessi. A noi viene chiesto di entrare mani e piedi legati in un
gioco le cui regole sono fissate da altri.
Cinquecent’anni fa, osserva lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo,
eravamo un’immenso serbatoio di materie prime minerali o vegetali, oggi
la bilancia dei pagamenti dei paesi africani segnala che lo siamo ancora
in condizioni peggiori. Non sono rispettate dagli stessi promotori le
leggi del tanto conclamato mercato dove i prezzi fluttuano in funzione
dell’offerta e della domanda. I nostri prodotti sono esportati allo
stato grezzo e subiscono la legge del più forte, ossia è il compratore
che fissa il prezzo dei nostri prodotti e il valore della moneta di
riferimento. Il risultato, da più di vent’anni a questa parte, è che le
materie prime africane subiscono una drastica riduzione del loro valore
all’interno di questo mercato degli inganni che è la globalizzazione.
Non contento di comprare tutto a prezzi stracciati, il mercato globale
vuole esagerare attingendo direttamente, senza la mediazione degli
stati, i prodotti di cui abbisogna. E’ la cosiddetta “geopolitica del
cinismo” che funziona seguendo il meccanismo perverso: guerra,
sfruttamento delle materie prime, vendita delle armi, ancora guerra, con
conseguenze devastanti sulle popolazioni e sull’ambiente. Le guerre
della Liberia, della Sierra Leone e dell'Angola e quella ancora in corso
in Congo democratico hanno una componente etnica in quanto alla mano
esecutrice, ma i mandanti e le motivazioni sono da ricercare nelle
ricomposizioni geopolitiche post guerra fredda e nei corposi interessi
che costituiscono il vero nervo della guerra. In quest'ottica, chiamare
questi conflitti "guerre etniche" non significa pressoché nulla almeno
che per etnia si intenda le multinazionali del diamante, dell'oro, del
coltan e dell'uranio.
Abbiamo, inoltre, svenduto costretti dalle politiche della Banca
mondiale e del Fondo monetario internazionale (in linguaggio high tec si
dice privatizzazione!) tutti i settori-chiave delle nostre economie
(acqua, energia, banche, assicurazioni, trasporti…) al capitale
straniero per mancanza di risparmio locale e d’imprenditoria indigena in
grado di competere con i mandarini del capitale venuti dall’estero.

Quel lontano passato e questo intollerabile presente dei rapporti
internazionali fanno scattare o dovrebbero fare scattare il riflesso di
non consegnare il proprio destino nelle mani degli altri. Certamente,
potrebbe obiettare qualcuno, ci sono stati numerosi, forse troppi,
africani che hanno collaborato al piano di fragilizzazione del
continente. Anche questa è una costante della storia: la collaborazione
dei re della costa nella schiavitù; la cooptazione d’addetti locali come
ausiliari dell’amministrazione coloniale; ed oggi questi governi a
sovranità limitata, etero-diretti dagli organismi multilaterali nelle
scelte di politica economica e monetaria e condizionati dal mimetismo
istituzionale e costituzionale che consegna ai nostri popoli copie
sbiadite di architetture politiche europee. Del resto quale è il popolo
del mondo che non possiede quella particolare categoria di persone
sempre pronte a volare al soccorso del vincitore di turno? Anche da noi
una certa élite ha perso il contatto con il popolo e si è fatta
strumento docile al servizio del potente di turno. Su quest’ultimo punto
occorre, tuttavia, distinguere e non fare di tutta l’erba un fascio. I
processi di democratizzazione iniziati alla fine degli anni ’80 hanno
consegnato ad alcuni paesi africani una classe politica più’ attenta
alle istanze di libertà e di partecipazione; più sensibile alla “buon
governo” della cosa pubblica; più preoccupata di ancorare le scelte
politiche ed economiche alle realtà antropologiche e culturali dei
paesi. Purtroppo resistono ancora i dinosauri della politica, dittatori
frettolosamente convertiti senza convinzione al credo democratico e
spesso sostenuti dalle potenze europee (Eyadema in Togo, Omar Bongo in
Gabon, Paul Biya in Camerun…); esistono ancora i conflitti che
insanguinano intere regioni; ci sono epidemie che minacciano intere
generazioni di uomini e donne. Flagelli che non sono appannaggio
esclusivo del continente africano anche se raggiungono in questo
continente dimensioni allarmanti.

Ma la vera novità dell’Africa oggi è l’emergere di gruppi sociali e
corpi culturali che hanno smesso di guardare il cielo ormai vuoto degli
aiuti per rivolgere lo sguardo verso la propria terra. E’ un movimento
ancora agli inizi, anche se le basi teoriche per il “ritorno all’Africa”
affondano le radici nel panafricanismo della fine dell’Ottocento. “Back
to Africa” per i fondatori del movimento culturale di rinascita negra è
un paradigma ideale di pensiero e d’azione. Esso agisce seguendo il
doppio movimento di: accettazione di sé, della propria condizione, della
pesantezza delle scorie negative sedimentate nella propria storia; e
anelito di riapropriazione del destino storico confiscato. Questo solco
fermo che ha illuminato il movimento delle indipendenze è stato smarrito
nei decenni ‘60-’90, in parte per colpa della guerra fredda che aveva
costretto gli africani – e altri popoli del Sud del mondo - a dover
scegliersi un padrone nel campo sovietico o in quello occidentale; in
parte per insipienza della classe politica africana, troppo incline a
fungere da gestore locale d’interessi extra-africani. Mentre tutti noi
credevamo nello sviluppo e nel progresso e cercavamo in tutti i modi di
rubare agli europei il segreto della loro vittoria, i fautori del
ritorno all'Africa ci insegnano che il segreto, la chiave per discernere
cosa prendere e cosa lasciare della globalizzazione si trova ancora in
Africa. E' dall'Africa che bisogna partire perché cosi ci insegna la
nostra saggezza: "se non sai dove vai, ricordati di tornare da dove sei
partito". Guardare indietro non idealizzando un passato africano puro e
perfetto che non è mai esistito, ma per attingere da un vissuto che,
bello o brutto che sia stato, è nostro e ci ha sempre permesso di
trovare le soluzioni alle sfide che la natura e la storia non hanno
mancato di offrire al nostro continente. La tradizione come "memoria
vigile" e punto di riferimento per una via africana alla
globalizzazione. E' su di essa che dovrà basarsi il "piano di
aggiustamento culturale" ossia quella salutare autocritica e
autocoscienza interna all'Africa che è ormai improcrastinabile.

Ora, la crisi dei modelli politici e l’allargamento della geografia
della miseri nelle città e nelle campagne ha permesso l’emergere di
gruppi che hanno deciso di strutturarsi al di fuori dell’ufficialità
politica (poco attenta alle loro aspirazioni) ed economica (che funziona
seguendo logiche imposte da fuori). L’altra Africa dell’economia
informale ci ha insegnato a tornare alla vocazione primaria
dell’economia che è risposta in termini di beni e di servizi a dei
bisogni della collettività (cibo, acqua, alfabetizzazione di base,
accesso ai farmaci, preservazione dell’ambiente e dei valori
antropologici). Insomma, un’economia informale che ha reinserito
nell’economia valori espulsi dalla produzione e riproduzione dei beni
imposta dall’economia dominante in Africa, in nome della ricerca
sfrenata del profitto. L’Africa dell’auto-organizzazione contadina
rivendica la fine dell’usurpazione dello spazio fisico da parte delle
multinazionali del petrolio, del caffè, del tabacco, dell’ananas, della
banana o del cotone. Essa grida forte e alto che la terra è al servizio
della comunità per i bisogni endogeni. Una dura lotta per sottrarre la
terra allo sfruttamento selvaggio che non solo inquina ma uccide ogni
forma di socialità locale. Nel delta del Niger, nelle pianure del Kenya,
nelle aride regioni saheliane dell’Africa occidentale, i contadini fanno
sentire la loro voce nella doppia lotta contro i potentati locali e
contro i meccanismi internazionali che li vogliono impoverire sempre più
per infine cacciarli dalla terra. Le “afriche” delle sterminate
periferie urbane costrette alla “clochardizzazione” di massa sono dei
piccoli prodigi quotidiani di sopravvivenza, una prova vivente e
sofferta di una popolazione che si attacca alla vita nonostante tutto
intorno evochi morte e desolazione. E c’è l’Africa della cultura e della
creatività che esibisce, ormai senza complessi e senza l’affanno di
dovere mendicare il riconoscimento altrui, i tesori del continente.
Segni tangibili, esteticamente avincenti, fieri ed allegri di una
cultura offesa ma viva, di un patrimonio storico violentato ma che ha
saputo conservare dignità e spessore. Nel solco di una tradizione
africana di resistenza alla natura particolarmente ostile (il più grande
ed insidioso deserto del mondo, un' estesissima zona saheliana
semi-arida, una foresta tropicale ed equatoriale ricca ma piena di
ostacoli per gli insediamenti umani) e all'azione dei conquistatori
europei dall'Atlantico e arabi attraverso il mare rosso e le rotte
transahariane. La resistenza africana è una delle pagine più nobili
della nostra storia. Ed è in nome di questa collettiva capacità di
resistenza che l'Africa è rimasta e rimarrà in piedi nonostante gli
uccelli di malaugurio che la vorrebbero già morta e pronta ad essere
seppellita.

Per tutti questi motivi gli africani non intendono più’ delegare a
nessuno la gestione del loro futuro. Qualcuno parla persino di
“sganciamento” dall’Occidente partendo dalla semplice constatazione che,
con l’Europa o senza di essa, i nostri problemi sono rimasti tali e
quali con qualche sospetto che potevano forse migliorare in assenza
delle ingerenze interessate delle potenze europee. Io non credo nella
teoria dello sganciamento, che sarebbe la negazione della storia e di
cinque secoli di commistioni tra l’Africa e l’Europa, nel bene e nel
male. Credo che l’Africa può ma non può da sola in questo mondo cosi
complesso e sempre più interdipendente al di là delle reciproche
volontà. Ciò che i popoli e le società africane chiedono è il
riconoscimento pieno della loro soggettività storica e della loro
maturità nella ricerca di soluzioni adeguate alle sfide di oggi.
L’Africa chiede che vengano rimossi gli ostacoli che impediscono
l’autonomo districarsi delle sue potenzialità. Ai nostri amici sinceri,
chiediamo di essere i nostri compagni (cum panis), ossia coloro che
accettano di condividere con noi il difficile cammino della liberazione
dalla fame, dalla povertà, dall’analfabetismo, dalle pandemie. Un
cammino di conquista di diritti che in Africa coincidono con i bisogni
fondamentali secondo la giusta consapevolezza che abbiamo maturato in
questi anni dei diritti che non possono essere solo diritti individuali
e soggettivi. Ai nostri amici sinceri chiediamo di fare un passo
indietro per lasciarci passare in modo che siamo noi ad indicare la
danza e il ritmo e loro a ballare insieme a noi. Chiediamo di smettere
di essere la nostra voce perché noi una voce ce l’abbiamo ma non riesce
ad imboccare un solo microfono giusto che porti lontano l’eco delle
nostre istanze di giustizia. Ai nostri amici sinceri chiediamo di
combattere i piromani di casa loro, per evitare lo spettacolo per noi
ormai insopportabile di pompieri e piromani che abitano la stessa casa,
viaggiano negli stessi aerei e parlano la stessa lingua. Essere al
nostro fianco oggi significa comprendere e collaborare ad estirpare le
"strutture di peccato" che sfigurano il volto dell'umanità e l'armonia
della natura. Ecco perché l'Africa è lo specchio della nostra storia e
del nostro presente. Lo specchio di un disordine del mondo che richiede
con urgenza nuovi demiurghi per traghettare il nostro destino collettivo
verso orizzonti di pace nella giustizia. In questa ricerca dagli esiti
incerti, ciascun popolo deve assumere il carico del suo destino locale
con la mente e il cuore dilatati alle dimensioni del mondo. Parlare
dell'Africa è parlare di tutti noi perché come diceva un saggio
africano: "non abbiamo avuto lo stesso passato ma siamo condannati allo
stesso futuro".

E' stato finalmente riattivato il Forum sul sito. Vi invitiamo pertanto
a commentare l'articolo e l'occasione da cui prende spunto alla pagina
http://www.cipsi.it/africa/forum



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a cura di Paola Luzzi
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