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Diario dal Kenya 3 - storie maledette e cuori grandi
- Subject: Diario dal Kenya 3 - storie maledette e cuori grandi
- From: "Carlo" <kasscarlo at yahoo.it> (by way of Enrico Marcandalli <marcandalli at tiscalinet.it>)
- Date: Fri, 24 Jan 2003 23:10:46 +0100
24 gennaio 2003 Kivuli centre Nairobi Kenya Habari? Hapa mzuri sana. Si, qua tutto bene. La stagione secca e' iniziata, ormai da una decina di giorni. Il caldo si sente. Ed e' gennaio, gia' ogni tanto devo ricordarmelo che siamo solo a gennaio, qua' tutto tende a farmelo dimenticare, il caldo, il sole. Poi ilfatto che probabilmente non mi sono ancora reso conto di tutto e mi pare che
di vivere una vacanza, lunga ma pur sempre una vacanza. Sono sempre impegnato a fare mille cose e questo mi spinge a evadere dall'idea di vacanza. Da quando sono finite le piogge la terra e' ogni giorno piu' arida. Ogni macchina e matatu che passa solleva nuvoloni di polvere rossa ovunque. Quando poi e' un bus o un camion che passa tutto intorno si alza una coltre oscura che si posa solo dopo qualche minuto e ti impedisce di vedere i pomodori che stai comprando. e questa terra rossa che tanto mi piace quando se ne sta tranquilla al suo posto si posa ovunque, sulle foglie delle piante, sui vestiti stesi, sui tetti in lamiera delle baracche, sulle bancarelle della frutta, sul pesce ricoperto di mosche, sulla gente che cammina per strada, sui miei occhiali. e ogni cosa prende una sfumatura rossiccia. Si, tutto sta diventando rosso. anche le banane. Ho iniziato a lavorare un po' piu' seriamente, non che prima non ne avessi voglia. Probabilmente il fatto di essere all'inizio mi aveva spinto ad aspettare, a osservare piu' che agire. Sto girando parecchio per progetti a Nairobi. Questo grazie all'aiuto deglioperatori di KARDS (Koinonia advisory research and development services), l'
organizzazione con cui sto lavorando. Sono i progetti e le associazione che loro stanno seguendo. Associazioni di base, nate da poco, che hanno bisogno di un'aiuto per cominciare, aiuto finanziario, manageriale e organizzativo.Io le sto visitando, sto cercando di capire come lavorano, cosa fanno, quali sono i problemi, per poi alla fine sceglierne un paio da seguire in modo piu
' approfondito. La scorsa settimana sono stato al Bega kwa Bega, una specie di cooperativa artigianale che sta a Korogocho. Stanno facendo un training di formazione sul lavorare in gruppo. Siamo stati li' tutto il giorno. Al mattino abbiamo incontrato il Batik group, giovani che producono batik. Mentre al pomeriggio l'Udada group, un gruppo di donne che producono collanine e oggetti con le perline. Entrambi gli incontri in swahili. Anche se sto cominciando a capire di piu' riesco a comprendere quello di cuistanno parlando ma non ogni parola. Ogni tanto poi la stanchezza mi prende e
comincio a non seguire piu' e mi limito ad osservare, a immaginare la vita che fa la gente che ho difronte. Mi e' capitato spesso in questi giorni di guardare il viso di una persona e cercare di capire chi sono, cosa pensano, cosa fanno, spesso aiutato dalle poche cose che so di loro. L'altro giorno ad esempio ero alla chiesa Our Lady of Guadalupe, la parrocchia di Libera.Sono andato a seguire un incontro tra rifugiati, prima un po' di preghiera e
poi la distribuzione di cibo (riso, farina, zucchero.). E' un progetto del Jesuit Refugees Services, finanziato da Caritas Italiana. Nel gruppo divolontari ce n'erano alcuni del Gupewa, un'associazione che sto seguendo. C' era una donna giovanissima, una bambina praticamente, circa 14 anni. col suo
bambino, frutto di uno stupro subito in Randa durante il quale sono stati uccisi i suoi genitori. Ho provato a immaginare cosa potesse avere in testa quella piccola donna. Si, perche' il viso non era di una bimba ma di donna. con tutte le responsabilita' che l'essere donna ha. Poi ieri mattina dopo il meeting con Peter, Agnes e Sarah, che sono gli educatori del centro di riabilitazione per street children qui a Kivuli mi sono messo a leggere le schede dei bimbi. Quante storie, problemi, sofferenza. Non pensi al loro passato quando li guardi correre per il cortile di Kivuli. Leggendo mi e' venuta in mente una frase di Ebano, un libro di Kapuscinski, che poi sono andato a cercare: "quei ragazzi scalzi, affamati e analfabeti vantavano su di me una superiorita' etica: la superiorita' che una storia maledetta conferisce alle sue vittime.". Certo, ora non sono piu' affamati ne analfabeti. Ma il pensare al prima. e quante volte in questi giorni in giro per Kibera, Korogocho, Riruta o anche in town, in centro questa sensazione. di impotenza, il sentirsi davvero piccolo.E questa gente che continua a lottare, a sorridere, a sperare. E' questo il senso di inferiorita', tu che non sopporti nulla, neanche il piu' piccolo fastidio, ti trovi a confrontarti con questa gente che ha davvero storie maledette, e non solo alle spalle! Queste storie maledette le continuano a vivere e probabilmente le vivranno anche in futuro, nonostante la speranza di cambiamento che ha portato questo nuovo governo. Gia', si sente che qualcosa sta cambiando.. Magari e' solo un'impressione, che pero' anche la gente che incontro ogni giorno sembra avere. Anche solo il fatto che dall'inizio del nuovo anno ogni volta hce sono stato fermato dalla polizia non mi e' piu' stato chiesto niente, il kitu kidogo (poco di qualcosa, spesso qualche scellino.) che spesso avevo dovuto dare nel primo mese. Nonostante cio' a un uomo congolese che stiamo seguendo con un gruppo di amici di Torino e che sta subendo un processo ingiusto da circa due anni gli sono stati chiesti 150.000 scellini per chiudere il processo a suo favore. Nonostante lui abbia ogni diritto di vincerlo il processo, essendo innocente. Il problema pero' e' che lui non e' keniano. Sembra che nell'ultimo mese l'UNHCR (UN High Commision for Refugees) abbia mandato avanti le pratiche piu' velocemente rispetto a prima, ma per strada, negli slum se sei
rifugiato sei il diverso. Come in Italia il nord africano e l'europeo dell'est, con tutto cio' che l-essere diverso comporta, discriminazione, senso di
inferiorita', paura e ghettizzazione.Si', di solito i rifugiati formano piccole comunita' nella zona in cui vivono con i loro negozietti, i loro business. Adesso stanno nascendo alcuni progetti che hanno come finalita' principale quella di far interagire i rifugiati con i locali. Come il workshop di tailoring (taglio e cucito) che c'e' qua a Kivuli in cui lavorano donne rifugiate e keniane. Oggi sono stato in giro per Kibera con un volontario di Hands of Love, ungruppo della parrocchia Our Lady fo Guadalupe che si occupa di assistenza ai malati di AIDS nello slum. Abbiamo iniziato alle nove e abbiamo finito verso
le 15. Siamo andati a trovare una decina di malati nelle loro baracche e dopo siamo andati alla parrocchia Christ the King, una parrocchia dentroKibera che ha vari progetti. Uno di questi e' una scuola per i bambini della
baraccopoli, primaria e da quest'anno anche secondaria. Siamo andati aparlare con il preside per vedere se si riesce a inserire nelle classi della
secondaria alcuni ragazzi figli di malati che l'associazione segue. Il visitare i malati e' forse la cosa piu' scioccante che ho fatto finora, e credo che continuero' a farlo. Non facciamo nulla di particolare, andiamo, prendiamo il the con loro, portiamo loro del cibo, parliamo un po', ogni tanto si prega con loro. Certo il fatto che parlino solo swahili mi limita un po', ma e' davvero importante, per loro ma soprattutto per me. Tutte levolte la scena si ripete. Dopo aver camminato per vicoli stretti tra capanne
di fango, bambini che stupiti per la mia presenza spuntano da ogni angolo e vengono a salutarmi, rigagnoli delle fogne a cielo aperto a cui fare attenzione, si arriva di fronte alla baracca dell'ammalato. Si bussa, "Hodi?" (permesso.) e poi si entra. Di solito buio, gli occhi ci mettono un po' ad abituarsi, e anche il naso. Loro stanno li', in un letto nascosto da un telo. Rimangono stupiti quando mi vedono, stupiti e contenti. Per una persona di uno slum che non riceve mai nessuno, che non ha un parente con cui parlare, avere un mzungu come ospite e' un grande onore. Rimangono sempre molto contenti, di avere qualcuno con cui parlare, piu' del cibo che portiamo. Le capanne sono piccole, le pareti di fango e legno, il tetto di lamiera con uno strato di plastica per non fare entrare l'acqua. In giro poche cose, qualche sedia malferma, un paio di pentole e piatti, un angolo con lo spazio per il fuoco, la zone notte divisa dal resto da un telo, il pavimento di terra battuta, e un caldo infernale. Il sole caldo che batte ulla lamiera dei tetti trasforma queste piccole camere in fornaci. L'odore forte di fango, residui di cibo, a volte di urina rendono il respiro affannoso. Ma dopo un po' ti abitui e dimentichi tutto cio' che ti sta intorno. Mi fermo a osservare chi ho di fronte, cerco di capire qualche parola, provo a intervenire come riesco. Oggi e' stato un giorno importante per Mado, una ragazza sieropositiva congolese di vent'anni circa. Non ha nessuno, e' venuta qua sola e sola e' rimasta. Ormai e' uno scheletro, la pelle ricopre solo le ossa. Dev'essere stata davvero una bella donna, c'e'una sua foto stupenda sul muro di fango, ora pero' le piaghe le riempiono il
viso. Finora non aveva accettato la malattia, non aveva mai voluto fare il test, non che serva visto che gli effetti dell'aids sono piu' che visibili. Ha sempre creduto che la sua malattia sia un maleficio fatto da qualcuno geloso della sua bellezza. Per questo e' scappata dal suo villaggio in Congo, sperava che allontanandosi da li' il maleficio sarebbe andato via. Oggi invece ci ha detto che ha intenzione di fare il test e di provare le cure. Joseph, il volontario con cui sono stato in giro, era sorpreso e contento. Non sperava in questo. Quando li ho lasciati stavano andando al Nairobi Hospital per fare il test. Certo, la vita di Mado non cambiera', ma il riconoscere di essere ammalati e' il primo passo per vivere con piu' serenita' il proprio destino. Il fatto di essere vicini al primo ritorno a casa (il 20 febbraio tornero' in Italia per un mese) mi spinge a cercare di capire piu' cose possibili su quali sono le mie possibilta' qui, di modo da arrivare a marzo con le idee piu' chiare e partire subito col lavoro. Ce ne sono di cose da fare, anche se ho cominciato sono ancora in fase di studio, per vedere dove posso collaborare in modo piu' incisivo. Per adesso i progetti che piu' mi interessano sono quelli con Hands of Love, di assistenza ai malati di aids di Kibera, e lavoro qui con i bambini di Kivuli. Vedremo. Sono sempre piu' convinto che quest'Africa ha ancora troppe cose da mostrarmi. Troppe cose che ancora non so, non capisco, o magari semplicemente non riesco a vedere. "Di solito si pensa che muoversi con uno scopo preordinato sia positivo, nel senso che ci si propone un certo fine e lo si persegue. D'altro lato e' una situazione che impone fatalmente dei paraocchi, perche' si finisce per vedere solo e unicamente quel certoscopo", sempre da Ebano. Quindi cerco anch'io di non pormi una meta a questo
anno, di non avere delle aspettative, di non mettermi dei paraocchi. Cerco la marcia in piu' offerta da un modo di guardare piu' libero e profondo che puo' rivelarsi molto interessante e rivelatrice. Almeno ci provo. Mi pare abbastanza, ne avete gia troppo da leggere, scusate, ma quando mimetto a scrivere mi vengono in testa tutte le esperienze degli ultimi giorni
e non finirei mai di scrivere. Un abbraccio a tutti Tuko pamoja Carlo **************************************************************************** ******* Carlo Cassinis C/o Kivuli Centre P.O. 21255 Nairobi KENYA Cell. Num.: 00254-733-748929 E-mail: Kasscarlo at yahoo.it
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