Diario dal Kenya 3 - storie maledette e cuori grandi




24 gennaio 2003

Kivuli centre

Nairobi Kenya
Habari?
Hapa mzuri sana. Si, qua tutto bene.
La stagione secca e' iniziata, ormai da una decina di giorni. Il caldo si
sente. Ed e' gennaio, gia' ogni tanto devo ricordarmelo che siamo solo a
gennaio, qua' tutto tende a farmelo dimenticare, il caldo, il sole. Poi il
fatto che probabilmente non mi sono ancora reso conto di tutto e mi pare che
di vivere una vacanza, lunga ma pur sempre una vacanza. Sono sempre
impegnato a fare mille cose e questo mi spinge a evadere dall'idea di
vacanza.
Da quando sono finite le piogge la terra e' ogni giorno piu' arida. Ogni
macchina e matatu che passa solleva nuvoloni di polvere rossa ovunque.
Quando poi e' un bus o un camion che passa tutto intorno si alza una coltre
oscura che si posa solo dopo qualche minuto e ti impedisce di vedere i
pomodori che stai comprando. e questa terra rossa che tanto mi piace quando
se ne sta tranquilla al suo posto si posa ovunque, sulle foglie delle
piante, sui vestiti stesi, sui tetti in lamiera delle baracche, sulle
bancarelle della frutta, sul pesce ricoperto di mosche, sulla gente che
cammina per strada, sui miei occhiali. e ogni cosa prende una sfumatura
rossiccia. Si, tutto sta diventando rosso. anche le banane.
Ho iniziato a lavorare un po' piu' seriamente, non che prima non ne avessi
voglia. Probabilmente il fatto di essere all'inizio mi aveva spinto ad
aspettare, a osservare piu' che agire.
Sto girando parecchio per progetti a Nairobi. Questo grazie all'aiuto degli
operatori di KARDS (Koinonia advisory research and development services), l'
organizzazione con cui sto lavorando. Sono i progetti e le associazione che
loro stanno seguendo. Associazioni di base, nate da poco, che hanno bisogno
di un'aiuto per cominciare, aiuto finanziario, manageriale e organizzativo.
Io le sto visitando, sto cercando di capire come lavorano, cosa fanno, quali sono i problemi, per poi alla fine sceglierne un paio da seguire in modo piu
' approfondito. La scorsa settimana sono stato al Bega kwa Bega, una specie
di cooperativa artigianale che sta a Korogocho. Stanno facendo un training
di formazione sul lavorare in gruppo. Siamo stati li' tutto il giorno. Al
mattino abbiamo incontrato il Batik group, giovani che producono batik.
Mentre al pomeriggio l'Udada group, un gruppo di donne che producono
collanine e oggetti con le perline. Entrambi gli incontri in swahili. Anche
se sto cominciando a capire di piu' riesco a comprendere quello di cui
stanno parlando ma non ogni parola. Ogni tanto poi la stanchezza mi prende e
comincio a non seguire piu' e mi limito ad osservare, a immaginare la vita
che fa la gente che ho difronte. Mi e' capitato spesso in questi giorni di
guardare il viso di una persona e cercare di capire chi sono, cosa pensano,
cosa fanno, spesso aiutato dalle poche cose che so di loro. L'altro giorno
ad esempio ero alla chiesa Our Lady of Guadalupe, la parrocchia di Libera.
Sono andato a seguire un incontro tra rifugiati, prima un po' di preghiera e
poi la distribuzione di cibo (riso, farina, zucchero.). E' un progetto del
Jesuit Refugees Services, finanziato da Caritas Italiana. Nel gruppo di
volontari ce n'erano alcuni del Gupewa, un'associazione che sto seguendo. C' era una donna giovanissima, una bambina praticamente, circa 14 anni. col suo
bambino, frutto di uno stupro subito in Randa durante il quale sono stati
uccisi i suoi genitori. Ho provato a immaginare cosa potesse avere in testa
quella piccola donna. Si, perche' il viso non era di una bimba ma di donna.
con tutte le responsabilita' che l'essere donna ha.
Poi ieri mattina dopo il meeting con Peter, Agnes e Sarah, che sono gli
educatori del centro di riabilitazione per street children qui a Kivuli mi
sono messo a leggere le schede dei bimbi. Quante storie, problemi,
sofferenza. Non pensi al loro passato quando li guardi correre per il
cortile di Kivuli. Leggendo mi e' venuta in mente una frase di Ebano, un
libro di Kapuscinski, che poi sono andato a cercare: "quei ragazzi scalzi,
affamati e analfabeti vantavano su di me una superiorita' etica: la
superiorita' che una storia maledetta conferisce alle sue vittime.". Certo,
ora non sono piu' affamati ne analfabeti. Ma il pensare al prima. e quante
volte in questi giorni in giro per Kibera, Korogocho, Riruta o anche in
town, in centro questa sensazione. di impotenza, il sentirsi davvero
piccolo.E questa gente che continua a lottare, a sorridere, a sperare. E'
questo il senso di inferiorita', tu che non sopporti nulla, neanche il piu'
piccolo fastidio, ti trovi a confrontarti con questa gente che ha davvero
storie maledette, e non solo alle spalle! Queste storie maledette le
continuano a vivere e probabilmente le vivranno anche in futuro, nonostante
la speranza di cambiamento che ha portato questo nuovo governo. Gia', si
sente che qualcosa sta cambiando.. Magari e' solo un'impressione, che pero'
anche la gente che incontro ogni giorno sembra avere. Anche solo il fatto
che dall'inizio del nuovo anno ogni volta hce sono stato fermato dalla
polizia non mi e' piu' stato chiesto niente, il kitu kidogo (poco di
qualcosa, spesso qualche scellino.) che spesso avevo dovuto dare nel primo
mese. Nonostante cio' a un uomo congolese che stiamo seguendo con un gruppo
di amici di Torino e che sta subendo un processo ingiusto da circa due anni
gli sono stati chiesti 150.000 scellini per chiudere il processo a suo
favore. Nonostante lui abbia ogni diritto di vincerlo il processo, essendo
innocente. Il problema pero' e' che lui non e' keniano. Sembra che nell'
ultimo mese l'UNHCR (UN High Commision for Refugees) abbia mandato avanti le pratiche piu' velocemente rispetto a prima, ma per strada, negli slum se sei
rifugiato sei il diverso. Come in Italia il nord africano e l'europeo dell'
est, con tutto cio' che l-essere diverso comporta, discriminazione, senso di
inferiorita', paura e ghettizzazione.Si', di solito i rifugiati formano
piccole comunita' nella zona in cui vivono con i loro negozietti, i loro
business. Adesso stanno nascendo alcuni progetti che hanno come finalita'
principale quella di far interagire i rifugiati con i locali. Come il
workshop di tailoring (taglio e cucito) che c'e' qua a Kivuli in cui
lavorano donne rifugiate e keniane.
Oggi sono stato in giro per Kibera con un volontario di Hands of Love, un
gruppo della parrocchia Our Lady fo Guadalupe che si occupa di assistenza ai malati di AIDS nello slum. Abbiamo iniziato alle nove e abbiamo finito verso
le 15. Siamo andati a trovare una decina di malati nelle loro baracche e
dopo siamo andati alla parrocchia Christ the King, una parrocchia dentro
Kibera che ha vari progetti. Uno di questi e' una scuola per i bambini della
baraccopoli, primaria e da quest'anno anche secondaria. Siamo andati a
parlare con il preside per vedere se si riesce a inserire nelle classi della
secondaria alcuni ragazzi figli di malati che l'associazione segue. Il
visitare i malati e' forse la cosa piu' scioccante che ho fatto finora, e
credo che continuero' a farlo. Non facciamo nulla di particolare, andiamo,
prendiamo il the con loro, portiamo loro del cibo, parliamo un po', ogni
tanto si prega con loro. Certo il fatto che parlino solo swahili mi limita
un po', ma e' davvero importante, per loro ma soprattutto per me. Tutte le
volte la scena si ripete. Dopo aver camminato per vicoli stretti tra capanne
di fango, bambini che stupiti per la mia presenza spuntano da ogni angolo e
vengono a salutarmi, rigagnoli delle fogne a cielo aperto a cui fare
attenzione, si arriva di fronte alla baracca dell'ammalato. Si bussa,
"Hodi?" (permesso.) e poi si entra. Di solito buio, gli occhi ci mettono un
po' ad abituarsi, e anche il naso. Loro stanno li', in un letto nascosto da
un telo. Rimangono stupiti quando mi vedono, stupiti e contenti. Per una
persona di uno slum che non riceve mai nessuno, che non ha un parente con
cui parlare, avere un mzungu come ospite e' un grande onore. Rimangono
sempre molto contenti, di avere qualcuno con cui parlare, piu' del cibo che
portiamo. Le capanne sono piccole, le pareti di fango e legno, il tetto di
lamiera con uno strato di plastica per non fare entrare l'acqua. In giro
poche cose, qualche sedia malferma, un paio di pentole e piatti, un angolo
con lo spazio per il fuoco, la zone notte divisa dal resto da un telo, il
pavimento di terra battuta, e un caldo infernale. Il sole caldo che batte
ulla lamiera dei tetti trasforma queste piccole camere in fornaci. L'odore
forte di fango, residui di cibo, a volte di urina rendono il respiro
affannoso. Ma dopo un po' ti abitui e dimentichi tutto cio' che ti sta
intorno. Mi fermo a osservare chi ho di fronte, cerco di capire qualche
parola, provo a intervenire come riesco. Oggi e' stato un giorno importante
per Mado, una ragazza sieropositiva congolese di vent'anni circa. Non ha
nessuno, e' venuta qua sola e sola e' rimasta. Ormai e' uno scheletro, la
pelle ricopre solo le ossa. Dev'essere stata davvero una bella donna, c'e'
una sua foto stupenda sul muro di fango, ora pero' le piaghe le riempiono il
viso. Finora non aveva accettato la malattia, non aveva mai voluto fare il
test, non che serva visto che gli effetti dell'aids sono piu' che visibili.
Ha sempre creduto che la sua malattia sia un maleficio fatto da qualcuno
geloso della sua bellezza. Per questo e' scappata dal suo villaggio in
Congo, sperava che allontanandosi da li' il maleficio sarebbe andato via.
Oggi invece ci ha detto che ha intenzione di fare il test e di provare le
cure. Joseph, il volontario con cui sono stato in giro, era sorpreso e
contento. Non sperava in questo. Quando li ho lasciati stavano andando al
Nairobi Hospital per fare il test. Certo, la vita di Mado non cambiera', ma
il riconoscere di essere ammalati e' il primo passo per vivere con piu'
serenita' il proprio destino.
Il fatto di essere vicini al primo ritorno a casa (il 20 febbraio tornero'
in Italia per un mese) mi spinge a cercare di capire piu' cose possibili su
quali sono le mie possibilta' qui, di modo da arrivare a marzo con le idee
piu' chiare e partire subito col lavoro. Ce ne sono di cose da fare, anche
se ho cominciato sono ancora in fase di studio, per vedere dove posso
collaborare in modo piu' incisivo. Per adesso i progetti che piu' mi
interessano sono quelli con Hands of Love, di assistenza ai malati di aids
di Kibera, e lavoro qui con i bambini di Kivuli. Vedremo.
Sono sempre piu' convinto che quest'Africa ha ancora troppe cose da
mostrarmi. Troppe cose che ancora non so, non capisco, o magari
semplicemente non riesco a vedere. "Di solito si pensa che muoversi con uno
scopo preordinato sia positivo, nel senso che ci si propone un certo fine e
lo si persegue. D'altro lato e' una situazione che impone fatalmente dei
paraocchi, perche' si finisce per vedere solo e unicamente quel certo
scopo", sempre da Ebano. Quindi cerco anch'io di non pormi una meta a questo
anno, di non avere delle aspettative, di non mettermi dei paraocchi. Cerco
la marcia in piu' offerta da un modo di guardare piu' libero e profondo che
puo' rivelarsi molto interessante e rivelatrice. Almeno ci provo.
Mi pare abbastanza, ne avete gia troppo da leggere, scusate, ma quando mi
metto a scrivere mi vengono in testa tutte le esperienze degli ultimi giorni
e non finirei mai di scrivere.
Un abbraccio a tutti
Tuko pamoja
Carlo


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Carlo Cassinis
C/o Kivuli Centre
P.O. 21255
Nairobi KENYA
Cell. Num.: 00254-733-748929
E-mail: Kasscarlo at yahoo.it