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Chiama l'Africa news 2/11/02
- Subject: Chiama l'Africa news 2/11/02
- From: <info at chiamafrica.it>
- Date: Mon, 4 Nov 2002 10:48:22 +0100
Chiema l'Africa news - 2 novembre 2002 Esprimiamo il più profondo dolore per le calamità naturali che nei giorni scorsi hanno sconvolto la vita di tante persone in Molise e in Sicilia. Siamo sentitamente vicini alle vittime, ai loro parenti, agli sfollati. ******************************************************************************** SOMMARIO 1. Costa d'Avorio 2. Repubblica Democratica del Congo 3. Burundi 4. Sudan 5. Sierra Leone 6. L'artigianato africano: una industrializzazione dal basso 7. Artisti contro la deforestazione in Kenya Continua la faticosa ricerca della pace in molti paesi africani sconvolti da conflitti durati anni, anche se contemporaneamente si accendono nuovi focolai di crisi, come nel caso della Repubblica Centroafricana, dove dal 25 ottobre sono scoppiate forti tensioni a causa di un nuovo tentativo di colpo di stato, o della Costa d'Avorio, particolarmente al centro dell'attenzione in queste ultime settimane; un paese fino a qualche tempo fa considerato un modello di democrazia e di sviluppo economico per l'Africa subsahariana, e in particolare per quella occidentale. Nel difficile tentativo di costruire la pace in questi paesi è di fondamentale importanza il ruolo della comunità internazionale, dell'opinione pubblica mondiale e dei mezzi di comunicazione. Tutti siamo tenuti a vigilare affinché le notizie non siano consumate nello spazio di poche ore. Dobbiamo appoggiare gli sforzi della gente e delle organizzazioni locali nel respingere ogni forma di sopruso e di violenza, e fare pressione sui governi e sulle istituzioni affinché prestino fede agli accordi sottoscritti, e governino con serietà e trasparenza, in favore della pace. Dobbiamo insistere perché l'Onu assuma piena responsabilità del suo ruolo; un ruolo che vuole questo organismo impegnato nella tutela della sicurezza, dei diritti e della democrazia di tutti i popoli, lontano da logiche di parte o di potere. 1. COSTA D'AVORIO Dopo un mese di vera e propria guerra civile, venerd" 18 ottobre il governo ivoriano e i ribelli del Movimento Patriottico della Costa d'Avorio (MPCI) hanno finalmente firmato il "cessate il fuoco". L'insurrezione, scoppiata il 19 settembre su iniziativa di un gruppo di militari ammutinati, aveva portato ad una vera e propria spaccatura del paese con il nord, a maggioranza musulmana, controllato dai ribelli, e il sud, a maggioranza cristiana, sotto il controllo del governo. Sono intanto iniziati a Lomé, capitale del Togo, le trattative di pace tra una delegazione dei ribelli e i rappresentanti del governo, turbate però dalla notizia che sarebbero in arrivo, in Costa d'Avorio, mercenari sudafricani pronti ad intervenire a fianco delle forze lealiste. Un analista della sicurezza di uno stimato Istituto di ricerca di Pretoria, ha affermato, all'inizio della settimana, che circa 40 mercenari, tra cui dei sudafricani, sarebbero recentemente arrivati in Costa d'Avorio su invito del governo, e che altri 160 seguiranno presto. Ufficialmente essi avrebbero il compito di proteggere il presidente, ma il loro numero induce a sospettare un loro diverso impiego. Nella drammatica crisi scoppiata poche settimane fa in questo paese, numerose sono state le violenze e le violazioni dei diritti umani. Giungono voci di uccisioni sommarie, perquisizioni arbitrarie nelle abitazioni civili, saccheggi. I principali sospetti del governo per quanto riguarda la regia occulta del tentativo di colpo di stato ricadono sul leader dell'opposizione ed ex premier, Alassane Dramane, ma anche sul vicino Burkina Faso. Le ricorrenti dichiarazioni in tal senso della leadership al potere, non fanno altro che aumentare la crescente ostilità da parte degli ivoriani nei confronti delle minoranze etniche presenti nel paese. La Costa d'Avorio è un paese di forte immigrazione; si calcola che circa il 28 % della popolazione residente sia straniera; tra questa almeno il 14% di origine burkinabé. Molti lavoratori dei paesi confinanti sono giunti qui attratti dalle possibilità di impiego nelle piantagioni di cacao incontrando, con il passare del tempo, le resistenze e la diffidenza della popolazione locale. Tra i lavoratori impiegati nelle piantagioni di cacao, caffè e cotone in Costa d'Avorio, sono migliaia i ragazzi tra i 7 e i 18 anni, molti di loro provenienti da altri paesi africani, spesso condotti nelle piantagioni con la forza o con l'inganno. Secondo uno studio condotto da una equipe di ricercatori dell'Istituto Internazionale dell'agricoltura tropicale (IITA) presso 150 produttori, il 64% dei minori occupati nelle piantagioni avrebbe meno di 14 anni. Tra questi 109.299 lavorerebbero con strumenti o sostanze pericolose per la loro salute. Consapevole di questo fenomeno, il governo ivoriano sembrava volersi impegnare siglando accordi con i paesi africani di provenienza di questi ragazzi per procedere al loro rimpatrio. Ma la recente crisi rimette tutto in discussione. Infatti migliaia di stranieri impauriti dal clima di violenza, fuggono verso i loro paesi d'origine, lasciando in Costa d'Avorio i ragazzi, alla mercè di imprenditori agricoli senza scrupoli. Il coordinamento dell'Africa Occidentale della campagna contro il traffico di ragazzi, portata avanti dalla ong Terres des Hommes, esprime la sua più viva preoccupazione al riguardo. Fonti: Misna, Le Monde (19/10/02), fraternità Matin (Abidjan), Sidwaya (Ouagadougou) Appuntamenti Che cosa succede in Costa d'Avorio? La crisi di un paese modello marted" 5 novembre a Roma, presso la Libreria Odradek, nell'ambito dei Marted" dell'Africa 2. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Carolyn Mc Aslie, alto funzionario dell'Onu per gli aiuti d'emergenza, durante una conferenza stampa tenuta il 23 ottobre, al rientro da una missione nella Repubblica Democratica del Congo, ha sottolineato la gravità della situazione umanitaria nell'est del paese. Il 64% degli abitanti della regione soffre di carenze alimentari e il 41% dei bambini sotto i cinque anni è affetto da malnutrizione. A questo si aggiunge il dramma dei profughi, circa 330 mila, rifugiati nei paesi confinanti. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) soltanto nelle ultime settimane, almeno 13 mila persone avrebbero abbandonato la provincia del sud Kivu, teatro di violenti scontri tra la Coalizione Democratica Congolese (RCD-Goma) e i Mayi Mayi, partigiani nazionalisti. Non si tratta di una sola crisi, ma piuttosto di una serie di crisi umanitarie, che vedono anche il dilagare dei casi di colera, in particolare nella provincia del Kasai. - Nonostante gli accordi siglati negli ultimi mesi tra le varie fazioni coinvolte nella crisi congolese, in questa regione si continua a morire. Il ritiro degli eserciti occupanti, primo fra tutti quello ruandese, lascia preoccupanti vuoti di controllo e di potere, di cui approfittano bande armate di tutti gli schieramenti, creando un clima generale di violenza, paura e insicurezza. In molte città, soprattutto lungo il confine con Uganda, Burundi e Ruanda, le varie fazioni continuano a combattere per contendersi il controllo sul territorio, sulle infrastrutture e sulle risorse strategiche. Nei giorni scorsi abbiamo ripreso la notizia - diffusa Le Cercle Solidarie, un forum informativo telematico specializzato sulla Regione dei Grandi Laghi - di un vero e proprio massacro avvenuto ad Uvira, in cui sarebbero state uccise 450 persone. Fortunatamente la notizia è stata smentita da appropriate verifiche, anche se permane la preoccupazione per la gravità della situazione. Il coordinamento di "Anch'io a Kisangani" (Beati Costruttori di Pace, Break the Silence, Chiama L'Africa, Agesci, Emmaus Italia, Gavci, Pax Christi, Missionari/e: Comboniani, Dehoniani, Saveriani, Consolata, Pime) ha lanciato un <http://www.cipsi.it/africa/dettagli.asp?ID=348&tipo=1> appello che raccoglie le istanze delle chiese e delle organizzazioni della società civile congolese. Chiedono che la forza Onu presente nella regione (Monuc) ottenga dal Consiglio di Sicurezza un rafforzamento del proprio mandato, e che sia trasformata da semplice forza di osservazione in contingente di "peacekeeping". Un altro appello è stato lanciato per chiedere a tutti i quotidiani che il 31 luglio scorso hanno dato con enfasi la notizia dell'accordo di Pretoria di dar conto del suo effettivo adempimento e di tenere i riflettori puntati su una guerra troppo a lungo trascurata dall'opinione pubblica. Dopo quello ruandese, anche gli eserciti alleati di Kinshasa (Angola, Namibia e Zimbabwe) - che erano intervenuti nel conflitto nell'agosto del 1998 - hanno lasciato mercoled" 30 ottobre il territorio congolese, con una cerimonia presenziata dallo stesso Kabila. Intanto sono ripresi venerd" 25 ottobre i colloqui di pace, secondo atto del dialogo intracongolese svoltosi nella primavera di quest'anno, che aveva portato ad un accordo solo parziale tra le parti in causa. Mediatore è questa volta il senegalese Moustapha Niasse, inviato speciale delle Nazioni Unite, affiancato dal presidente sudafricano Thabo Mbeki. Sul tavolo negoziale la proposta di quest'ultimo, di dare vita ad un governo di transizione con Kabila presidente e 4 vicepresidenti rappresentativi delle varie forze in campo. Ma sullo sfondo emerge in modo sempre più chiaro il reale movente di questa drammatica guerra: il reiterato saccheggio delle risorse naturali da parte di uomini politici, imprese locali, potenze straniere e multinazionali. In un nuovo <http://www.cipsi.it/africa/files/security.pdf>rapporto di 50 pagine, una commissione delle Nazioni Unite ha ribadito la denuncia già avanzata un anno fa, e ha chiesto al Consiglio di sicurezza di imporre sanzioni economiche e restrizioni a società e personaggi politici che hanno depredato le ricchezze del paese. In tutto 54 persone e 29 imprese - di cui 4 con base in Belgio - vengono citate nel rapporto come direttamente coinvolte in traffici illeciti. Oltre una ventina tra gli accusati sono responsabili militari o politici di Ruanda, Uganda, Zimbabwe e Congo. Ma il rapporto evidenzia anche semplici violazioni amministrative ed etiche ai protocolli internazionali sul commercio, compiute da ben 85 imprese multinazionali. Il governo ruandese ha tempestivamente stroncato il rapporto redatto dal panel di esperti, dichiarandolo privo di professionalità e insufficientemente documentato. Ha respinto ogni accusa riguardante il coinvolgimento di istituzioni, funzionari, civili o militari ruandesi nei fatti descritti, fino ad indicare nel gruppo di esperti un fattore di incitamento alla violenza etnica, razziale o religiosa. Infine, invita il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a respingere il rapporto nella sua interezza, poiché la sua accettazione finirebbe per minare l'immagine stessa del Consiglio. Ma tra i responsabili della rapina perpetrata in questi anni non figurano soltanto ruandesi. Molti sono i nomi di esponenti degli stati alleati di Kabila (Uganda, Namibia e Zimbabwe) e dello stesso governo di Kinshasa, e di fronte ad una verità cos" scomoda è pressoché unanime la reazione della stampa, delle chiese, delle organizzazioni della società civile, delle ong per la difesa dei diritti umani, che chiedono le dimissioni dei responsabili o addirittura l'adozione di severe misure di risarcimento. Una presa di posizione molto chiara arriva dalle parole di Kofi Annan, che ha firmato l'introduzione al rapporto. "La volontà di approfittare della guerra continua - ha detto - e non c'è nessun interesse nella pace", e invita ad una decisa azione internazionale contro i responsabili, per non rischiare di vanificare i tentativi di pacificazione nella regione. Fonti: Misna, UN Integrated Regional Information Networks, Avvenire (23/10/02), Angola Press Agency 3. BURUNDI Dopo la firma del "cessate il fuoco", avvenuta il 7 ottobre tra il governo in carica e le componenti minoritarie della ribellione, è cominciato luned" 21 ottobre a Dar El Saalam, in Tanzania, un nuovo giro di trattative, questa volta con le Fdd (Forze per la difesa della democrazia) e con le Fnl (Forze Nazionali di Liberazione). Le due fazioni sedute in questi giorni al tavolo dei negoziati sono quelle che controllano in modo massiccio e militarmente significativo vaste aree di territorio; è' quindi in queste negoziazioni che si gioca davvero la pace di questo piccolo paese dell'Africa centro-orientale. In realtà sembra che soltanto il primo dei due movimenti oltranzisti abbia per ora accettato di inviare propri delegati all'incontro. In una dichiarazione, il capo del movimento si è impegnato a sospendere unilateralmente le ostilità a partire dal 3 novembre, per raccogliere le aspettative della gente e l'invito della comunità internazionale a mantenere la calma per tutta la durata dei negoziati. Il conflitto è iniziato nel 1993, dopo l'assassinio dell'allora presidente Malchoir Ndadaye, che aveva sconfitto alle elezioni l'attuale presidente Pierre Buyoya. Da allora è in corso una guerra civile che ha causato circa 300.000 vittime, quasi tutte civili, e che vede contrapposti l'esercito governativo, a prevalenza tutsi, e movimenti ribelli hutu. Il 1 novembre 2001 si è installato nel paese un governo di transizione che prevede la suddivisione delle responsabilità tra esponenti delle due etnie. L'esecutivo attuale è guidato da M.Buyoya, esponente dell'etnia tutsi, che dovrà lasciare la mano ad un successore hutu dopo 18 mesi dall'inizio del suo mandato. Intanto - come in ogni area di guerra - anche qui c'è un'emergenza sfollati. Circa 20.000 civili provenienti da villaggi nei pressi di Bujumbura si sarebbero rifugiati sabato 26 ottobre in località a circa 20-25 km dalla capitale, in seguito agli scontri tra l'armata regolare e i ribelli del Fronte Nazionale di Liberazione - Un grave problema nel paese riguarda il sistema scolastico, fortemente compromesso dalla instabilità politica e civile. Una buona notizia viene dall'Unesco: circa 370 ragazzi hanno lasciato definitivamente la strada per tornare a scuola, grazie ad un progetto delle Nazioni Unite, mentre il ministro burundese per l'educazione ha appena concluso una missione in Europa finalizzata alla ricerca - all'interno della diaspora universitaria, di candidati disponibili a tornare in patria per contribuire al rafforzamento dei programmi scolastici ed educativi. Fonti: Misna, Panapress, AFP (Agence France Press) 4. SUDAN In Sudan serve una pace per salvaguardare i diritti umani e non una tregua per spartirsi il petrolio. La mia grande paura è che il cessate il fuoco appena firmato apra la porta soltanto alla ripartizione delle risorse del Paese". Padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano in Kenya, smorza gli entusiasmi che ieri (16/10/02) hanno accompagnato la firma della tregua tra il governo di Khartoum e i ribelli dell'Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla), a Machakos (Kenya). Padre Kizito sospetta una 'forzatura' da parte dei negoziatori, intravede lo 'zampino' americano, frena i toni trionfalistici ma 'spera che sia almeno un piccolo passo'. Da anni impegnato con le popolazione sudanesi dei Monti Nuba, il religioso comboniano conosce molto bene le dinamiche geo-politiche del conflitto scoppiato nel 1983. Per questo ora è scettico: "Dagli elementi raccolti mentre mi trovo in Italia - spiega alla MISNA - ho la sensazione che vi sia stato una sorta di cedimento da parte dello Spla, che in precedenza non aveva mai voluto deporre le armi se non in presenza di un accordo finale con il governo sudanese". Questa volta, invece, i ribelli hanno accettato di mettere fine alle ostilità. Successivamente apriranno la trattativa sulle altre questioni rimaste insolute dopo l'importante accordo della fine di luglio con il governo sudanese. "Ho la sensazione che questo sia avvenuto per le pressioni internazionali - aggiunge il missionario - e non credo che la pace si debba imporre, ma piuttosto vada cercata dalle due parti". Anche se, precisa, sia il regime del presidente Omar el-Beshir che la ribellione del Sud guidata da John Garang, hanno probabilmente cercato di ottenere i vantaggi migliori da questa situazione. Non solo, ma i 'facilitatori' del dialogo potrebbero aver cercato un risultato positivo a tutti i costi: "Sospetto una forte interferenza dei negoziatori - afferma il religioso - soprattutto da parte degli Stati Uniti, che sono alla disperata ricerca di un successo diplomatico nella regione. Alla firma dell'intesa di luglio, gli Usa hanno enfatizzato i risultati ottenuti e probabilmente ora hanno forzato le parti a firmare". Il rischio, denuncia padre Kizito, "è quello di un negoziato che ora metta al centro il petrolio, dimenticando che la questione più importante da risolvere in Sudan riguarda i diritti umani. E' necessario dare una risposta di fronte alle sofferenze delle popolazioni del sud e del nord del Paese". Le clausole principali dell'accordo, conclude il missionario, devono risolvere il problema delle sistematiche violazioni dei diritti ai danni dei civili. "Sarebbe già positivo se la firma rappresentasse un piccolo passo - chiosa padre Kizito - lo spero davvero. Ma resto in attesa di conoscere i dettagli di questa tregua". Fonte: Misna 5. SIERRA LEONE La Sierra Leone ha incarnato negli anni '90 lo stereotipo del conflitto africano: amputazioni, rapimenti, bambini arruolati come soldati e costretti a commettere le più gravi atrocità, 50 mila morti, centinaia di migliaia di profughi. Un vero e proprio campionario di inumanità. Pochi sanno che nel 2001 il paese ha guadagnato una pace faticosa, che ha portato al disarmo di circa 45.000 uomini, tra ribelli del RUF, mercenari e formazioni armate minori, alla liberazione di circa 5.400 bambini (stima Unicef), a libere elezioni e alla costituzione di organismi controllati dalle Nazioni Unite che dovranno contribuire a fare chiarezza e, per quanto è possibile, a rendere giustizia (si tratta di una Corte Penale Internazionale e di una Commissione per la verità e la riconciliazione). "La gente - ha detto Mons. Biguzzi, vescovo di Makeni, durante un incontro svoltosi a Roma luned" 21 ottobre - vuole la pace, ed è alacremente impegnata a costruirla. Il problema, però, è riconoscere le vere cause di questa guerra che ha devastato per dieci anni il paese, e creare nel contempo prospettive di lavoro e di speranza per i giovani". La situazione è resa ancora più fragile dalla tensione presnete nell'intera regione. In Liberia continua la ribellione nel nord del paese, mentre nella vicina Costa D'Avorio è in atto dal 19 settembre una violenta insurrezione e una altrettanto violenta repressione. La Sierra Leone è stata al centro della puntata di Report del 22 ottobre. Durante la trasmissione sono state messe in evidenza le tante ombre che accompagnano la presenza di ong in zone di guerra. Dubbi sono stati sollevtai anche sull'operato della Caritas di Makeni e del vescovo Mons. Biguzzi. Ad un nostro comunicato in cui esprimevamo dubbi sulla serietà dell'inchiesta, ha fatto seguito la replica di Milena Gabbanelli, una delle autrici del programma, alla quale abbiamo a nostra volta risposto fornendo ulteriori precisazioni. Per maggiore chiarezza anche di chi ci segue, riportiamo qui di seguito lo scambio di e.mail. La replica di Report Report non ha problemi ad ammettere errori, a fare precisazioni o rettifiche. Nel caso specifico non credo che esistano i presupposti. Monsignor Biguzzi ha replicato nel corso della puntata sui punti contestati. Inoltre, vorrei ricordare che rai 3 ha dato ampio spazio all'operato di Monsignor Biguzzi in Sierra leone e a tante altre Ong che operano nel mondo. A loro sostegno e' stata fatta anche una raccolta fondi. La nostra puntata aveva come obiettivo le contraddizioni del sistema "emergenze". A nostro avviso, anche la Caritas Makeni "soffre" di contraddizioni. Penso che un Paese intellettualmente libero debba accettare anche la critica. A maggior ragione Monsignor Biguzzi, il quale, nel corso della lunga intervista realizzata da Giorgio Fornoni, lancia, a sua volta, pesanti accuse verso altre organizzazioni. Milena Gabanelli (29/10/02) La nostra precisazione Gentile Milena, la ringraziamo per la sua mail. Come prima cosa ci teniamo a sottolineare che Chiama l'Africa è una associazione indipendente, non legata alla Caritas italiana, ne' a quella internazionale e neppure a quella di Makeni, se non per il fatto che nel 2000 abbiamo appoggiato l'azione di quest'ultima in favore dei bambini soldato, in concomitanza con una nostra campagna contro la diffusione delle armi leggere in Africa. Chiama l'Africa non è una ong, non opera nel settore della cooperazione allo sviluppo e non ususfruisce di fondi destinati a questo scopo. Con il nostro comunicato non avevamo intenzione di chiedere una rettifica (sarà lo stesso Mons. Biguzzi, nel caso, a richiederla). Abbiamo voluto soltanto dichiarare la nostra fiducia nei confronti di una persona di cui conosciamo bene l'operato, e sottolineare il fatto che il suo intervento in Sierra Leone non è, come sembrava emergere dal filmato, legato all'emergenza, bens" il frutto di un lungo lavoro in una delle aree di crisi più drammatiche dell'Africa subsahariana. Riguardo alle critiche più specifiche avanzate nel filmato sappiamo che è stato lo stesso Mons. Biguzzi a dichiararsi "amareggiato" per il fatto che gli autori della trasmissione non hanno tenuto in debito conto la documentazione fornita per smentirle. Confermiamo la stima nei confronti della vostra trasmissione, ma non possiamo fare a meno di sottolineare con dispiacere una evidente approssimazione nel trattare un argomento che ci sta particolarmente a cuore. Abbiamo capito benissimo qual'era l'intento della trasmissione (mettere in luce le contraddizioni del sistema "emergenze"), ma da telespettatori "informati sui fatti" ci sentiamo liberi di poter dichiarare che l'obiettivo non è stato centrato. La realtà della cooperazione vede coinvolti tanti attori, compresi i governi e le istituzioni internazionali, in un sistema in cui le organizzazioni umanitarie rappresentano solo l'ultimo gradino. Eppure si è parlato solo di queste ultime e dei loro "peccati". Sono state messe insieme le "cattedrali nel deserto" del Malawi, se non ricordo male - che nulla hanno a che fare con le emergenze - con lo sminamento in aree di guerra. Si è parlato principalmente di ong italiane. Sono stati raffigurati tanti personaggi "cattivi" e due soli veri eroi, in puro stile fiction. Secondo lei quale idea può essersi fatto il telespettatore medio? Probabilmente penserà che l'unica vera solidarietà passi attraverso gli show televisivi di Pavarotti and friends. Queste critiche non ci impediscono tuttavia di continuare a considerare la vostra trasmissione come l'espressione di una informazione coraggiosa e nuova. Buon lavoro, cordialmente. Per Chiama l'Africa, Paola Luzzi (30/10/02) Invito alla lettura : Non chiamarmi soldato. Frammenti di pace in Sierra Leone, EGA-Edizioni Gruppo Abele (www.egalibri.it), * 12,00 6. L'ARTIGIANATO AFRICANO: UNA INDUSTRIALIZZAZIONE DAL BASSO Ouagadougou ospita dal 25 ottobre al 3 novembre l'ottava edizione del Salone Internazionale dell'Artigianato. Si tratta di una manifestazione che rappresenta una vera e propria vetrina per l'artigianato africano, nella quale assumono un ruolo di primo piano i piccoli produttori. La rilevanza del settore artigianale in Africa - sempre al limite tra economia tradizionale ed economia informale - è difficile da quantificare. Si tratta in ogni caso di un'importanza capitale, dal momento che l'artigianato ha rimpiazzato le speranze deluse dell'industrializzazione. L'artigianato artistico che i turisti vengono ad acquistare alla fiera non è che la punta dell'iceberg, la parte più appariscente di una realtà in cui tanti piccoli "imprenditori" inventano tecniche e mestieri per soddisfare il mercato interno a basso costo. E' il caso, per esempio, delle riparazioni di beni di nuovo consumo (cellulari, pc portatili, automobili), che va dilagando e beneficia di una buona dose di inventiva e di creatività. L'Africa infatti resta esclusa dai flussi degli investimenti mondiali (solo il 2% degli investimenti esteri del pianeta). I piccoli produttori si sono di fatto impossessati del mercato lasciato vuoto dal mancato processo di industrializzazione. Essi innovano, per tentare di ridurre i costi di produzione: utilizzano tecniche autoctone, materiali alternativi o di recupero, per abbattere i costi di importazione di alcune materie prime. L'artigianato rappresenta inoltre la vera sfida nel campo del valore aggiunto. La sola esportazione di materie prime non è servita a garantire risultati nella lotta contro la povertà, e alcuni governi stanno attualmente cercando di favorire la trasformazione sul posto delle materie prime : legname, cotone, petrolio, prodotti agricoli; ma vista l'esiguità degli investimenti stranieri, questo processo non garantisce ancora risultati apprezzabili su scala industriale. Per contro, la "piccola trasformazione" permette la sopravvivenza di molte famiglie. E' il caso di piccole imprese per la produzione di latte pastorizzato e di yogurt, che garantiscono utili maggiori rispetto al solo latte fresco, utili che vengono reinvestiti in attrezzature e personale, con un conseguente miglioramento della qualità e della quantità della produzione. Un esempio delle possibilità di ottimizzare le produzioni locali viene dal Ghakoi-Sud, una associazione tra le organizzazioni professionali di sette paesi dell'Africa occidentale, grazie alla quale i produttori si tengono vicendevolmente informati sui propri bisogni. Il principio guida è quello di sfruttare al massimo la complementarietà tra i paesi per reperire pezzi di ricambio e materie prime là dove sono meno care, alimentando nel contempo il mercato locale. Fonte: RFI Actualité 7. ARTISTI CONTRO LA DEFORESTAZIONE IN KENYA Il Kenya è un paese ricco di diversi ecosistemi, dalla foresta pluviale alle foreste di mangrovie della costa, conserva oggi più di 480 specie di piante autoctone e una varietà biologica unica, tuttavia in vista delle elezioni, previste nel dicembre prossimo, è in atto in Kenya un'ampia deforestazione sotto il pretesto di dar "le terre ai contadini più poveri": in verità solo le briciole arriveranno a quest'ultimi, costretti ad un acquisto illegale. Le autorità potranno cos" riprendersi un domani le terre rifacendosi sull'illegalità dell'atto. "Affinché sia garantita una risposta ai bisogni delle popolazioni locali la foresta dovrebbe coprire almeno il 10% del territorio nazionale, anziché dell'attuale 2,7% o 3% dello scorso anno. Ma, di questo, il governo sembra non curarsene" - sostiene Fabio Pipinato, già direttore di Unimondo - che presenta un'importante iniziativa che la creatività della gente locale è riuscita a realizzare. La scritta in lingua Kikuyu "non tagliate le nostre foreste" accompagnata da un disegno che raffigura alberi tagliati, la scomparsa del verde sottobosco e la comparsa della sabbia del deserto, è apparsa ad opera di artisti locali, dapprima sui muri delle toilette pubbliche, poi coordinati in un microprogetto, hanno dipinto i loro murales su ampie metrature di edifici pubblici. I loro disegni invitano la gente a difendere le foreste e nel contempo a piantare alberi nelle rispettive proprietà in modo da garantire una risposta al proprio fabbisogno. E' un modo di comunicare semplice ed essenziale; raggiunge tutti, anche coloro che non sanno leggere e scrivere. Fonte: Unimondo (21/10/02)
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