rwanda: a sei anni dal genocidio



MONDO Gli orfani del genocidio
UN FIGLIO IN RWANDA
Nel '94 Radio Mille Collines incitava ad "uccidere senza pietà i bambini. Altrimenti torneranno per vendicarsi". Oggi il Rwanda è il Paese africano con il maggior numero di orfani (500.000). Un progetto italiano di adozione a distanza per salvargli la vita 
Testo e foto di  SIMONE ALLEGRINI
  al cortile dell'orfanotrofio di Kicukiro, sobborgo a sud di Kigali, ogni giorno si sente il rombo dei pochi aerei diretti al vicino aeroporto della capitale. 
Il 6 aprile del 1994 furono in molti ad udire il fragore molto meno rassicurante dell'esplosione dell'aereo personale su cui viaggiava l'allora Presidente della Repubblica Rwandese Juvénal Habyarimana, di etnia hutu, abbattuto in fase di atterraggio. 
La sera stessa, dopo l'annuncio dell'attentato da parte della radio e della televisione, cominciarono i primi massacri di tutsi per mano degli hutu. Circolavano liste di tutsi e hutu moderati da eliminare, le stragi venivano compiute con una velocità impressionante, già durante il primo giorno morirono migliaia di persone sotto i colpi delle forze armate rwandesi e della milizia estremista hutu Interahamwe. A Kigali ed in molti altri centri furono istituite delle ronde di miliziani che si recavano nelle abi


tazioni dei tutsi per massacrarli. 
Molte famiglie si diedero alla macchia cercando di sfuggire ai carnefici. Una quindicina di queste l'8 aprile del 1994 cercò rifugio nella congregazione delle Piccole Sorelle di Gesù a Kicukiro. Le suore accolsero e nascosero nel proprio edificio le famiglie tutsi ma non riuscirono ad impedire, dopo alcuni giorni, l'ingresso e la perquisizione da parte della milizia. 
Gli uomini, le donne ed i bambini, terrorizzati dalla morte ormai certa che li aspettava, vennero portati fuori dall'edificio, messi in fila uno accanto all'altro e uccisi a colpi di machete dai contadini hutu fatti accorrere dai miliziani. 
I bambini, grazie all'intervento delle suore e in particolare alla tenacia di Suor Cécile, di etnia hutu, scamparono alla morte ma non venne risparmiato loro l'ascolto straziante delle grida dei propri genitori. 
Le suore hanno continuato a nascondere i bambini ormai orfani fino alla fine dei massacri poi, prestando fede alla promessa fatta ai genitori dei bambini pochi istanti prima di morire, decidono di occuparsi di loro fondando un orfanotrofio. 
Oggi l'orfanotrofio di Kicukiro ospita una trentina di bambini fra i 5 e i 18 anni, assicura loro un alloggio, vestiti ed un ambiente sano dove vivere e giocare (condizioni che purtroppo oggi non sono alla portata di tutti i bambini rwandesi); inoltre, grazie al sostegno di numerose famiglie italiane, i bambini di Kicukiro possono vestire le divise blu o beige delle scuole primarie e secondarie: tramite un progetto di adozione a distanza sostenuto in Italia dall'associazione Progetto Rwanda ai bambini vengo


no garantite tutte le spese scolastiche, dalla retta annuale alle spese del materiale didattico. 
Il genocidio del 1994 è stato particolarmente brutale per l'altissimo numero di bambini uccisi; Radio Mille Collines, emittente privata controllata dagli estremisti hutu legati a filo doppio alla famiglia del presidente Habyarimana, durante i giorni del massacro incitava gli hutu ad "uccidere senza pietà i bambini - soprattutto i maschi - altrimenti torneranno per vendicarsi". Molto più numerosi sono però i bambini rimasti orfani, alcuni vivono abbandonati a se stessi, altri più fortunati hanno trovato fami


glie disposte ad accoglierli, sono stati presi in carico da parenti più o meno lontani, amici di famiglia, vicini. Spesso però le condizioni di vita sono al limite della sopravvivenza. _ il caso della famiglia della vedova Godelive: il marito è morto durante il genocidio ed oltre ai suoi tre figli e alla madre invalida ha preso con sé altri quattro orfani; la casa in cui abitava prima del genocidio è stata rasa al suolo dalla follia distruttrice degli hutu e la famiglia vive in una piccola cassa di argilla 


alle porte di Kigali; due dei suoi sette figli sono adottati a distanza da famiglie italiane. 
Anche quello di Felix è un caso emblematico: nel 1994 a diciotto anni è diventato capofamiglia, i suoi genitori e cinque tra fratelli e sorelle sono stati uccisi durante il genocidio, si occupa dei suoi tre fratelli minori, due dei quali adottati a distanza, e da tre anni ha preso in carico altri quattro bambini orfani; barbiere in uno dei numerosissimi "Salon de Coiffure" di Kigali, vive con i suoi sette fratelli in un appartamento nei sobborghi della capitale formato da due piccolissime stanzette senza el


ettricità, né acqua, né bagno, anche la casa paterna dove Felix viveva prima del genocidio è stata distrutta e saccheggiata.
Le adozioni a distanza dei figli di Godelive e dei fratelli di Felix, come di
molti altri bambini rwandesi, sono possibili grazie a "Kanyarwanda",
associazione rwandese che da 1991 si batte per la tutela dei diritti umani, i
cui componenti durante la catastrofe del 1994 sono stati il bersaglio
privilegiato degli attacchi dei genocidari.
Da qualche anno i componenti di "Kanyarwanda", oltre a svolgere un lavoro di
ricomposizione sociale e di riconciliazione fra le due etnie in un Paese dove
sono ancora tangibili forti spinte di intolleranza razziale, si occupano del
sostentamento delle vedove e degli orfani del genocidio attraverso progetti di
adozione a distanza.

scheda
UNA SUORA RACCONTA
"Così è nato il nostro orfanatrofio"
  uor Demetria, della congregazione delle Piccole Sorelle di Gesù, racconta così
i primi giorni del genocidio e la nascita dell'orfanotrofio: "Il 10 aprile,
quando i militanti sono arrivati eravamo nella Cappella della congregazione.
Dall'8 aprile un centinaio di persone fra adulti e bambini erano venuti a
rifugiarsi qui da noi pensando di essere più al sicuro. Erano i nostri amici, i
nostri vicini di casa. Eravamo più di 100 persone. Un militare ha bussato a
questa finestra e ci ha ordinato di uscire. Io e suor Cécile siamo andate al
cancello dove i militari ci hanno detto che volevano semplicemente controllare
le carte d'identità e verificare se eravamo al sicuro. Due di loro sono tornati con noi ed hanno ordinato a tutti di uscire. Sono entrati in ogni stanza, persino nei bagni. Una volta fuori ci hanno fatto sedere per terra, è in quel momento che abbiamo capito di essere stati ingannati ed è allora che i genitori dei bambini ci hanno detto: "Piccole Sorelle, se ci succede qualche cosa, se voi riuscite a sopravvivere abbiate cura dei nostri figli, vogliamo che vivano con voi". Poi i militari hanno cominciato a 


picchiare tutti, urlando: "Non stiamo scherzando, facciamo sul serio! Ma non saremo noi a controllare l'etnia sulle vostre carte d'identità, saranno i vostri stessi vicini! ". Hanno fatto scendere tutti, adulti e bambini, lungo il viottolo che costeggia l'edificio e lì, in fondo, hanno cominciato a dividere uomini, donne e bambini. Un militare è intervenuto e ci ha ordinato di portare via i bambini. I loro genitori sono stati uccisi lì, uno ad uno, dai loro vicini hutu, per lo più a colpi di machete. Era or


ribile e non siamo riuscite ad evitare che i bambini sentissero le urla ed i pianti dei genitori. C'è una fossa comune più giù, sono tutti sepolti lì. Ecco, così siamo rimaste con 30 bambini di tutte le età. Ma i militari tornavano quasi ogni giorno, minacciando di uccidere i bambini se per caso avessero scoperto che nascondevamo degli adulti, ed in realtà era così! C'erano quattro adulti, tra cui il padre di Sanye, Honorette ed Jean-Louis, nascosti qui nel controsoffitto. Hanno deciso di andarsene per non 


mettere a rischio la vita dei figli. Sono stati uccisi poco tempo dopo. Abbiamo trascorso un mese così, con angoscia e paura. I bambini più grandi stavano nella cucina, avevamo messo dei materassi per terra quando i militari entravano sparando cercavamo di nasconderli sotto i materassi. Quelli più piccoli li tenevamo nascosti nei punti più protetti. Il 12 maggio i militari hanno deciso di portarci via, ci hanno diviso dai bambini e ci hanno portate in una cittadina al centro del Paese, per noi è stato molto


 doloroso separarsi dai bambini anche perché non sapevamo che fine avrebbero fatto; verso il 10 giugno il Fronte Patriottico Rwandese è arrivato nella cittadina dove vivevamo, stava iniziando l'esodo di massa verso il nord, alla frontiera con il Congo. Noi siamo state portate in un campo a sud e lì abbiamo saputo che i bambini erano vivi ed erano in un altro campo poco distante. 
Verso la fine di agosto siamo tornate a Kigali e abbiamo deciso di recuperare i bambini. Erano molto malati, impauriti e traumatizzati, abbiamo avuto tantissimi problemi, poi, un po' alla volta, la situazione Š migliorata, abbiamo sistemato i bambini nella casa che era dei genitori di Sanye, accanto al nostro edifico. Nel corso dei mesi alcuni parenti sopravvissuti al genocidio sono venuti a cercare i bambini per portarli con s‚, noi cercavamo di valutare la situazione e se questa ci sembrava sicura li lasc


iavamo andare".
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FONTE: AVVENIMENTI - ANNO XIII - N. 71
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PIER LUIGI GIACOMONI
rhenus at libero.it

Net-Tamer V 1.11.2 - In Prova

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