IL VII «WORLD SOCIAL FORUM» A NAIROBI



IL VII «WORLD SOCIAL FORUM» A NAIROBI

GIANPAOLO SALVINI S.I.

 

Si è tenuto a Nairobi (Kenya) dal 20 al 25 gennaio 2007 il 7° World Social Forum, il primo a svolgersi in Africa (1) e il secondo lontano da Porto Alegre (2), dove queste manifestazioni sono nate nel 2001. Nel 2004 infatti la quarta edizione si svolse in India, a Mumbai (ex-Bombay). Scegliendo di organizzarlo in Africa, in un Paese povero e relativamente minore, gli organizzatori sapevano di poter riunire un numero certamente inferiore di persone. Ma, portando il Forum a più diretto contatto con il mondo dei poveri, ai quali esso intende rivolgersi in particolare, e nel cuore di un continente che ha ancora grandissimi problemi di povertà strutturale, essi volevano dare un preciso messaggio. Come è noto il World Social Forum si svolge sempre alla vigilia e in voluta contrapposizione al Forum di Davos, dove si riuniscono i «potenti» dell’economia mondiale. «A Davos si discute di ricchezza, al Forum si discute di povertà», anche se la frase è alquanto semplificatrice. In ogni caso è certamente vero che a Davos nessuno pensa di invitare i poveri del mondo.

Sede principale del Forum è stato il Moi International Sports Centre, situato a circa 10 km dal centro di Nairobi, mentre le cerimonie di apertura e di chiusura si sono tenute nell’Uhuru Park (Uhuru in swahili significa «libertà») posto nel centro della città. Molti partecipanti si sono lamentati della scarsa organizzazione. Mancavano cartelli indicatori e programmi, non si sapeva a chi chiedere informazioni sulle varie manifestazioni, né se ne conoscevano il calendario esatto e le sue variazioni. Non c’era di fatto un ufficio stampa. Ma i partecipanti sono stati pressoché unanimi nel dire che è stato un evento positivo, soprattutto perché si trattava di un avvenimento della società civile, non facile da descrivere, ma nel quale l’essenziale era la partecipazione, l’incontro, la discussione, il confronto. Insomma «l’esserci». Di tale esperienza naturalmente le nostre righe non possono trasmettere quasi nulla.

Questo non significa che tutto fosse abbandonato allo spontaneismo o all’improvvisazione. Si sono svolti 1.200 eventi (circa 80 al giorno: conferenze, tavole rotonde, proiezioni, avvenimenti culturali e artistici ecc.), 21 assemblee finali e altri incontri di ogni tipo. Il tema di fondo era quello di sempre: «Un altro mondo è possibile?». Titolo ufficiale era People’s Struggles, People’s Alternatives (Lotte dei popoli, alternative dei popoli). Più concretamente il Forum si è organizzato intorno a nove aree tematiche su cui lavorare: 1) costruire un mondo di pace, giustizia, etica e rispetto per le diverse spiritualità; 2) liberare il mondo dal dominio del capitale multinazionale e finanziario; 3) assicurare accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell’umanità; 4) democratizzare la conoscenza e l’informazione; 5) assicurare dignità, difendere la diversità, garantire la parità tra i sessi ed eliminare ogni forma di discriminazione; 6) garantire il rispetto dei diritti economici, sociali e culturali, in particolare i diritti all’alimentazione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alla casa, al lavoro e a un’occupazione dignitosa; 7) costituire un ordine mondiale fondato sulla sovranità, autodeterminazione e sui diritti dei popoli; 8) costituire un’economia incentrata sull’uomo e sostenibile; 9) costituire strutture e istituzioni politiche realmente democratiche, che prevedano la partecipazione dei cittadini al processo decisionale e al controllo degli affari pubblici e delle risorse. Molto tempo è stato dedicato ad aspetti che toccano direttamente la realtà africana, come il diritto all’acqua, la cancellazione del debito, le regole inique del commercio internazionale, la situazione delle donne (specialmente dopo i tanti sanguinosi conflitti) e così via.

Come si vede i temi sono gli stessi da anni, anche perché sono ben lontani dall’avere una soluzione soddisfacente. Inevitabilmente molti di essi finiscono per cadere nel generico. Volendoli riassumere, potrebbero concentrarsi in sintesi nella lotta alla povertà, nell’individuazione dei meccanismi che la perpetuano e delle iniziative concrete da avviare per contrastarli. Il tutto con il coinvolgimento soprattutto della società civile e, in quanto possibile, degli stessi interessati, cioè delle vittime di un sistema economico mondiale che ha ottenuto risultati mirabolanti, creando però, oltre a una minoranza di vincitori, anche un gran numero di vinti, di esclusi. Non entriamo qui nei singoli temi in quanto molti di essi coincidono con gli Obiettivi del Millennio e con altri aspetti del mondo di oggi di cui la rivista più volte si è occupata, anche se a Nairobi si è tentato di parlarne da una prospettiva africana.

I partecipanti

Gli organizzatori attendevano circa 100.000 persone. Sono arrivati a Nairobi circa 50.000 partecipanti. Alcuni sono giunti in ritardo; altri sono partiti prima della conclusione. Alcuni non hanno avuto il visto di ingresso nel Paese, come il Dalai Lama, e altri sono stati dichiarati indesiderati dal Governo, come molti somali (tra i quali numerosi parlamentari), troppo legati al Governo delle corti islamiche recentemente sconfitte grazie all’intervento etiopico. Una  prima protesta si è avuta per il costo del biglietto di ingresso al Forum, fissato a 500 scellini keniani (circa sei euro), una somma modica per gli europei, ma molto alta per gli abitanti delle bidonville. Il prezzo era stato fissato dal Comitato mondiale organizzatore per evitare l’ingerenza degli sponsor e mettere il Forum al riparo da ingerenze. Si è ovviato sponsorizzando l’ingresso per varie migliaia di persone, che non potevano pagarlo, con denaro raccolto da Caritas, missionari e soprattutto dalla «Tavola della Pace». Il prezzo era in ogni caso abbastanza alto: cinque euro per i partecipanti del Sud, ma 80 euro per quelli del Nord, quindi oneroso per tutti.

Ma, nonostante gli sforzi e la buona volontà, è stato notato che i veri destinatari, che si vorrebbe diventassero anche i protagonisti, cioè i poveri, sono stati abbastanza assenti dalla manifestazione, a detta di molti partecipanti. Per ovviare a tale mancanza, ma anche per dare un chiaro segno simbolico, si sono organizzate due grandi marce pubbliche per portare il Forum tra i poveri degli slum, visto che i poveri non andavano al Forum. Le 202 baraccopoli di Nairobi ospitano circa 2,5 milioni di abitanti (sui 5,5 del totale) ammucchiati su una superficie che non arriva al 5% del territorio della città. La prima marcia è stata la «Marcia per la pace», da Kibera, la maggiore baraccopoli della città, all’Uhuru Park; la seconda, conclusiva, la «Maratona per i diritti fondamentali», lunga 14 km, partita da Korogocho (un misero sobborgo nella zona est di Nairobi, reso noto in Italia dall’attività pastorale del comboniano Alessandro Zanotelli) e che è pure arrivata all’Uhuru Park, passando anch’essa per bidonville maleodoranti e piene di rifiuti che marciscono all’aperto. Vi hanno partecipato i maggiori corridori keniani, campioni internazionali, visti un po’ come eroi nazionali, mentre varie migliaia di altri residenti delle baraccopoli del Kenya e di altri Paesi hanno corso accanto ai concorrenti per richiamare l’attenzione dei Governi sulle condizioni disumane degli slum e convincerli a migliorarne le condizioni.

A detta dei partecipanti sono mancati i no-global più radicali, che nelle edizioni precedenti spesso finivano, anche per i loro gesti clamorosi, se non violenti, per attirare l’attenzione dei media. Questo anche perché per entrare nello stadio occorreva mostrare i propri documenti e pagare il biglietto. La società civile è stata quindi protagonista, facendo emergere le realtà che si impegnano per un mondo diverso: i gruppi per la pace, il mondo cattolico e missionario, gli ambientalisti sia cristiani sia musulmani, ma anche premi Nobel (come il vescovo sudafricano anglicano Desmond Tutu, la keniana Wangari Maathai e l’iraniana Shirin Ebadi), Kenneth Kaunda (primo presidente dello Zambia e uno dei simboli della lotta contro le potenze coloniali), parlamentari e rappresentanti degli enti locali.

Particolarmente ampia è stata la presenza del mondo cattolico e religioso in genere (protestante e islamico), anche perché in Kenya, e in Africa, la presenza dei missionari è ben radicata e storicamente, in molti casi, ha rappresentato un punto di riferimento sicuro specialmente nei momenti più bui e più tragici, anche grazie in particolare alla dedizione di alcune famiglie religiose, come i comboniani (3). Molto numerose erano le delegazioni delle diverse Caritas (riunite nella Piattaforma Ecumenica Caritas) con oltre 500 delegati provenienti da tutto il mondo: 40 dall’Italia, guidati da uno dei vicepresidenti, mons. M. Paciello, vescovo di Altamura. Qualcuno ha osservato che «portare il Forum in Africa è stato come portarlo in chiesa». Molte manifestazioni religiose si sono svolte durante il Forum, e quando qualche sacerdote proponeva un momento di preghiera, centinaia di persone si associavano spontaneamente, anche lungo la strada. La spiritualità cristiana e delle religioni tradizionali africane è stata molto presente, così come c’è stato spazio per la preghiera.

Gli italiani

La delegazione italiana è stata una delle più numerose e variegate, anche se meno folta di quelle che hanno partecipato alle edizioni precedenti. Contava tra 500 e 600 persone, provenienti dal mondo del volontariato, della Caritas, dei missionari, dei gruppi pacifisti, dai centri sociali, Arci, «Noi siamo Chiesa», reti del commercio equo e solidale, Ong ecc., ma anche dai sindacati e dagli enti locali. Hanno partecipato anche alcuni parlamentari. L’Italia è anche il Paese che ha maggiormente contribuito dal punto di vista finanziario alla riuscita del Forum: ha offerto 300.000 euro (cioè un quarto dell’intero bilancio del Forum) stanziati dal Governo attraverso la cooperazione internazionale. A questi si sono aggiunti altri 100.000 euro offerti da «Tavola della Pace» (4), Caritas e missionari. Questo denaro è stato usato soprattutto per pagare l’ingresso a diverse migliaia di persone che non potevano permetterselo, mentre il denaro del Governo italiano è stato destinato alle comunicazioni e alle traduzioni.

Dei partecipanti italiani faceva parte anche il viceministro degli Esteri con delega per l’Africa, Patrizia Sentinelli, che nell’occasione ha firmato anche il Protocollo esecutivo dell’accordo (sottoscritto il 27 ottobre scorso) di cancellazione del debito del Kenya verso l’Italia (pari a 44 milioni di euro), da reinvestire per lo sviluppo.

Alcune considerazioni

Il World Social Forum di Nairobi ha avuto scarsa eco sui media internazionali e anche italiani. Qualcuno si è consolato osservando che anche il quasi parallelo Forum di Davos ha riscosso quest’anno assai meno attenzione delle edizioni precedenti. La mancanza di contestazioni clamorose, nell’uno e nell’altro, può aver contribuito a far abbassare l’attenzione, sempre pronta a ridestarsi in caso di incidenti. Certamente, come si è già detto, la presenza dei gruppi di contestazione radicale, no-global ecc., è stata molto minore che in altri anni. Si sono visti striscioni anti-Bush e contro la guerra in Iraq, ma sono stati casi abbastanza isolati, che non hanno dato il tono generale. Questo clima ha aumentato il senso di condivisione e di partecipazione, ma, secondo alcuni, ha diminuito l’incisività delle proposte e la loro efficacia. Certamente il clima è stato meno politicizzato rispetto al passato.

In ogni caso è evidente che il World Social Forum ha subìto negli anni una profonda evoluzione: non è più contro l’economia mondiale di oggi e contro il suo simbolo, la globalizzazione, la quale, d’altra parte, ha reso possibile con i suoi strumenti lo stesso Forum. Esso si schiera contro «questa» globalizzazione e questa economia mondiale che non riesce a «far partecipare» metà della popolazione mondiale. È difficile valutarne l’efficacia, perché si tratta di un «evento contenitore», con obiettivi comuni, ma non decisioni politiche unitarie da prendere, anche se non manca chi vorrebbe documenti congiunti e iniziative collettive. L’intento è piuttosto quello di dimostrare che l’incontro tra una varietà di razze, lingue, interessi, esperienze è possibile in nome della stessa speranza in un mondo migliore e più umano. Il Forum crea ponti e aiuta l’incontro, in un mondo dominato molto spesso dall’individualismo. Come sempre, la speranza è di lanciare iniziative concrete da realizzare durante l’anno. Le due anime del Forum presenti sin dall’origine continuano a convivere: quella che vorrebbe farne un luogo di dibattito e di incontro e quella che vorrebbe farne un centro di azione politica. Mancando quest’ultima, alcuni si sentono delusi, pur apprezzando la vitalità dell’iniziativa, che mobilita e rivela sempre energie insospettate.

Molti, come si è detto, hanno notato la scarsa presenza dei poveri nelle discussioni e nelle varie iniziative, ma qualcuno si chiede se i poveri sono «attrezzati» per iniziative del genere. Qualcuno parafrasando il motto dei Forum si è chiesto un po’ sconsolato se «un altro World Social Forum è possibile». È vero invece che, se i poveri non c’erano nelle sedi delle discussioni, molte manifestazioni, decentrate nelle baraccopoli, hanno avuto largo successo e hanno realmente coinvolto la gente dei quartieri più miserabili. L’aver tenuto il Forum in Africa, dando voce ai suoi abitanti ha impresso una grande spinta agli africani che hanno enormi problemi di povertà e di dipendenza, ma i cui movimenti di protesta sono stati sinora molto frammentari e isolati, formati da piccole élite. È stata loro offerta un’occasione unica per avvicinarsi ai movimenti latino- americani, molto invidiati dagli africani, perché assai più organizzati e capaci di incidere sulle scelte anche dei Governi, con una pressione popolare dal basso, che ha portato pure all’elezione di governanti che vengono dalle loro file. Ma i Governi di sinistra rischiano ora di spiazzare i movimenti dal loro protagonismo.

Unanime è il consenso sul puntare anzitutto su sanità e istruzione. Ma è diffusa anche la consapevolezza che il Forum ha per ora scarsa possibilità di influenzare le grandi politiche internazionali, come il G8, la Banca Mondiale ecc. Per questo, secondo alcuni, come il famoso intellettuale egiziano-senegalese Samir Amin, la formula rischia di esaurirsi. È indiscussa la volontà di continuare, ma non si è fissato il luogo. Si pensa, per il 2008, a un Forum decentrato in due o tre sedi diverse, per tornare poi a una sede unica nel 2009. Per quest’ultimo alcuni vorrebbero tornare in Africa, attualmente il continente più sfortunato quanto a partecipazione al benessere creato dall’economia moderna; altri preferirebbero tornare a Porto Alegre, dove l’organizzazione è più facile e la tradizione consolidata, altri hanno proposto che pure l’Europa sia per una volta sede dell’incontro e in tal caso il Paese più adatto sembra sia l’Italia, anche per l’interesse diffuso che l’iniziativa suscita nel nostro Paese.

 

1 Prima in Africa c’era stata soltanto una breve sessione a Bamako (Mali) nel 2006, poiché si era deciso che il World Social Forum si sarebbe tenuto in una sede unica soltanto ogni due anni, e in forma policentrica negli altri anni. Nel 2006 perciò si era svolto a Caracas (Venezuela), Bamako (Mali) e a Karachi (Pakistan).

2 Cfr G. SALVINI, «Il V Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre», in Civ. Catt. 2005 III 185-194.

3 La «famiglia ignaziana», come vengono chiamati i gesuiti e i loro collaboratori in alcuni Paesi, ha portato a Nairobi più di un centinaio di persone, tra cui una cinquantina di gesuiti impegnati nelle varie opere sociali promosse dall’Ordine.

4 Della Tavola della Pace, fondata nel 1996 presso il Sacro Convento di San Francesco di Assisi, è coordinatore nazionale Flavio Lotti, che è pure direttore del Coordinamento degli enti locali per la pace e i diritti umani (che riunisce circa 650 tra regioni, province e comuni), ed è stato uno dei protagonisti della delegazione italiana.

 

© La Civiltà Cattolica 2007 II 67-73         quaderno 3763