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articoli sull'ILVA



Tutti articoli apparsi su ilmanifesto di sabato 16 giugno 2001
 
Ciao, Loredana
 

 
 
Il bubbone che dà lavoro
Storia dell'acciaieria dall'Italsider a Riva; con uno sconto di 600 miliardi
AN. SC.


L'Ilva di Taranto è una delle cosiddette "cattedrali nel deserto" sorte agli inizi degli anni '60, durante il grande boom economico. Oltre all'Ilva -allora Italsider, di proprietà statale - c'erano l'Alfasud di Pomigliano, le raffinerie di Siracusa, la Montecatini di Brindisi, l'Anic di Gela. E altre. Tutte industrie che creavano lavoro soltanto al loro interno, senza riuscire a formare un indotto sufficientemente esteso all'esterno.
Gli anni del boom, si diceva. Tra il '58 e il '63 il Pil italiano aumentò del 6,3%, mentre la produttività oraria nel settore siderurgico, sempre in quegli anni, cresceva a ritmo dell'8,5%-11%. Tanto che il gioiello delle partecipazioni statali, il complesso siderurgico più grande d'Europa, nel periodo della sua massima espansione riuscì a dare lavoro a 40mila persone.
Fu dal '75 in poi che l'azienda cominciò ad andare in crisi, perdendo sempre più profitti e posti di lavoro. Negli anni '80 e '90 è un'emorragia di denaro: che entra, anche dalla Comunità europea, e che esce dallo stabilimento. Il "risanamento" arriva negli anni '90, quando viene chiamato un manager giapponese, che, con i suoi metodi, la porta ad un utile di 500 miliardi, valutandola 2.000. Il prezzo, però, pare troppo alto e lo stato si accontenta di cederla alla famiglia Riva nell'aprile del 1999 per 1400 miliardi di lire.
Da allora sono cominciati i risparmi; sulla sicurezza e sul lavoro. La privatizzazione ha fatto dell'Ilva un vero e proprio bubbone per il territorio di Taranto e per la società. In cinque anni migliaia di operai e impiegati sono stati messi in cassa integrazione, mentre entrano al loro posto giovani freschi freschi, pronti per i contratti a termine o di formazione-lavoro.
Sui circa 12 mila dipendenti attuali sono ormai un terzo i giovani, mentre i "vecchi" non vengono spesso accompagnati fino al pensionamento, ma messi alla porta dopo qualche infortunio, malattia o protesta sindacale.
Anche il numero degli infortuni, nel frattempo, è cresciuto a dismisura: i sistemi di sicurezza sono fatiscenti o inadeguati. Nel '99 ci sono stati 7500 infortuni e 20 morti; due anni prima, nel '97, gli infortuni erano stati 6500 e i morti "soltanto" 13. Ma non basta, perché l'Ilva uccide anche fuori: l'azienda di Riva è sotto processo anche per le polveri che, dai parchi minerali, vengono diffuse sulla città; e anche le cokerie sono altamente inquinanti. Taranto ha un tasso di mortalità per tumore molto più alta del resto del sud.

 
La vite spezzate della palazzina Laf
TARANTO. Testimonianze dal processo contro l'Ilva
ANTONIO SCIOTTO - TARANTO


"Incarcerati" dentro la palazzina del laminatoio a freddo - più nota come "Laf" - per una settantina di impiegati di alto livello dell'Ilva di Taranto, lavorare in uno dei poli siderurgici più importanti di Europa alla fine degli anni '90 si è trasformato in un incubo. Ancora oggi, se li incontri alle udienze per il loro processo - dove Emilio Riva è alla sbarra, accusato di "tentata violenza privata" ai danni dei propri dipendenti e di "frode processuale" - gli ex reclusi della Laf ti accolgono con uno sguardo un po' perso: coscienti della necessità di essere lucidi - questa è forse l'unica e l'ultima occasione per ottenere giustizia - ma nel contempo provati, da anni di depressione, e infatti, esaurimenti e, per alcuni, anche tentati suicidi.
Il primo a venirmi incontro, davanti all'"aula E" del tribunale di Taranto è Giuseppe Palma, uno degli impiegati più attivi nelle azioni di rivendicazione. Ha un mucchio di carte in mano, ma quest'oggi dovrà difendersi da solo, perché il suo avvocato non può venire. Comunque è preparato: lui, nella Laf, ci è finito anzi proprio per il fatto che ha molta dimestichezza, se così si può dire, con le aule di giustizia: infatti, nel '96 aveva aperto una causa personale nei confronti dell'Ilva, per problemi legati al rapporto di lavoro. Una causa che la dirigenza non digerito. "Verso la fine del '97 - racconta - il mio capo mi chiamò. Mi disse che avrebbero molto gradito che mi cancellassi dal sindacato e che rinunciassi al procedimento che avevo intentato contro l'azienda. Dal sindacato, in effetti mi cancellai. E non ero il solo. Dopo il passaggio dell'Italsider a Riva, nel '95, ci fu una netta diminuzione delle tessere sindacali: in tre anni passarono da 8-9 mila a 2 mila. La causa, però, decisi di non ritirarla. Non mi sembrava giusto. Presi 20 giorni di malattia e, al mio ritorno, mi dissero che dovevo andare alla Palazzina Laf. Il mio lavoro di tecnico informatico era soppresso per esigenze di ristrutturazione aziendale".
Quando arrivai dentro la Palazzina, c'erano già venti persone, che erano arrivate prima di me. E infatti fui subito definito "il numero 21". In una stanza per sei persone c'erano due vecchie scrivanie ed un tavolino, oltre a poche sedie, assolutamente insufficienti, dato che dovevamo fare a turno per sederci. Non facevamo niente per tutto il giorno. In otto ore e mezzo leggevamo il giornale, chiacchieravamo tra di noi, passeggiavamo nel corridoio. Era frustrante per noi, anche se venivamo comunque retribuiti. Avevamo avuto ruoli di responsabilità in azienda, e ora ci sentivamo perfettamente inutili". "La palazzina Laf non era soltanto una punizione per noi - continua Palma - ma anche una minaccia per gli altri. A un mio collega fu imposto di fare 2-3 ore di straordinario al giorno senza retribuzione. Gli fu detto che altrimenti avrebbero trasferito anche lui alla palazzina Laf. Lui accettò, e cominciò a lavorare fino alle 19.00 o alle 20.00, quando il suo orario normale finiva alle 17.00. Da allora in poi sono in cura. Ho preso una depressione che non è più andata via".
Accanto a Giuseppe Palma c'è Claudio Virtù, un altro ospite della palazzina Laf. Ha anche scritto un libro, che racconta la storia dei 70 reclusi, le umiliazioni subite in due anni: Palazzina Laf. Mobbing: la violenza del padrone (Edizioni Archita, Taranto). "Stare alla Laf mi ha rovinato - racconta - ma ha rovinato anche la mia famiglia. Molti dei nostri figli hanno dovuto rinunciare all'Università, perché ci siamo indebitati. Dopo il sequestro della Palazzina siamo finiti in cassa-integrazione e lo stipendio è stato ridotto di due terzi. In più abbiamo dovuto sostenere le spese processuali".
"Il problema - continua Virtù - non è stato tanto la perdita del posto di lavoro, quanto la perdita del lavoro. Ci è stata tolta la dignità. I colleghi ci trattavano come appestati, a mensa non si avvicinavano a noi. Una volta, a una messa pasquale, siamo stati accompagnati da una scorta di vigilanti e tenuti isolati in una parte della chiesa. Appena è finita la funzione siamo subito stati riportati alla Laf. Insomma, ci trattavano come detenuti. E questo perché avevamo svolto attività sindacale, perché non accettavamo di essere declassati da impiegati a operai, o perché eravamo scomodi per qualche altro motivo. A volte gridavamo, cantavamo la nostra rabbia dentro la palazzina, per farci sentire da fuori".
Ma non è bastato per commuovere i capi. Solo le denunce alla Magistratura hanno sbloccato la situazione e soltanto costretto da un sequestro dell'edificio, Riva ha dovuto chiudere la Palazzina Laf nel 1999.
 

 
Mobbing scientifico
Le indagini descrivono molte delle tecniche usate dall'azienda
AN. SC.


La Palazzina Laf viene aperta tra il 1997 e il 1998 quando 70 impiegati "scomodi" dell'Ilva vi vengono confinati "in attesa di nuova sistemazione". I sindacati metalmeccanici di categoria denunciano la situazione e nel luglio del '98 le Commissioni lavoro del Senato e attività produttive della Camera invitano Riva a chiudere la Palazzina Laf. Non basta. Nel novembre dello stesso anno è il ministero del lavoro a denunciare l'Ilva per le violazioni compiute nei confronti dei lavoratori.
La svolta avviene nel '99, quando il procuratore aggiunto Franco Sebastio decide il sequestro della struttura. Nel frattempo si è aperto un processo contro Riva. Proprio in questi giorni vengono ascoltati gli ultimi testimoni. Dopo l'estate parleranno gli avvocati di difesa e accusa; la sentenza dovrebbe arrivare entro l'anno. L'accusa per Emilio Riva, il figlio Claudio e altri dieci dirigenti dell'Ilva è di "tentata violenza privata". Emilio e Claudio Riva, insieme ad altri due dirigenti, sono accusati anche di frode processuale. Quando la magistratura ordinò un'ispezione dei locali, nel novembre del '98, l'azienda fece ridipingere i muri, riaggiustare prese e finestre, scrivanie e sedie. Bisognava far vedere che gli impiegati stavano "bene".
L'accusa è chiara: i dirigenti Ilva hanno adoperato una tecnica di mobbing verticale (diretta dal capo ai subordinati) articolatissima, come si legge dalla relazione del pm, Alessio Coccioli: destinati al reparto in questione erano soprattutto i lavoratori cui l'azienda, per mezzo dei vari responsabili preposti ai singoli settori di produzione, aveva sostanzialmente posto un aut aut: dovevano accettare una innovazione del rapporto di lavoro, con declassamento dalla categoria impiegatizia a quella operaia, oppure avrebbero immediatamente perso il posto che occupavano all'interno dell'impresa e conseguentemente destinati alla Palazzina Laf. Tale aut-aut era stato posto in essere con toni altamente intimidatori. Dalle indagini emergeva anche che "nei locali in questione i lavoratori non espletavano alcun incarico professionale; erano ambienti del tutto indecorosi e trascurati, dove passavano le giornate a passeggiare per il lungo corridoio, con ridotta possibilità anche di comunicazione con l'esterno". Il procuratore aggiunto Franco Sebastio, che porta avanti con Coccioli l'accusa, dice di essere fiducioso. L'avvocato della difesa, Mattesi, dice che i lavoratori erano nella Laf in "attesa di nuovo incarico". Ma nessuno sa chiarire quando Riva li avrebbe rimessi al lavoro.