Le norme che definirono Taranto città a elevato rischio ambientale



Il 30 novembre prossimo venturo saranno 21 anni dal decreto del presidente
del Consiglio dei Ministri, con il quale l’area di Taranto veniva
dichiarata a “elevato rischio di crisi ambientale”. Totale il colpevole
silenzio di istituzioni, partiti di destra, di sinistra e soprattutto
degli ambientalisti, ovvero dei Verdi a tutti i livelli, e delle
associazioni ambientaliste storiche.

Le norme giuridiche per evitare l’incremento cumulato degli inquinanti
esistevano da decenni, rafforzate da sentenze della giurisdizione
costituzionale, amministrativa e di merito. Esistevano anche i Piani di
Disinquinamento, di Risanamento, elaborati su uno studio dedicato del
1994. Addirittura un’ordinanza del Ministero dell’Interno che, per la
gestione dell’elevato rischio ambientale legato all’area, nominava un
Commissario. Rischio che è dovuto non solo al centro siderurgico, ma anche
al Cementificio, alla Raffineria e al Porto.

La norma di riferimento generale è il decreto del Presidente della
Repubblica del 1988, il n. 203 e il decreto del 12 luglio del 1990, che
recepivano quattro direttive europee. Il “203” si occupava proprio
dell’inquinamento prodotto da impianti industriali, con la finalità di
“protezione della salute e dell’ambiente su tutto il territorio
nazionale“. Gli impianti dovevano possedere l’autorizzazione alle
emissioni in atmosfera: gli impianti esistenti, dopo quattro mesi dalla
domanda di autorizzazione, con il silenzio della Pubblica Amministrazione,
potevano continuare l’attività, a condizione che fosse realizzato il
progetto di adeguamento, e fossero rispettati i limiti di emissione
regionali (se esistevano), e comunque l’obbligo di realizzare tutte le
misure idonee a evitare il peggioramento delle emissioni.

Erasmo Venosi

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