[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

educazione civica: sovranita' popolare e multinazionali



IL RISCHIO DEL MAI


Immaginate un trattato commerciale che autorizzi le multinazionali a
portare davanti al giudice i governi per ottenere i danni e interessi a
compenso di ogni scelta politica o atto pubblico che comporti una
diminuzione dei loro profitti. Non e' la trama di un romanzo di
fantascienza sul futuro  totalitario del capitalismo. E' solo una delle
clausole di un trattato assai poco conosciuto: l'AMI.
Fino a 10 anni fa tutti guardavano con preoccupazione alle multinazionali
perche' ci si rendeva conto che esse stavano accumulando un potere che
sfuggiva al controllo degli stati. Per questo, in varie sedi internazionali
vennero fatti alcuni tentativi per regolamentare le loro attivita'. Ma la
loro pressione e' stata cosi' forte che non solo non si e' mai giunti
all'approvazione di tali regolamenti, ma si e' andati addirittura nella
direzione opposta. Oggi, infatti, i governi si sono trasformati in avvocati
delle multinazionali e invece di approvare degli accordi a difesa dei
diritti umani, dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente, si stanno
attivando per autolimitare la propria sovranita' in modo da garantire alle
multinazionali la piu' totale liberta' d'azione.  
I piu' decisi in questa direzione sono i governi dei 29 paesi piu'
industrializzati del mondo. Per vari mesi le loro delegazioni (compresa
quella italiana) si sono incontrate per mettere a punto un accordo che e'
stato battezzato Accordo Multilaterale sugli investimenti (AMI), meglio
conosciuto con la sigla inglese MAI. La trattativa e' stata inviata in gran
segreto all'interno dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) per far trovare il mondo davanti al fatto compiuto. Ma
la notizia e' trapelata e in tutto il mondo la gente si sta mobilitando per
fermarli. Come la maggior parte dei trattati internazionali, l'AMI
stabilisce una serie di diritti e doveri, ma qui i diritti sono riservati
alle imprese e agli investitori internazionali, mentre i governi assumono
tutti i doveri. Il capitolo chiave del trattato si intitola "Diritti degli
investitori di capitali". Sancisce il diritto assoluto d'investire -
acquisto di terreni, risorse naturali, servizi finanziari e di
telecomunicazione - senza alcun vincolo. I governi sono obbligati a
garantire il "pieno godimento" degli investimenti. Molte clausole prevedono
l'indennizzo per investitori e imprese in caso di interventi governativi
che rischiano di ridurre la possibilita' di trarre profitto dagli
investimenti. In particolare se questi interventi avessero "un effetto
equivalente" a "un esproprio, anche indiretto". Cosi', secondo l'accordo,
"la perdita di un’opportunita' di profitto su un investimento costituirebbe
un pregiudizio sufficiente a dare all'investitore diritto all'indennizzo".
Le direttive dell'AMI relative a "espropri e indennizzi" sono le piu'
pericolose. Ogni impresa o investitore straniero ha il diritto di
contestare pressocche' tutte le scelte politiche o gli atti governativi,
dalle misure fiscali alle disposizioni relative all'ambiente, dalla
legislazione del lavoro alle regole di protezione del consumatore.
Premonitore e' il caso Ethil. Facendo riferimento all'accordo di libero
scambio nord americano (NAFTA), quest'impresa chimica statunitense si e'
scagliata contro il governo canadese perche' aveva proibito l'ingresso di
un prodotto della Ethil ritenuto tossico: l'MMT, un additivo per la benzina
sospetto di danneggiare il sistema nervoso e gli stessi dispositivi
antinquinamento delle auto. Sostenendo che il divieto d'importare l'MMT,
equivale a un esproprio ai suoi danni, nel 1997 l' Ehtil "ha sporto
denuncia" contro il Canada. Nel luglio 1998 prevedendo una sua condanna, il
governo canadese ha accettato una transazione e dopo essersi rimangiato il
divieto di importazione ha sborsato alla Ethil 13 milioni di dollari a
titolo di indennizzo. Non e' difficile immaginare che simili meccanismi
finiranno per paralizzare ogni azione governativa tesa a proteggere
l'ambiente, preservare le risorse naturali, garantire la sicurezza e la
giustizia delle condizioni di lavoro o orientare gli investimenti al
servizio dell'interesse collettivo. Altro indennizzo a favore degli
investitori: "la protezione contro le sommosse". I governi sono
responsabili, nei riguardi degli investitori, delle "sommosse civili", per
non parlare delle "rivoluzioni, stati di emergenza o altre situazioni
simili". Cio' significa che hanno l'obbligo di garantire gli investimenti
esteri contro ogni azione di disturbo, come movimenti di protesta,
boicottaggi o scioperi. Quanto basta per incoraggiare i governi, con la
copertura dell'AMI, a limitare le liberta' sociali. Oltre a queste clausole
che permetterebbero alle multinazionali di farsi indennizzare per ogni
decisione governativa che giudicano contraria ai loro interessi, il
trattato prevede molti altri privilegi per le multinazionali.   
Infatti impegna gli stati a garantire alle multinazionali liberta' di
investire in qualsiasi settore e di svolgere qualsiasi attivita'
commerciale e finanziaria; ad applicare nei loro confronti la legislazione
ambientale e sociale di maggior favore; a non diffondere le informazioni
riguardanti le multinazionali; a comparire di fronte ad una commissione
giudicante nel caso che una multinazionale si ritenga insoddisfatta del
trattamento ricevuto. E' veramente pazzesco che invece di mettere delle
regole, gli stati volutamente creino un contesto che consente alle
multinazionali di scorrazzare per il mondo con la totale liberta' di
entrare ed uscire dai paesi alla ricerca di quelli che offrono maggiori
vantaggi. Cio' finira' per gettare tutti i paesi del mondo in una gara
furibonda a chi garantisce meno diritti sindacali, a chi fa pagare meno
tasse, a chi richiede meno obblighi di rispetto ambientale. In definitiva,
se l'Accordo Multilaterale sugli Investimenti diventasse una realta',
creeremmo la mondializzazione della dittatura, perche' la dittatura non e'
nient'altro che la gestione del potere al servizio di interessi privati.
Per fortuna, oltre al grido di protesta dei gruppi di base, si e' levato
anche quello del Parlamento Europeo che, quasi all'unanimita', ha espresso
parere contrario nei confronti dell'accordo e ha chiesto che, come minimo,
venga rivisto. Ma la partita e' tutt'altro che vinta. Sotto le ceneri del
MAI covano le braci di una possibile rinascita dell'Accordo. Le
contraddizioni interne ai negoziatori, sommate alle prese di posizione del
governo Jospin e all'ondata di mobilitazione senza precedenti in tutto il
mondo, hanno determinato nello scorso ottobre l'affondamento dell'accordo
all'OCSE, dove le trattative MAI erano in tutto segreto cominciate circa
tre anni prima. L'OCSE stessa ha ufficializzato il fallimento
dell'iniziativa in uno scarno comunicato stampa dei primi di dicembre
riconoscendo che "negoziati sull'Accordo Multilaterale sugli Investimenti
non avranno piu' luogo". Tutto finito dunque? Niente affatto. A sentire il
Finantial Times, all'OCSE e' l'ora del "MAI culpa": se c'e' una cosa che i
signori della globalizzazione hanno appreso dal negoziato MAI e' che questo
e' esattamente "il modo in cui non bisogna fare". Si procede verso quella
che potremmo definire la "strategia della parcellizzazione": e' finito il
tempo di accordi elefantiaci e onnicomprensivi, che non fanno altro che
attirare gli strali di governi, ONG, ambientalisti. Molto meglio aprire
piu' tavoli contemporanei, distribuire i principi di base dell'Accordo in
decine di clausole assai piu' tecniche e meno controllabili. Cosi' con
l'Accordo bilaterale USA-UE (TEP, Transatlantic Economic Partnership), con
quello di libero scambio esteso a Nord e Sud America, con la riforma dello
statuto del Fondo Monetario, con l'Accordo di Cooperazione per i paesi del
Pacifico (APEC), si cerca di replicare in forme piu' sottili i principi
MAI. Anche l'assai probabile trasferimento di tutto l'Accordo
all'Organizzazione Mondiale del Commercio avra' probabilmente contorni
molto diversi da quelli che supponevamo. Nei corridoi del negoziato ormai
nessuno pronuncia piu' quella che era la parola d'ordine di ottobre, dopo
la sconfitta all'OCSE, e cioe' "traslochiamo all'OMC". Oggi viene spiegato
che un'operazione del genere equivarrebbe ad un nuovo fallimento e che,
pertanto, si puntera' su un'apertura contemporanea di piu negoziati su
tanti punti che fanno gola ai sostenitori della liberalizzazione senza
regole. Dunque, quando gli oltre 100 paesi aderenti all'OMC si riuniranno
di nuovo a Washington, potremmo trovarci di fronte tanti piccoli cloni del
MAI, nominati nei modi piu' differenti e su cui sara' anche estremamente
difficile esercitare quel lavoro di supervisione e denuncia che sul maxi
accordo MAI e' stato possibile realizzare. Oltretutto la scelta dell'OMC
garantisce la presenza formale dei paesi del sud del mondo, rendendo con
cio' apparentemente piu' tranquillizzante il quadro in cui si vengono
definendo le regole dell'Accordo. Risulta quanto mai necessario sviluppare
un quadro chiaro di controproposte da imporre nel dibattito internazionale.
Per questo la campagna italiana contro il MAI sostiene l'Accordo dei
Cittadini e dei Popoli sugli Investimenti e la Ricchezza (ACPIR) coordinato
da Susan George a nome della coalizione francese contro il MAI. E' uno dei
cinque testi di discussione che girano nel Movimento Internazionale
anti-MAI e che, al di la' delle proposte e dei modi diversi di
rappresentarsi il problema, stanno a dire una cosa assai semplice: volendo,
si potrebbe fare in un altro modo; volendo, si potrebbe governare la
ricchezza prodotta in modo da non penalizzare i popoli della terra;
volendo, si potrebbe lasciare spazio alle forze dell'economia, ma dentro un
contesto di regole vincolanti che ribaltino l'ordine attuale di priorita'
che mette al primo posto l'astrattezza dei profitti virtuali, al secondo le
cose e in ultimo, se c'e' spazio, i viventi. Ecco dunque che la vicenda del
MAI potrebbe trasformarsi da supremo rischio in grande opportunita' per
arrivare ad un orizzonte comune di lavoro per la tanto dispersa galassia di
associazioni, campagne e movimenti che in tutto il mondo resistono alla
sindrome di TINA: There Is No Alternative, non ci sono alternative. Si
vanno forse annodando i fili della rete lillipuziana.

Francesco Gesualdi
                          
  
Digitato da: Fabio De benedetto e Daniele Palo, addetti alla PeaceLink
della classe 2°C dell'Istituto Alberghiero di Leporano (TA).