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Newsletter N. 38 del Settembre 2003



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  Ass.ne Cul.le Telematica MMMMMMMMMM
  "Metro Olografix"      oMMM"" """MMo
  Newsletter 38 29/09/03"MMM"      "MMM"

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Buona lettura!

[file in allegato]

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 .: IN PRIMO PIANO :.
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Conoscenza da condividere
La «privatizzazione» delle scoperte scientifiche viene praticata anche
dai centri di ricerca «pubblici» per impedire che i privati se ne
approprino in via esclusiva. Una costrizione «sistemica» che limita la
crescita della conoscenza (impresa sempre e comunque collettiva). Si
cerca una via alternativa, che potrebbe mutuare alcuni princìpi
fondativi del software open source
FRANCO CARLINI

Sembra che uno dei motivi per cui Valentino Rossi e la Honda non si sono
ancora messi d'accordo per il rinnovo del contratto dipenda dal fatto
che la casa motociclistica giapponese intende fornire a 6 piloti e non
al solo Valentino la moto ultimo modello, la migliore. Il ragazzo di
Tavullia sostiene che quella supermoto è frutto del suo lavoro di
collaudatore e consigliere, oltre che del resto della squadra e dei
capitali messi a disposizione dalla Honda; non chiede soldi ulteriori
ma un monopolio d'uso almeno temporaneo perché quell'oggetto della
velocità è il risultato anche della sua conoscenza e del suo saper fare.
Il che è senza dubbio vero e a ben pensarci questo è esattamente il
principio della proprietà intellettuale: un inventore ottiene dallo stato
un diritto temporaneo a utilizzare in regime di monopolio il frutto della
sua creatività, passato il quale essa ricadrà nel pubblico dominio. Il
piccolo episodio conferma quanto cruciale e diffusa in tutti settori sia
ormai la questione della proprietà intellettuale: se è società della
conoscenza, allora attorno ad essa si accumulano interessi, conflitti e
contese. Lo stesso avviene sempre più spesso anche nel campo della ricerca,
anche in quella pura, accademica e disinteressata. Di chi sono le idee
della Scienza? Se lo è chiesto la settimana scorsa la giornalista Rossella
Castelnuovo, conducendo la trasmissione Radio3 Scienza. La stessa domanda
campeggia nel titolo di un libro americano, scritto da Corinne McSherry,
della Stanford Law School: «Who owns academic work?». La puntata
radiofonica è disponibile in rete, all'indirizzo
http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/scienza/archivio_2003/audio/
scienza2003_09_23.ram.

La questione sta diventando sempre più calda, da quando i fondi
universitari scarseggiano e le università, americane come italiane, sono
sollecitate sempre più frequentemente a cercare i finanziamenti in un
virtuoso (?) rapporto con il mercato. L'effetto tuttavia è spesso
devastante, nel senso che mentre rimane formalmente indiscussa l'idea che
le università siano lì apposta per produrre conoscenza a beneficio
dell'umanità, i dipartimenti, ma anche i singoli ricercatori vengono
spinti a reclamare diritti, brevetti e copyright su quelle stesse idee e
ricerche.

Il caso che apre il libro di McSherry è esemplare: Huguette Pelletier nel
1993 studiava all'università di California a San Diego, nel laboratorio
di Joseph Kraut, un noto biochimico, e lì aveva messo a punto un sistema
per la crescita cristallina di una proteina dei ratti, la polimerasi-beta,
decisiva per la riparazione del Dna. Ma un'altra ricercatrice dello stesso
laboratorio, Michele McTigue, alla sera raccontava quelle ricerche al
marito Jay Davies, della casa farmaceutica Agouron (in seguito assorbita
dalla Pfizer). Battendo tutti sul tempo, i risultati vennero pubblicati
dalla Agouron Pharmaceuticals sulla rivista Cell il 25 marzo 1994. Anche
Pelletier pubblicò a sua volta, sulla rivista Science, ma arrivando
inevitabilmente seconda.

Ne seguì una causa legale e nel 1998 il tribunale condannò la Agouron a
pagare 200 mila dollari come risarcimento. Huguette tuttavia non ottenne
il risultato morale che più le stava a cuore, ovvero il ritiro ufficiale
dell'articolo «rubato». Nell'anno 2000 poi, un tribunale d'appello
confermava la sentenza di primo grado, ma riduceva il risarcimento al
valore simbolico di un dollaro, sostenendo che Pelletier non aveva
ricevuto un danno reale dal furto delle sue idee. Nel frattempo, delusa
da tutta la storia, la ricercatrice aveva abbandonato la carriera
scientifica, dedicandosi a un centro di supporto sociale di Los Angeles

Al di là dell'esito monetario, la questione sembrerebbe lineare: la
conoscenza sulla polimerasi-beta proveniva dal lavoro di Pelletier e
altri ne avevano rivendicato abusivamente la priorità; il tribunale ha
dunque correttamente ripristinato il diritto del primo inventore. A ben
scavare, tuttavia, le cose sono un po' più complicate. Come segnala il
libro di McSherry, per vincere la sua causa Huguette Pelletier ha dovuto
in sostanza rivendicare una proprietà personale su un bene pubblico, le
idee prodotte nella sua ricerca. Nel caso specifico i legali vinsero la
causa vestendola sotto la fattispecie della appropriazione di segreti
commerciali, che poi è la stessa legislazione cui fa ricorso la Coca Cola
per difendere la sua non molto misteriosa ricetta.

E' un processo che gli studiosi del settore chiamano «proprietarizzazione».
Salvo i casi rarissimi di pensatori solitari, la ricerca scientifica
avviene in sedi a vocazione pubblica come le università, e i singoli
progetti sono finanziati da enti statali. Non solo: chi fa ricerca
sperimentale, usa attrezzature di laboratorio che già lì trova e ci lavora
con del personale universitario di staff. Più in generale il ricercatore
si inserisce in un flusso e in un ambiente culturale che a lui pre-esiste
e che è anch'esso un bene pubblico. Certamente egli ci mette del suo:
passione, intelletto, cultura, ma è difficile sostenere che quei risultati
siano soltanto suoi. Lo stesso articolo pubblicato da Pellettier, non per
caso portava la firma di altri quattro autori e quelli di fisica delle
particelle possono avere addirittura anche un centinaio di autori,
trattandosi di squadre enormi. In altre parole le idee delle scienza sono
sempre figlie di un processo storicamente situato e di una moltitudine di
contributi.

La contraddizione dunque è questa: che i ricercatori universitari per
difendere la libera circolazione delle idee devono reclamarne la proprietà.
L'ideologia è quella della conoscenza come bene pubblico, la pratica
diventa quella della «proprietarizzazione». Dunque a brevetti e copyright
ricorrono anche le università e i ricercatori che credono nel valore
pubblico della conoscenza finiscono per praticare una doppia morale e si
giustificano dicendo che altrimenti qualche altro privato potrebbe
brevettare al posto loro, rinchiudendo le idee anziché liberarle.

Una buona indicazione alternativa è venuta l'anno scorso da un gruppo di
esperti che si sono riuniti a Yale. Essi propongono che le università
aderenti al progetto Cipra (centro per le ricerche interdisciplinari
sull'Aids) si impegnino a non brevettare le loro scoperte nei paesi in via
di sviluppo e ad offrire a questi paesi, invece, delle licenze che rendano
i farmaci relativi disponibili a un costo appropriato, in quantità
sufficienti e rapidamente. In pratica si tratta di una forma moderata di
licenza «Open Source» simile a quella del software aperto e più avanzata
della mediazione tra nord e sud del mondo raggiunta recentemente, poco
prima della conferenza di Cancun.

Questa probabilmente è l'unica strada praticabile: anziché mettersi in gara
con i privati per brevettare le ricerche, più ragionevolmente quelli che ci
credono dovrebbero rilasciarle sotto una licenza pubblica, analoga a quella
usata per i software alla Linux: tutti possono usare quelle idee e quei
risultati, ma nessuno li può rivendere e farli propri.

http://www.ilmanifesto.it/oggi/art79.html
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Settembre-2003/art79.html

 ...

I pirati della proprietà intellettuale
L'antica tentazione di «firmare» ogni idea o scoperta alle prese con i
vuoti legislativi in materia di Rete
EMANUELA DI PASQUA

Tutti provano a mettere il proprio cappello alle idee, ai medicinali, ai
marchi. A tutto. Questa settimana ricorreva il centenario del brevetto sul
cono gelato, attribuito a tale Italo Monday, di chiare origini italiane.
Correva dunque l'anno 1903 quando Monday brevettò la celebre golosità.

Nel 2003 il terreno di conflitto si sposta e dal leggendario cono si arriva
al software, all'hardware, all'entertainment, ai modelli di business e
all'editoria per finire con i farmaci, settore divenuto tra i più contesi e
cruciali, grazie al fatto che in questo mondo si muovono, più che altrove,
capitali ingenti.

A questo proposito uno dei protagonisti più assidui delle lotte sui brevetti
rimane il Viagra, farmaco simbolo del mito dell'eterna giovinezza, tra i più
imitati ed emulati. La bagarre più recente vede la Pfizer, madre della
pillola azzurra, contro le multinazionali farmaceutiche Bayer e Glaxo,
colpevoli, secondo la produttrice del Viagra, di aver copiato nel loro
recente prodotto Levitra il principio attivo della pastiglia che corregge
le disfunzioni erettili. Stando infatti all'ultima causa vinta dalla
multinazionale, il brevetto targato Pfizer è particolarmente esteso, tale
da poter impedire a qualsiasi società di introdurre farmaci che agiscono su
un enzima chiamato PDE-5, responsabile dell'erezione maschile.

L'affaire Pfizer vs. Bayer e Glaxo trova dei precedenti, tra gli altri,
nella vicenda di Eli-Lilly, azienda farmaceutica madre di Cialis (pillola
contro l'impotenza che agisce sullo stesso enzima della sua «collega» più
celebre), e nella guerra (risalente a qualche tempo fa) del colosso Pfizer
contro un farmacista italiano accusato di aver preparato alcune pasticche a
base di sildenafil (principio attivo del Viagra). Ancora una volta il
farmaco azzurro si aggiudica il titolo di più conteso e più scopiazzato.

Ma nella lotta per i diritti di proprietà intellettuale non entrano in gioco
solo i colossi.

Emblematica la storia di un calligrafo cinese, Guang Dongsheng, incaricato
dalla società Dow Jones & Co (niente di meno) di disegnare un logo che
riprendesse anche il carattere cinese «dao». Dongsheng manda l'idea a Dow
Jones. Dopodiché non sa più nulla.

Quando l'artista viene a sapere che la società, proprietaria anche del
quotidiano The Wall Street Journal, sta facendo uso a sua insaputa della
sua creazione come logo, in materiali pubblicitari e nel sito web, chiede
49 mila dollari a titolo di risarcimento, accusando il colosso americano di
aver infranto la legge sul copyright. La Dow Jones & Co ora dovrà dare i
49 mila dollari a Guang, oltre a dover formulare le proprie scuse per
iscritto.

L'ultima in fatto di intellectual property riguarda una vicenda di domini
Internet che sottolinea ancora una volta il vuoto legislativo esistente
nell'ampia materia. Verisign, colosso americano monopolista dei domini,
s'impossessa di tutti gli indirizzi sbagliati del Web, cercando di fatto di
utilizzare a proprio vantaggio gli errori di battitura. La più alta autorità
internazionale dell'Internet, l'Icann, interviene sventolando un cartellino
giallo mentre piove una denuncia da 100 milioni di dollari dai concorrenti
nel settore delle ricerche in Rete. Ma il caso Verisign ha dei precedenti
(tra i quali Microsoft) e per il momento l'azienda americana resta ferma
nella sua strategia, appropriandosi di fatto di tutti i nomi di dominio
ancora liberi e difendendo il proprio servizio Site Finder, giudicato
«d'aiuto alla navigazione». L'utente che sbaglia verrà quindi immediatamente
dirottato sull'homepage del motore di ricerca di Verisign.

Per quest'ultima i vantaggi sono incalcolabili: aumento galoppante delle
pagine visitate e degli spazi pubblicitari venduti. Tutti approderanno su
Verisign, molti senza essere assolutamente intenzionati. In attesa di regole
più chiare.

http://www.ilmanifesto.it/oggi/art80.html
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Settembre-2003/art80.html


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 .: TECNOLOGIA&INTERNET :.
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Ma gli antivirus servono a qualcosa?
di Paolo Attivissimo

Di fronte al dilagare di worm e virus, è forse il caso di riconsiderare
uno dei dogmi della sicurezza informatica: l'antivirus, che si sta
rivelando più un danno che una valida difesa.
Urgono soluzioni alternative

C'era una volta Internet. Quella cosa bella, mitica e irraggiungibile
che se l'avevi eri un essere superiore, membro di una èlite di
interconnessi che scambiavano gratuitamente e-mail intercontinentali
mentre gli altri infelici scialacquavano fortune in fax e telefonate.

Poi sono arrivati i virus: uno, due, dieci, mille. E Internet è
diventata la latrina del terzo millennio. La mia casella di e-mail,
come la vostra, è un ricettacolo repellente di réclame di allungapiselli,
proposte d'affari di dittatori africani in disgrazia, e soprattutto
virus, virus, virus. Distillare la posta veramente utile in questo
marasma è oggi una necessità nauseante, come recuperare un Rolex caduto
in un orinatoio pubblico. Adesso, quando dico che lavoro con Internet,
i giurassici rimasti fedeli al fax mi guardano come se fossi un addetto
dell'agenzia spurghi e sogghignano, compiaciuti della loro scelta retró.

Gran parte della colpa è da attribuire a chi ha avuto la geniale trovata
di scrivere programmi di posta che eseguono automaticamente qualsiasi
porcheria allegata a un e-mail. In confronto, stare a bocca spalancata
sotto una piccionaia è una scelta da Einstein.

I più giovani magari non se lo ricordano, ma prima dell'avvento di Outlook
e soci era necessario che un utente aprisse intenzionalmente un allegato
per farsi infettare. Lo faceva una volta e poi, se non era proprio un
imbecille, imparava a caro prezzo la lezione. Ora, grazie al progresso
tecnologico, i virus vengono eseguiti automaticamente, e l'utente non può
far nulla per impedirlo. Dirgli di non aprire gli allegati, come si faceva
un tempo, non serve più a nulla: lo fa automaticamente il computer.
E' questo automatismo la causa fondamentale del dilagare violento di ogni
più banale attacco virale.

Di solito a questo punto il saccente di turno alza la manina e fa notare
che le cose andrebbero molto meglio se tutti usassero l'antivirus e lo
tenessero aggiornato, le epidemie virali non esisterebbero. Si offende
qualcuno se dico che questa è una panzana colossale?

Il giro del mondo in quindici minuti

La ragione è piuttosto semplice. Gli antivirus agiscono sempre troppo
tardi per natura. Prima che possano bloccare un nuovo virus, è necessario
che quel virus sia già in circolazione e arrivi tra le mani degli esperti,
che lo esaminano e preparano di corsa un aggiornamento antivirale su misura.
Poi è necessario attendere che gli utenti scarichino e installino
l'aggiornamento. Solo allora si è protetti.

Questo meccanismo intrinsecamente passivo significa che anche nella migliore
delle ipotesi, ossia con esperti delle società antivirali in servizio giorno
e notte e con utenti diligentissimi che scaricano gli aggiornamenti ogni
giorno più volte al giorno, passano comunque diverse ore fra l'inizio
dell'epidemia e la disponibilità dell'aggiornamento che riconosce la nuova
minaccia virale.

E a quel punto il danno è ormai fatto. Grazie anche al crescente numero di
utenti permanentemente connessi, i virus più recenti si diffondono in tutto
il mondo a velocità enorme, come documentato in modo impressionante da una
recente ricerca su Code Red e Nimda.

Ultimamente basta infatti qualche decina di minuti perché vi siano migliaia
di macchine infette, che a loro volta disseminano il virus tramite le loro
connessioni veloci. Li chiamano addirittura i Warhol worm, dalla famosa frase
di Andy Warhol che prevedeva un futuro in cui ognuno avrebbe avuto il proprio
quarto d'ora di fama (o, in questo caso, di infamia).

In sostanza, è ormai tecnicamente possibile sviluppare un virus in grado di
infettare Internet fino alla paralisi in meno di un'ora. Quelli che abbiamo
subìto sinora, sia ben chiaro, sono attacchi dilettanteschi: lo conferma
l'analisi dei codici virali di Blaster, Sobig e compagnia bella, che pure
hanno causato sfracelli. In queste condizioni, un antivirus è utile tanto
quanto mettersi il casco dopo essere caduti dalla moto.

L'antivirus non solo è sostanzialmente inutile contro un'epidemia: offre un
senso di sicurezza del tutto fasullo, che è notoriamente più pericoloso della
consapevolezza di essere in pericolo. Se l'antivirus ci dice che un allegato
è pulito, è probabile che cederemo alla tentazione di aprirlo, anche se è di
provenienza dubbia. Non abbiamo modo di sapere se l'allegato alberga in realtà
un virus troppo recente per essere riconosciuto persino dall'antivirus fresco
di aggiornamento.

L'esempio classico è il recentissimo Swen/Gibe. Ha cominciato a inondarmi la
casella di posta diverse ore prima che le società antivirali producessero
l'aggiornamento che lo riconosce. Durante quelle ore, l'esame con l'antivirus
aggiornato indicava che l'allegato di Swen era in regola. Mi ha salvato
dall'infezione soltanto la mia diffidenza verso gli allegati in generale,
perché il messaggio era davvero ben confezionato e faceva leva sull'ansia
generata dagli attacchi precedenti. Molti altri utenti non sono stati così
accorti.

I danni degli antivirus

L'antivirus, insomma, ci lascia in braghe di tela proprio quando più ne
abbiamo bisogno. Il massimo che può fare è confermarci, a distanza di qualche
ora, che un allegato sospetto è davvero infetto. Ma se già sospettavamo, la
conferma è quasi superflua. Se non sospettavamo, ormai abbiamo aperto
l'allegato e ci siamo infettati. Bell'aiuto.

L'unica vera utilità di un antivirus è la verifica di quei pochi file che
dobbiamo aprire perché ce li ha mandati intenzionalmente qualcuno che
conosciamo (un cliente, per esempio) ma che potrebbe essere infetto a sua
insaputa. Verificare un allegato proveniente senza preavviso da uno
sconosciuto è invece del tutto superfluo, perché l'allegato è quasi
sicuramente un virus e va cancellato senza indugi.

L'antivirus ha oltretutto un costo tangibile. Non solo occorre quasi sempre
acquistarlo o perlomeno pagare un canone per i suoi aggiornamenti
(anche se esistono validi antivirus gratuiti), ma lo scaricamento
necessariamente frequente degli aggiornamenti comporta un dispendio di tempo
e un consumo di banda che, specialmente per gli utenti collegati via modem
in dial-up, si traduce spesso in un aggravio notevole di spesa. E' anche per
questo che molti utenti non scaricano regolarmente gli aggiornamenti:
costano e sono una scocciatura.

Oltretutto, neppure usare il miglior antivirus e sistemi operativi
alternativi a Windows ci mette al riparo dall'altro spreco di banda: quello
dovuto al bombardamento dei virus ricevuti. L'antivirus, se installato sul
nostro computer, agisce dopo che abbiamo scaricato l'immondizia infetta.
Quindi anche gli utenti Mac e Linux, notoriamente immuni a quasi tutti i
virus in circolazione, ne subiscono comunque il peso, perché si trovano la
casella di posta intasata da virus dedicati agli utenti Windows e da quei
pestiferi messaggi "attento, mi hai mandato un virus" generati dagli
antivirus troppo cretini per capire che da anni la maggior parte dei virus
falsifica il mittente del messaggio infetto. Non si salva nessuno, insomma.

E' insomma evidente che l'approccio dell'antivirus è fondamentalmente
sbagliato e insufficiente. Ci vuole un altro sistema. Un sistema
preferibilmente semplice, oltre che efficace, e che non sia a carico
dell'utente, altrimenti sarebbe condannato in partenza al fallimento,
vista l'ingenuità diffusa dei tanti che si affacciano oggi a Internet.

Tutti banditi

Una soluzione ci sarebbe: bandire gli allegati e l'interpretazione dei
linguaggi nei programmi di posta, punto e basta. Suvvia, non ridete.

Praticamente tutti i virus si diffondono sotto forma di allegati (Blaster
è una rara eccezione). Se la posta non può trasportare allegati, il virus
non può diffondersi. Se l'e-mail contiene soltanto testo e il programma di
posta non ne esegue in alcun modo il contenuto (niente interpretazione di
HTML e simili), l'utente è immune a ogni infezione via e-mail. Il canale
primario di proliferazione virale viene sbarrato completamente.

Questa strategia tanto draconiana quanto apparentemente banale è in realtà
assai flessibile: si può implementare in molti modi e a molti livelli
secondo le esigenze. Il primo livello è quello personale: si stabilisce la
norma che tutti gli allegati ricevuti, di qualunque tipo e chiunque ne sia
il mittente, vengono cancellati senza pietà, automaticamente o manualmente.
E' necessario essere così drastici perché un virus può essere annidato in
qualsiasi tipo di file, compresi i documenti e i filmati, o spacciarsi per
un'immagine o un file di testo apparentemente innocuo.

Questa è una regola che chiunque può decidere di mettere in pratica sin da
subito. Naturalmente il programma di posta usato non deve essere così stupido
da eseguire automaticamente gli allegati o i codici contenuti in un e-mail,
ma non è difficile: da qualche tempo persino Outlook Express è configurabile
in questo modo.

Il secondo livello è quello della rete aziendale: tutti gli allegati, di
ogni sorta e senza eccezioni, vengono purgati a livello del gateway verso
Internet. Gli utenti non hanno bisogno di fare assolutamente nulla per
difendersi.

Meglio ancora sarebbe adottare questa strategia al terzo livello, quello del
provider: immaginate di avere un account di posta che cestina automaticamente
ogni e qualsiasi allegato quando è ancora sul server, un po' come già si fa
per lo spam. Quante copie di Swen ricevereste? Nessuna. Non so voi, ma io
pagherei volentieri per un servizio del genere. Provider, pensateci.

Idem dicasi per gli altri virus e per le immagini porno che accompagnano
molto spam. Non avreste neppure l'onere di scaricare tutti i messaggi infetti,
e aggiornare l'antivirus diventerebbe quasi superfluo. Forse è questo il
motivo per cui non si è ancora adottata questa soluzione: nocerebbe ai
produttori di antivirus. Eh già, perché più virus ci sono, più antivirus si
vendono. Poco importa se non funzionano granché: danno sicurezza, come la
coperta di Linus (quell'altro, non Torvalds).

Avanti, verso il passato

Bandire gli allegati non significa rendere impossibile lo scambio di file:
significa semplicemente rendere impossibile lo scambio automatico che i virus
sfruttano per diffondersi. I file si possono comunque scambiare tramite i
mille altri modi sicuri e ben collaudati che Internet offre da sempre: ftp,
scp, Web, giusto per citarne qualcuno, e persino Bittorrent, che si sta
rivelando così prezioso per la distribuzione legale di Linux e del software
libero in generale. Fra l'altro, l'alt agli allegati ci sbarazzerebbe di
tutte quelle odiose presentazioni PowerPoint contenenti trite parole di
"saggezza cinese" o altri luoghi comuni che certi utenti non sanno
trattenersi dal diffondere all'intero globo terracqueo, ma questa è un'altra
storia.

Certo non è una soluzione perfetta: ci sono molti modi per aggirarla, ad
esempio tramite il classico social engineering (tecniche psicologiche di
persuasione che gabbano l'utente anziché le sue tecnologie informatiche),
ma sarebbe un enorme passo avanti. O per meglio dire un passo indietro,
dato che ci riporterebbe all'Internet dei bei tempi andati. Quella che
funzionava.

Il fattore che permette a un virus moderno di commettere stragi è la
modalità di diffusione: automatica e ad alta velocità. Se il virus ha
bisogno di un'azione manuale per diffondersi (ad esempio deve essere
scaricato da un sito, eseguendo una procedura protetta da password),
la sua propagazione è drasticamente rallentata, tanto da dare il tempo
ai produttori di antivirus di realizzare e distribuire l'aggiornamento
apposito e soffocare i pochi focolai sul nascere. Ci sarebbe dunque lo
stesso un mercato per gli antivirus, anche se meno vasto di quello
attuale.

Naturalmente la tecnologia da sola non basta: bisogna anche educare gli
utenti a una sana diffidenza, in modo da evitare le insidie del social
engineering. Ma la diffidenza è un comportamento istintivo, di gran
lunga più facile da instillare anche nell'utente meno esperto che l'uso
di una tecnologia che per molti è estranea e astrusa oltre che carente
nei risultati, come lo è attualmente quella degli antivirus. Chiunque
capisce la regola "non fidarti di nessuno". Diamine, X-Files l'abbiamo
visto tutti.

Una cosa è certa: così non ha più senso andare avanti. Se vi accontentate
di una soluzione che debella il 99% dei virus passati, presenti e futuri,
potete adottarla sin da subito, almeno a livello personale. La Rete intera
ve ne sarà grata.

http://www.attivissimo.net

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L'AMIGA RITROVATA
Lo storico appuntamento dedicato a tutti i fan delle piattaforme
alternative ha chiuso i battenti per la settima volta. Stavolta con
grande soddisfazione: si è concretizzato il sogno di soluzioni
hardware compatibili tra cui scegliere
di Nicola D'Agostino
http://www.mytech.it/mytech/computer/art006010049545.jsp
Fotogallery correlata
http://www.mytech.it/mytech/photogallery/art006010049546.jsp

E-COMMERCE: TUTTI I SEGRETI CON E-BAY ALLO SMAU 2003

(ANSA) - ROMA, 23 SET - I segreti dell'e-commerce saranno svelati da e-bay
Italia allo Smau 2003. ''E-bay e' come un enorme mercato su Internet -
afferma Andrea Piccioni, direttore generale della filiale italiana -
organizzato per categorie merceologiche ed accessibile a tutti i
commercianti, piccoli e grandi, senza alcun costo fisso''. Per capire come
poter avviare un nuovo business nel settore del commercio hi-tech, e-Bay
proporra' una sorta di training, durante il quale gli operatori
riceveranno suggerimenti personalizzati. ''Nel settore tecnologico -
sottolinea Nadia Sillano, responsabile del segmento hi-tech per e-bay
Italia - sono oltre 20.000 i venditori che raggiungono 55.000 nuovi
clienti ogni mese grazie alla loro presenza sul nostro sito''.(ANSA).

http://news2000.libero.it/index_news.jhtml?id=5709633

Virus Alert: Swen - non è Microsoft, è un virus!

Un altro virus che si spaccia come patch pubblicata da Microsoft si sta
diffondendo in Internet. Swen (noto anche come Gibe) usa il testo
dell'oggetto per indurre gli utenti ad aprire l'email

http://www.zdnet.it/zdnet/JumpNews.asp?idLang=IT&idChannel=863&idNews=1785
23 &idUser=0605HGJPMFGTHUNFOFUETKQH

VeriSign nella bufera per il servizio cattura-errori nel web

SAN FRANCISCO (Reuters) - VeriSign Inc. ha annunciato che chiederà il
parere di consulenti esterni per monitorare il suo nuovo servizio di
individuazione di errori sul web, che ha scatenato una bufera di proteste
e gli ha già procurato due cause, oltre alle critiche delle autorità che
sovrintendono alle politiche di Internet.

http://www.reuters.com/locales/newsArticle.jsp?type=internetNews&locale=it
_I T&storyID=3490535

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 .: TEMI&APPROFONDIMENTI :.
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Una rete ai ferri corti
Due decisioni che modificheranno il World wide web e non solo. In nome
della lotta alla pedofilia e della sicurezza, la società di Redmond
chiude il servizio di «chat room» di Microsoft Network. Chi vorrà
«chiacchierare» dovrà pagare. Per le associazioni dei diritti civili
aumenterà il «divario digitale». A Bruxelles, invece, passa il principio
che il lavoro di progettazione e ideazione dei programmi informatici
deve essere messo sotto brevetto in nome della proprietà intellettuale.
Si inaugurà così una nuova era nella storia di Internet. Libero accesso
alle idee, ma solo a pagamento

Bill Gates chiude i cancelli
Annuncio della Microsoft: da ottobre chiuse tutte le «chat room»
gratuite in Europa, Asia e America Latina. Rimarranno aperte solo quelle
a pagamento in Usa, Canada, Giappone
ARTURO DI CORINTO

Le idee sotto brevetto
Approvata ieri a Bruxelles la direttiva sulla brevettabilità del software.
Deluse le grandi imprese informatiche, riserve dalla sinistra europea e
dalle associazioni del software libero
BENEDETTO VECCHI

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/25-Settembre-2003/pagina13.htm


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 .: DALLA RETE A(LLA) CARTA E RITORNO :.
di Marco Trotta matro@bbs.olografix.org
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2003-09-20 12:39:22
Non brevettate le idee
di Marco Trotta (pubblicato sull'Unità Bologna - 20/09/03)
http://www.acabnews.it/view/692

2003-09-20 12:31:01
No ai brevetti software: appello al Partito Socialista Europeo
di Marco Trotta (pubblicato su Il Domani Bologna - 11/09/03)
http://www.acabnews.it/view/690

2003-09-20 12:31:01
Voglio brevettare i tortellini !
di Renzo Davoli
http://www.acabnews.it/view/689

Video dell'incontro di Bologna sui brevetti
20/09/2003 | by Alessandro Ronchi

Bologna, 18 Settembre 2003 - Al Caffè La Linea, il Forum per il Software
Libero ha organizzato un incontro dibattito dal titolo, 'Brevetti
software: è giusto brevettare un'idea?'. Al centro della discussione la
imminente votazione al Parlamento Europeo sulla nuova direttiva che da più
parti si teme possa introdurre per legge la possibilità di brevettare un
software. Radio Radicale ha messo a disposizione in streaming i video
della giornata.
http://www.ziobudda.net/Admin/redir_news.php?id=13744&PHPSESSID=0dadcf81db52f618d458a6b5d65cc52b


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 .: NEWS DALL'ASSOCIAZIONE :.
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Associazione Culturale Telematica
"Metro Olografix"
http://www.olografix.org
info@olografix.org


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 .: CREDITS :.
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a cura di Loris "snail" D'Emilio
http://www.olografix.org/loris/

Hanno collaborato a questo numero:
Nicola "nezmar" D'Agostino
http://www.olografix.org/nezmar
Marcello "marcellino" Sonaglia
http://www.olografix.org/marcellino
Barbara
barbara@olografix.org
Marco Trotta
matro@bbs.olografix.org





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