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Per conoscenza: risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci



"Lettera da Firenze"
di Tiziano Terzani
(Corriere della Sera, 8 ottobre 2001)

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu
sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e
ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei
grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un
pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga
passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io
mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu
proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina
dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa
mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e
non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due
vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur
vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo
assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo
soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue
invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di
persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra
morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la
compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl
Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse,
disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra
Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli
si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio.
Tacere per
Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere
prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli
ultimi giorni dell'umanità , un'opera che sembra essere ancora di
un'inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che,
grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva
ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.  Il
nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile
è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo
momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme
responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue
sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare
la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità
delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai
nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere.  "Conquistare le passioni mi pare
di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle
armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella
bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finché l'uomo non si metterà di sua
volontà all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per
lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti
quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di
offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella
calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile,
"Libertà duratura". O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo
per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c'è stata ancora la
guerra che ha messo fine a tutte le guerre.
Non lo
sarà nemmen questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno.
Cambiamo
allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una
grande
occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un
futuro
diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 ocrate a
Mozart ).
L'autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima
di
tornare all'Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è
che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento
della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in
alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a
ricordare all'uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta
per dare origine alla civiltà.  Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce
agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che
è anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima
città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.  Secondo Krippendorff
il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante
nella formazione dell'uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena
tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi
ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far
riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non
raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i
soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre
televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non
proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A
me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle
"Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di
"Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane.
Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola
di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze
vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e
tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per
la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei
capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il
suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli -
fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli
bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui
l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si
tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono
convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i
terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro
c'è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della
nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a
quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di
altre migliaia di effetti.
L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e
complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di "una guerra di religione"
degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata
alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure "un attacco alla
libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica
formula ora usata dai politici.  Un vecchio accademico dell'Università di
Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie
sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa.
"Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America:
hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel
numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri -
l'ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da
Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo
"contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo
sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la
loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto
della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli
imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e
degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli
Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America
Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale ad oggi.  Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle
ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo
tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq
nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del
Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola
araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta
brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un
implacabile nemico".
Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo
musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo
di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è,
a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione
occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi
fossero, le riserve petrolifere della regione.
Questa è stata la trappola. L'occasione per uscirne è ora.  Perché non
rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo
davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le
possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d'essere
coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani;
ci eviteremmo i sempre più disastrosi "contraccolpi" che ci verranno
sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a
mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così
anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai
trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche -
tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come,
con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi
fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto
d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le
immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di
quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli
Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da lì nei paesi del Sud Est
Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran.  Nessuno in questi giorni
ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani
sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per
trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana,
la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è
impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso
l'Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di
proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attacco contro
l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non
meno determinanti.
È per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a
preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria
petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora
prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington -
finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche
americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione
dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà
che rendono l'America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal
pulpito
della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da
Bush, fosse
appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi
programmi e
l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non
ortodossi, hanno
aumentato queste preoccupazioni. L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare
-
"talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea
ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui
l'America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti
intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di
essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in
moltissimi casi lasciati senza lavoro.  Il tuo attacco, Oriana - anche a
colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in
quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il
dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle
nostre teste è come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non
pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per
questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare
delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi
tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e
dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla
ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir
dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel
suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America
che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro
la guerra americana in Vietnam?  Per i politici - me ne rendo conto - è un
momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di
qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per
risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle
prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà
combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in
mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a
guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come
quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto
"a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha
scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia
University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una
settimana prima degli attentati in America.  Il nostro mestiere consiste
anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare,
Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del
terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come
incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle
scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani
di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che
cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da
te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che
studiano l'arabo, oltre ai tanti che già studiano l'inglese e magari il
giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese
affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due
funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console
ad Adelaide in Australia.  Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le
opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di
statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma
i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme". Dove
sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci
rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo
interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i
crociati.
Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su
cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda
volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel
corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto,
amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"),
sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San
Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e
portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era
il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di
quell'incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che
probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San
Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.  Mi diverte
pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di
Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono
d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il
prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il
frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che
si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la
storia.  Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi,
Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi?
Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La
sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno
fatto diventare l'uomo più umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare
debba essere "No". Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel
1932 in una lettera a Sigmund Freud. "È possibile dirigere l'evoluzione
psichica dell'uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla
psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per
rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due
fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli
effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un
prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra
Mondiale.
Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto
della
necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta
di
Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanità un
ultimo appello per la sua sopravvivenza: "Ricordatevi che siete uomini e
dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed
ai tuoi calci). Per proteggersi non c'è bisogno d'ammazzare. Ed anche in
questo possono esserci delle giuste eccezioni. M'è sempre piaciuta nei
Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino
lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide.
Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone.
Lui, che ha già i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri,
un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene
buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere
ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con
giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto
dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle
prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga;
quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono
portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri,
dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma
quelle contro Osama Bin Laden? "Noi abbiamo tutte le prove contro Warren
Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate",
scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di
provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose :
una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre
pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su
Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale
indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile
dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece
16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti
forse sì.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico"
da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne
dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota,
islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di
innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di
dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo
d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta
non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a
causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere
costruita in un paese ricco del Primo Mondo.
E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive
vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O
semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano
risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre
scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente
portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai
restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso,
muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il
terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a
volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione
comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati
Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno
combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi.
Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la
pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su
quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di più carino del capitalismo", diceva il cartello di un
dimostrante in Germania. "Un mondo giusto non è mai NATO", c'era scritto
sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già.
Un mondo "più giusto" è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo
pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla;
un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po' più di
moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi,
rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano
stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l'ennesimo
esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe
aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati
Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra
contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto
le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più
reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che
non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte
Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine
anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio.
Per questo ora Washington riscopre l'utilità del Pakistan, prima tenuto a
distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa
dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di
nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di
liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua
lista nera.  Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l'etica
se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a
Timbuctu come a Firenze.  A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che,
come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è
cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'Islam o degli
immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze
una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto.
Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio,
ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i
filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli
albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s'è
"globalizzata", perché non ha resistito all'assalto di quella forza che,
fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due
anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è
scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima
farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di
moda.
Credimi, anch'io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya
indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a
guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità,
eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e
impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra,
Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione.  Tornaci anche tu.
Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo,
con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per
sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non
come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai
davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento e
sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se
quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte