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dalla cecenia
Questo è l'articolo, scritto da Fabrizio Bettini, che riassume il tentativo
dell'Opeazione Colomba di intervenire nel conflitto ceceno.
In giugno del "00 siamo stati in Inguscetia e abbiamo incontrato i profughi
di una guerra dimenticata dai midia ma soprattutto dalle diplomazie di tutto
il mondo che si inchinano al fatto che la Russia é più grande e potente
della Jugoslavia di Milosevic. Le poche organizzazioni internazionali
lavorano scortate, il pericolo dei rapimenti è concreto e rende il Caucaso
uno dei posti più pericolosi per gli stranieri. I rapitori sono sicuramente
ceceni e ingusci ma pare che anche una certa parte del potere russo abbia
interesse che questa "tradizione" locale continui. La presenza di
osservatori internazionali superpartes, qui, è un miraggio. Memorial, un
associazione russa che in Inguscetia e Cecenia lavora esclusivamente con
personale locale, anche per i civili russi questo territorio é off limits, è
l'unica che cerca di urlare le sofferenze della popolazione locale. Abbiamo
incontrato i profughi che vivono nei numerosi campi in Inguscetia e, in
Cecenia, abbiamo incontrato chi è rimasto durante tutta la guerra e chi sta
cercando di ritornare a casa. Tutte queste persone sono accumunate dal fatto
di vivere una profonda sofferenza e disagio nella vita quotidiana. Per chi
vive nei campi c'è il disagio della vita in tenda o nei stretti vagoni
ferroviari, per chi è rimasto in Cecenia si aggiungono le paure di rimanere
coinvolti nelle schermaglie fra forze russe e cecene che tutt'oggi si
fronteggiano. Il viaggio del giugno "00 ci ha fatto capire che per entrare
in questa guerra dobbiamo conoscere profondamente la cultura e la lingua
russa. Riuscire a valutate il rischio dei rapimenti da soli é un obiettivo
che ci permetterebbe di avere i mezzi per stare in mezzo alle persone che
per questa guerra soffrono senza dover utilizzare una scorta armata al
nostro seguito. Ci viene chiesto chi siamo e cosa vogliamo fare per questa
gente. Siamo i volontari dell'Operazione Colomba che è parte dell'
Associazione Papa Giovanni XXIII e dal "92 cerchiamo di stare in mezzo alle
vittime delle guerre dalla ex Jugoslavia al Chiapas da Timor Est al Congo.
Non siamo una grande associazione e non portiamo aiuti umanitari, portiamo
semplicemente noi stessi cercando di stare in modo semplice in mezzo alle
vittime della guerra, cerchiamo di creare rapporti con le persone in modo da
poter dare un'alternativa all'odio, cerchiamo di risolvere i piccoli
problemi di tutti i giorni, cerchiamo di vivere il quotidiano per provare a
creare un alternativa futura. Entrare nella guerra in Caucaso è, però,
difficile e il metodo diretto che abbiamo usato finora qui non funziona. Noi
bravi pacifisti occidentali dobbiamo fare un bagno di umiltà e entrare in
questa guerra da lontano. Queste premesse ci hanno portato a fare dei passi
indietro e ci hanno portato, nel gennaio "01, a ricominciare da Volgograd.
Volgograd fu Stalingrado ed è una città di un miglione e mezzo di abitanti,
circa mille chilometri a nord del Caucaso, ma rapportata alla vastità della
Russia è una città minore. Conta la sua storia, qui infatti, i russi
scacciarono i tedeschi dopo una strenue resistenza. La città fu rasa al
suolo e fu ricostruita in epoca staliniana, sulla città troneggia un'enorme
statua che rappresenta la "Madre Patria" che chiama il popolo alla lotta
contro gli invasori. Qui, l'Associazione Papa Giovanni XXIII è presente da
otto anni e le attività sviluppate sono numerose. C'è una casa famiglia, una
comunità terapeutica e numerose attività con i senza tetto o i poveri in
genere. Noi siamo qui per cercare di capire meglio la vita e la mentalità
della gente e per imparare alcuni rudimenti di lingua russa. Subito ci
assale il pensiero della nostra lontananza da quelle tende, da quei vagoni
ferroviari, quanto ci sentiremmo più utili là! Ma là non ci possiamo stare
per ora quindi dobbiamo sforzarci di capire; capire le sofferenze del
popoplo russo, nella quotidianità, di capire la paura che vive nei confronti
dei terroristi ceceni. A Volgograd incontrimo numerose persone e
associazioni tutti ci parlano dei problemi dei profughi che fin li sono
arrivati, ci parlano dei problemi di chi ci va a combattere e torna a casa
invalido; un poliziotto ci racconta la sua avventura cecena fatta di
rastrellamenti e di conflitti a fuoco, aggiunge anche degli interessi
economici che fanno si che la guerra continui. Anche in questa guerra sotto
la facciata pattriottica di difesa dei confini da una parte e di richiesta
di indipendenza e libertà dall'altra parte si nascondono gli interessi
contrapposti di predominio su un'area che per numerose ragioni è strategica.
C'è anche chi ci parla di Putin, il presidente russo, come l'uomo forte,
quello che ci voleva dopo Eltins. Ci dicono anche che da pochi giorni, su
volontà presidenziale, è stata abolita una legge che risaliva alla glasnost
gorbacioviana che impediva le denuncie anonime. Puo sembrare una sciocchezza
ma puo essere un ritorno alla politica della delazione di sovietica memoria.
Tutte queste voci e opinioni ci indirizzano verso una zona dove pare passino
e si fermino molti profughi provenienti dalle zone infiammate dalla guerra
nel sud del Caucaso. Questa regione si trova saldamente in mano russa anche
perché la popolazione è tutta russa e quindi il problema del rapimento degli
stranieri pare non esistere, scopriamo anche che la regione di Stavropol,
cosi si chiama questa zona che sta al confine con il Kabardino Balkaria,
Inguscetia e Cecenia, fino a dieci anni fa portava il nome di Togliatti.
Sempre nell'ottica di andare avanti passo dopo passo e di capirne di più
abbiamo deciso di fare una breve presenza esplorativa proprio in quell'area.
Dopo venti ore di treno siamo giunti a Pitigorsk, a pochi km di distanza
dalle frontiere con Kabardino Balkaria, Inguscezia e Cecenia, dove avevamo
un contatto precedente con il pope locale. Tramite lui abbiamo subito
incontrato la responsabile di un associazione locale che fornisce aiuto
legale e materiale ai profughi. Grazie a lei abbiamo anche vissuto due
giorni in mezzo ai profughi di uno dei pochi campi, dove in una baracca
prefabbricata, ci sono circa quaranta persone in maggiranza adulti ma non
mancano anche i bambini due dei quali molto piccoli. La situazione di queste
persone é particolare. Otto anni fa, assunti da una ditta di costruzioni, si
sono spostati da Grozny alla volta di Piatigorsk con la prospettiva di
lavorare e in breve tempo migliorare la loro situazione abitativa. Poi la
prima guerra nel '94 la ditta va in bancarotta il presidente fugge con tutti
i soldi alla volta di Mosca. Queste persone si trovano incastrate dalle
definizioni. Sono lavoratori, non hanno diritto agli aiuti che ricevono i
profughi, ma là in Cecenia anche le loro case sono state bruciate. Sono
russi e dopo la fine della prima guerra hanno paura a tornare là dove un
tempo, come dicono loro, vivevano in armonia e in accordo con i ceceni. Una
sola donna con la madre é scappata recentemente. Alla domanda di come abbia
vissuto la pace tra le due guerre (Tra Il '96 e il 99) lei risponde: "con
paura". Racconta, come tante volte abbiamo sentito da altri in altri posti,
di essere scappata con solo quello che indossava e di aver lasciato a Grozny
tutto quello costruito con il lavoro di una vita. Ci siamo poi recati a
Stavropol capoluogo della regione e sede dell'amministrazione locale, che
abbiamo per l'appunto incontrato. Questo incontro ci é servito per
presentarci in vista di una futura nostra presenza nella regione. Sapevamo
che che la discussione avrebbe vertito soprattutto su questioni umanitarie e
finanziarie, alle quali noi non potevamo dare una risposta. I profughi nella
regione sono circa 80 mila registrati ufficialmente, mentre si stima che la
cifra reale sia attorno ai 200-250 mila. Non ci sono campi profughi, la
maggior parte sono presso parenti, in affitto, o in sistemazioni precarie.
Ultimo dato: nella regione l'ottanta per cento dei profughi sono russi, il
resto sono ceceni, armeni, azerbaigiani etc. Riflettendo poi sulla breve
esperienza nel campo mi rendo conto che, anche se l'approccio con questa
gente é diverso, piu' difficile, rispetto alle mie esperienze precedenti ho
sentito il calore del contatto il fatto che finalmente eravamo in mezzo alla
gente che sta soffrendo per una guerra che a ogni nostro tentativo di
entrarci dentro ci respinge lontani. Non sappiamo ancora cosa potremmo fare
per questa gente; siamo convinti che lo starci in mezzo, il favorire il
dialogo, permettere a queste persone di sfogarsi sia una cosa concreta,
evidente, ma da queste parti non possiamo essere quello che siamo stati nei
Balcani o in Messico. Qui, forse, dobbiamo fare qualcosa di "concreto" per
avere la scusa di vivere in mezzo a questa gente. Vediamo che le donne
lavano i panni a mano e pensiamo ad un'idea quasi stupida che, però,
potrebbe farci entrare in rapporto con i profughi: comprare una lavatrice e
lavare i panni per loro. Abbiamo parliamo con la responsabile di un
associazione locale la quale ancora non capisce perché vogliamo tanto andare
a stare in mezzo alla gente e continua a parlarci di aiuti materiali. Io
penso che vivendo in mezzo ai poveri cercando di vivere come loro vivono la
lettura dei loro bisogni sarà piu' chiara e l'aiuto che ne deriverà,
concreto o no, sarà piu' mirato. Questa mia convizione cresciuta con la mia
esperienza balcanica fatta di condivisione e di osservazione delle grandi
macchine umanitarie da queste parti sembra di difficile applicazione. Forse
per fare quello per cui siamo venuti fin qui dobbiamo metterci una maschera,
almeno all'inizio, o forse dobbiamo andare a testa bassa, passo dopo passo,
con umiltà e capacità di recepire una mentalità che é diametralmente opposta
alla nostra. Di due giorni passati in quella baracca mi porto a casa i
sorrisi di queste persone all'udire il nostro russo ancora stentato, la
grande ospitalità che ci ha fatto sentire in imbarazzo. Come sempre i volti
e le voci di queste persone si scolpiscono nella memoria ma questa volta,
come mi era accaduto in Inguscetia, la frustrazione é maggiore. Capiamo l'
importanza di stare in questa zona, anche se sembra un posto tranquillo, il
conflitto é vicino, oltre alla presenza dei profughi, una settimana dopo la
nostra visita sono scoppiate tre auto bomba nella regione provocando trenta
morti e circa un centinaio di feriti. Non riusciamo ancora a trovare il modo
di aiutare e di stare con questa gente. Ora siamo momentaneamente tornati in
Italia alle nostre comode case ai nostri supermercati luccicanti ma il
nostro pensiero torna a quelle baracche, a quelle tende e a quei vagoni dove
non ricordo più se vivono russi o ceceni quello che ricordo chiaramente che
là vivono le vittime di una guerra ingiusta e questo non ci deve dar pace,
ci deve impegnare per cercare di essere in mezzo ai poveri delle guerre per
essere una presenza piccola ma che sia capace di fare le piccole cose che
cambiano il mondo.