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Il supporto delle basi italiane alle guerre Usa



Il supporto delle basi italiane alle guerre Usa

di Elettra Deiana

In anteprima da "Guerre & Pace" di settembre, un articolo sul ruolo del
territorio italiano nelle prossime guerre degli Stati uniti e nelle
strategie dell'amministrazione Bush. Uno spazio sottratto alla sovranità
nazionale con la complicità del governo Berlusconi, ma anche di quelli che
l'hanno preceduto.

da http://www.nuovimondimedia.it - Fonte Guerre & Pace

Il territorio italiano, ai tempi della guerra fredda e secondo il
dispositivo strategico-militare messo a punto dall’Alleanza atlantica,
avrebbe dovuto fungere soprattutto da punto di forza per ritardare l’
avanzata di un’eventuale offensiva sovietica. Oggi invece è diventato una
vera e propria nicchia d’eccellenza, una risorsa bellica di primaria
importanza, indispensabile nei e per i nuovi scenari di guerra che nel mondo
si sono aperti dopo l’11 settembre e che richiedono per la Casa bianca in
armi un invasivo e articolato controllo del territorio planetario.

LA PORTAEREI ITALIA
Ovviamente una tale importanza non è una scoperta delle ultime ore né si è
resa evidente esclusivamente in ragione della strategia della lotta al
terrorismo e agli “Stati canaglia” così cara a Gorge W. Bush junior. Che il
nostro paese costituisca con tutta evidenza una vera e propria portaerei
protesa nel Mediterraneo quanto mai idonea ai nuovi scenari bellici è stato
dimostrato efficacemente, in tempi assai recenti, dalla guerra della Nato
contro la Serbia. Guerra, questa, in cui si è manifestata e saggiata la
strategia statunitense tesa a ridimensionare e depotenziare il ruolo dell’
Onu e quindi quanto mai connessa a quella contro l’Iraq, nonostante le
apparenti differenze su cui insiste, infelicemente ma non a caso, una parte
importante del centro-sinistra che quella guerra sostenne e fece sua. Va
sottolineato per altro che proprio sulla qualità del ridimensionamento dell’
Onu si misura anche la limitata qualità della differenza tra gli
schieramenti politici che si contendono la leadership negli Usa: i
democratici volendo salvaguardare nei rapporti internazionali una finzione o
un velame di legalità, i neoconservatori essendo invece dichiaratamente
propensi a sbarazzarsi dei “lacci e lacciuoli” del diritto internazionale,
come la vicenda irachena sta a dimostrare in maniera emblematica oltre che
esemplare.

LA GUERRA NEI BALCANI
La guerra nei Balcani dimostra anche in quale direzione si muovano oggi le
coordinate geostrategiche del controllo militare del territorio e quanto l’
Italia sia parte in causa. La guerra nei Balcani è stata possibile in
grandissima misura, come ebbe a confessare l’allora segretario alla Difesa
degli Stati uniti William S. Cohen, proprio grazie ai porti e alle basi
italiane. Basti pensare che in quei giorni dannati un numero spropositato di
missioni aeree - ben 37.000 - furono possibili grazie alla 12 basi messe a
disposizione dall’allora governo di centro-sinistra. E a disposizione fu
messo veramente tutto, innanzitutto i porti per le oltre venti navi alleate
impegnate nelle operazioni di guerra. Non diversamente da come è successo
per la guerra preventiva contro l’Iraq. Soltanto che in quest’ultimo caso la
messa a disposizione non è passata per l’intermediazione bellica dell’
Alleanza atlantica, divisa, come sappiamo, al suo interno. Ha funzionato
invece la diretta concessione di favori operata dal governo italiano nei
confronti dell’amico americano.

LE BASI E L’ONU
Se dal punto di vista del costituzionale ripudio della guerra, dei vincoli
imposti dalla Carta delle Nazioni unite, della salvaguardia del ruolo dell’
Onu, del principio irrinunciabile della convivenza pacifica e del primato
insostituibile degli strumenti della diplomazia per risolvere i conflitti
tra i popoli e anche, last but not least, delle intenzioni statunitensi,
occorre mettere ben in risalto come tra tutte le guerre avvicendatesi nella
fase successiva alla caduta dell’impero sovietico gli elementi di contiguità
siano assai numerosi, tuttavia non si possono sottacere gli elementi di
differenza che sono intervenuti con la guerra in Iraq. Essi riguardano
infatti proprio il punto nodale della rimappatura e ridefinizione degli
assetti di potere su scala internazionale, al livello del potere decisionale
e dell’autorità morale e giuridica atta a legittimare la guerra. Per quello
che riguarda l’Italia c’è a questo proposito un intreccio di problematiche
quanto mai complesse che ruotano intorno alle nuove strategie e tecniche
militari degli Usa da una parte, alle affinità politiche tra l’
amministrazione Bush e il governo Berlusconi dall’altra.

LE NUOVE STRATEGIE USA
Molto è stato scritto dagli esperti di cose militari - e qualcosa si è anche
potuto verificare empiricamente, seguendo attraverso i media la guerra
anglo-statunitense contro l’Iraq - circa il cambiamento di strategia bellica
degli Stati uniti. Si è parlato di radicale innovazione e da molte parti,
compresi alcuni settori non irrilevanti delle gerarchie militari
statunitensi, è stato contemporaneamente sottolineato l’alto rischio che una
simile innovazione comporterebbe. Le armate Usa si alleggeriscono, diventano
agili e flessibili, attraversano fulmineamente il territorio predestinato
senza il carico di retroguardie ingombranti, senza l’eccesso di mezzi
pesanti. Occupano velocemente alcuni punti strategici del territorio nemico
ma senza avere avuto il tempo - per scelta - di consolidare la presenza e il
controllo sui punti di avanzata, sulle zone attraversate. Il dopo guerra in
Iraq è, da questo punto di vista, esemplare ma la guerra lampo del generale
Franks - questo il rischio paventato dai generali del Pentagono più legati
alla tradizione - si è trasformata in un’occupazione di trincea di lunga
durata in un territorio sconosciuto che con grande difficoltà si può tenere
tutto sotto controllo e che diventa ogni giorno più ostile all’occupazione
straniera.

L’ESPERIENZA IRACHENA
Salta all’occhio allora la differenza tra la fatale prima guerra nel Golfo,
quella denominata Desert Storm, e l’attuale: la prima costruita su un
compatto e massiccio schieramento di forze convenzionali, approntato nei
lunghi mesi che precedettero la scatenamento della guerra; la seconda basata
sulla drastica riduzione dei mezzi pesanti, sulla velocità dell’azione e la
virulenza della martellante aggressione aerea. Spariscono per questo, nel
nuovo contesto, le grandi unità complesse, cioè i comandi di corpi d’armata,
ridotti a due nella seconda guerra contro l’Iraq a fronte dei cinque della
prima, mentre predomina a dismisura la dimensione tecnologica e si afferma
la capacità di sorvegliare elettronicamente il campo di battaglia, di
stanare fin nei minimi dettagli le mosse del nemico. Il modello di warfare
tradizionale, fondato sulla potenza di ferro e fuoco, è diventato in altri
termini obsoleto anche se, a ben guardare, del paese aggredito, nella
fattispecie l’Iraq, tutto si può dire men che non sia stato martellato e
perforato dal ferro e dal fuoco. E anche si può dire che l’occhio
elettronico tanto vantato dai nuovi strateghi del Pentagono è potente fino a
un certo punto, in grado di esercitare un controllo più virtuale che reale
quando entrano in gioco strategie ravvicinate di guerriglia o forme di
resistenza molecolari a piccolo raggio. Nello stesso tempo, mentre
rimodellano modi, tattiche, tecnologie militari, gli Usa ridefiniscono anche
i profili strategici delle alleanze. Ma forse sarà meglio dire che, nella
nuova stagione dell’unilateralismo a oltranza, della guerra preventiva e
dello smantellamento delle regole e delle istituzioni internazionali, gli
Stati uniti soprattutto saggiano l’affidabilità, l’utilità, l’
indispensabilità delle alleanze, secondo quella strategia a geometria
variabile inaugurata con Enduring Freedom, che rimane la madre di tutte le
nuove guerre globali nonché il laboratorio della nuova concezione militare e
bellica del Pentagono.

IL “CHERRY PICKING”
John Hulsman, analista della Heritage Foundation, ha illustrato le
caratteristiche salienti di una tale strategia in termini di trionfo del
“cherry picking” - letteralmente scelta delle ciliegie - ossia dell’abilità
statunitense di saper cogliere oculatamente le opportunità e le risorse che
il mondo offre alle sue imprese militari e alle concezioni teoriche che le
sorreggono. Le risorse, spiega sempre Hulsman, possono essere le più
diverse - una brigata britannica, una firma polacca, una coalizione di
volenterosi, una concessione di attraversamento del territorio amico per
arrivare in quello nemico - ma hanno tutte in comune la finalità di
costruire la strumentazione necessaria a portare a buon fine l’impresa. Il
controllo del territorio, in misura estensiva e nei modi più articolati
possibile, fa ovviamente parte di tutto questo, anzi forse ne costituisce un
punto di prima e primaria importanza. Per questo l’Italia, per la sua
collocazione geografica, la sua strumentazione tecnologico-militare, le sue
basi disseminate in punti nevralgici, costituisce magna pars di quel
patrimonio di risorse sul territorio su cui gli Stati uniti vogliono oggi
esercitare il più assoluto controllo, liberandosi dei lacci e laccioli che
ostacolano la loro strategia e la loro libertà di azione. Il ventilato
spostamento di alcune basi della Nato o il loro depotenziamento, comprese
alcune italiane, a vantaggio di quelle installate o da installare nei paesi
dell’Europa orientale, di recente acquisizione all’Alleanza - in primis la
Polonia - da zone dell’Europa fino a ieri ritenute di fondamentale e
primaria importanza, costituisce oggi un asse di questa strategia americana,
la conferma di un disegno di audace e spietata riarticolazione degli
strumenti militari e politici del dominio imperiale a stelle e strisce.

GUERRA PERMANENTE
L’esperto di questioni strategiche Alain Joxe lo chiama “impero del caos”,
individuando nella guerra permanente, nella conseguente disarticolazione
delle strutture statali e dei distretti territoriali, nella cancellazione
del diritto internazionale la chiave di volta del nuovo ordine mondiale in
costruzione. Le basi Usa in Italia, soprattutto quelle più importanti, come
Aviano e Sigonella, sono in via di espansione e consolidamento anche
attraverso grossi finanziamenti statunitensi. Non è un caso, ovviamente che
questo avvenga mentre si dislocano altrove quelle della Nato: perché il
territorio italiano ha l’importanza che ha per il diretto controllo
statunitense e perché il governo Berlusconi offre le coperture e le
complicità che sappiamo. Sarà allora il caso di aprire un capitolo nuovo in
tutta questa storia, specificamente dedicato proprio alla basi a stelle e
strisce. Queste ultime sono rese legittime, in sede storico-giuridica, dall’
esistenza del Trattato dell’Alleanza atlantica del 1949 e dalla conformità
del trattato, attraverso gli articoli 5 e 6, alla Carta delle Nazioni unite.
Tali articoli definiscono da una parte la legittimità del ricorso all’uso
delle forza esclusivamente a scopi difensivi, dall’altra la necessità dell’
autorizzazione per questo delle Nazioni unite. Il trattato garantisce anche
la legittimità di accordi bilaterali tra stati membri dell’Alleanza, il cui
ruolo, in linea di principio, dovrebbe essere quello di assolvere i compiti
inerenti alle finalità dell’Alleanza. In realtà le cose non sono andate
proprio così: basti pensare alle basi navali di Gaeta e Napoli e all’
ospitalità qui fornita alla VI Flotta americana, impiegata in Mediterraneo
per fini connessi alle particolari strategie degli Usa. Oggi queste
strategie, come abbiamo visto, sono in netta rottura e aperta rotta di
collisione con regole, equilibri, convenienze in qualche modo garantite fino
a ieri dall’esistenza delle Nazioni unite. Inoltre l’accordo bilaterale tra
l’Italia e gli Usa, del 1954, che ha reso possibile l’installazione e la
proliferazione di basi Usa nel nostro paese, è ancora spudoratamente
“secretato” - anomalia tutta italiana - così come “riservati” sono i
protocolli aggiuntivi di cui è costellata la storia degli accordi bilaterali
dell’Italia con gli Usa.

CHI CONTROLLA GLI ACCORDI?
In un contesto di relazioni internazionali così radicalmente in cambiamento,
al punto che la stessa Nato è attraversata da tensioni e malumori fino a
ieri impensabili nel rapporto tra gli stati membri, in mano di chi deve
essere l’interpretazione e l’applicazione degli accordi bilaterali tra
Italia e Stati uniti? E, soprattutto, in che direzione deve andare tale
interpretazione? Non c’è forse un gravissimo vacuum legis che sottrae al
controllo democratico del parlamento e delle istituzioni locali le scelte
che vengono fatte in relazione all’utilizzazione delle basistatunitensi?
Siamo ormai nell’epoca della guerra globale che agli strumenti dello stesso
diritto bellico moderno, delle convenzioni e dei trattati tra gli stati
sostituisce la logica della faida e della fedeltà tra amici, cioè la
privatizzazione delle regole di guerra. Bush, Blair, Berlusconi, Aznar
insegnano. Rimettere in discussione gli accordi bilaterali con gli Stati
uniti significa mettere sotto accusa e sotto critica la guerra preventiva
anche da questo fondamentale punto di vista, oltre che da tutti quelli che
già hanno circolazione nel grande movimento pacifista del nostro paese.