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Intervista a prof. Tanya Reinhart



Intervista  a prof. Tanya Reinhart, autore di "Israel/Palestine, how to end
the war of 1948. Editore Seven Stories, USA", docente all'universita' di
Tel Aviv e di Utrecht. reinhart@post.tau.ac.il - reinhart@let.uu.nl
Ringraziamo  Alessandra Fava per la traduzione.

L'intervista è stata pubblicata su Znet a 8.11.2002

La versione originale: Colorado Campaign for Middle East Peace
http://www.ccmep.org/2002_articles/Israel-Palestine/110802_interview_with_tanya_reinhart.htm




Può spiegarci di che cosa parla il suo libro "Israele- Palestina come
terminare la guerra del '48"?

Israele, con l'appoggio dei principali media occidentali, definisce la
guerra contro i palestinesi come guerra difensiva, una risposta necessaria
al terrorismo palestinese, una nobile presa di posizione nella guerra
globale contro il terrorismo. E' incredibile oggi, dopo due anni di
distruzione della società palestinese, che sia conosciuto così poco di come
la guerra si è sviluppata e quale ruolo abbia Israele. Il libro cerca di
far luce su questo. Il libro segue la politica israeliana da quando Barak
divenne primo ministro sino all'estate del 2002, il periodo peggiore della
storia di Israele. Prendendo informazioni dai media israeliani ci
accorgiamo come si siano prese le distanze dai concetti di Oslo già dal
'93. E' difficile ora dimostrare il come, ne parla ampiamente il libro, ma
faccio un esempio. Dal '67 quando è iniziata l'occupazione dei territori
palestinesi, il primo pensiero dell'esercito israeliano e dell'élite
politica è stato come avere il massimo di terra e acqua con il minimo di
popolazione palestinese. La soluzione di annettere semplicemente la terra
popolata dai palestinesi avrebbe creato problemi demografici, paura che la
maggioranza degli ebrei trova insostenibile.

Così il piano Alon del partito laburista proponeva l'annessione del 35-40
per cento dei territori con un ruolo anche della Giordania o qualche forma
di autonomia per il resto del paese, dove sarebbero stati confinati i
palestinesi. Questo sembrava un compromesso necessario. Sembrava allora
inconcepibile ripetere la soluzione della guerra di Indipendenza del '48,
quando la terra fu liberata dagli arabi con espulsioni di massa. La seconda
soluzione, caldeggiata da Sharon, voleva di più. E così trovò una soluzione
complessa e appetibile, cioè mandare altrove i palestinesi, in una
Giordania palestinese. E siamo negli anni '80.

Nel '93 a Oslo, sembrava che il piano Alon avesse la meglio. E questo
successe anche grazie alla cooperazione di Arafat. In passato i palestinesi
si erano opposti anche al piano Alon che toglieva loro grande parte delle
terre. Ma nel '93 Arafat stava perdendo il polso della società palestinese,
era criticato da più parti per il suo personalismo e per la corruzione
della sua organizzazioni. Allora sembrava che solo una vittoria incredibile
avrebbe potuto tenerlo al potere. Così alle spalle del gruppo palestinese
di negoziatori con a capo Haider Abd al-Shafi, Arafat accettò l'accordo che
lasciava tutte le colonie israeliane intatte persino nella Striscia di
Gaza, dove 6 mila coloni occupano un terzo delle terre, mentre un milione
di palestinesi affollano il resto. Intanto, Israele aveva esteso le zone
"disarabizzate" al 50 per cento dei territori palestinesi. Così i laburisti
cominciarono a parlare di Alon Plus, come più terra a Israele.

Tuttavia, sembrava che permettessero che il restante 50 per cento potesse
restare sotto il controllo palestinese, seppure in condizioni simili ai
bantustan del Sud Africa. Alla vigilia degli accordi di Oslo, la maggior
parte degli israeliani, erano stanchi di guerre. Ai loro occhi, le lotte
per la terra e le risorse erano finite. Perseguitati dalla memoria
dell'Olocausto, la maggior parte riteneva che la guerra del '48 per
l'indipendenza, con le terribili conseguenze sui palestinesi, fosse stato
il modo per ottenere uno stato per gli ebrei.  Ma ora che lo avevano,
volevano solo vivere in pace sulla terra posseduta. Come la maggior parte
dei palestinesi, anche la maggioranza degli israeliani si illuse che quello
di cui erano testimoni erano accordi di passaggio e che un giorno
l'occupazione sarebbe finita e le colonie smantellate. Così due terzi degli
israeliani, secondo i sondaggi, appoggiarono l'accordo di Oslo. Era chiaro
che la maggioranza non avrebbe appoggiato nuove guerre per la terra o le
risorse. Ma l'ideologia della guerra per la terra non è mai morta
nell'esercito e nei circoli militari che influenzano la politica, quelle
carriere che dall'esercito passano alla politica. Dalla partenza del
processo di Oslo, i massimalisti non volevano dare più terra o diritti ai
palestinesi. Questo fu evidente soprattutto negli ambienti militari, il cui
portavoce era Ehud Barak, che si oppose a Oslo da subito. E così Ariel
Sharon. Nel '99, l'esercito tornò al potere con generali passati alla
politica - Barak per primo, e Sharon (il mio libro parla anche della lunga
storia della loro collaborazione). Così si apriva la strada per correggere
quelli che consideravano gli errori di Oslo. Ai loro occhi, l'alternativa
dello scontro per eliminare i palestinesi e imporre un nuovo ordine nella
regione era fallito in Libano nel '82 solo per la debolezza della "viziata
società israeliana". Ma ora con la nuova filosofia della guerra costruita
dall'esercito Usa con le operazioni in Iraq, Kossovo e Afganistan, i
generali prestati alla politica pensavano che con la superiorità evidente
dell'aviazione israeliana, si poteva ribaltare il passato. Per ottenere
questo, era necessario convincere la "viziata società israeliana" che i
palestinesi non vogliono vivere in pace e che stanno minacciando
l'esistenza di Israele. Sharon da solo forse non ce l'avrebbe fatta, ma
Barak ci riuscì con la storia dell'"offerta generosa".

Ad oggi, è stato scritto molto sulla non-offerta di Barak a Camp David.
Tuttavia, un attento esame delle informazioni dei media israeliani rivela
molto  sulla costruzione della frode e un capitolo del libro è dedicato ai
dettagli. Molti mesi prima, Barak aveva fatto lo stesso con la Siria,
facendo credere al mondo che Israele era pronto a ritirarsi dai territori
del Golan. Nei sondaggi, il 60 per cento degli israeliani era felice di
andarsene dal Golan. Ma alla fine è andata come con i negoziati con i
palestinesi. Gli israeliani furono convinti che Asad rifiutasse gli
accordi, non volesse avere indietro i suoi territori e fare la pace con
Israele. Da allora la possibilità di una guerra con la Siria diventava
reale. Gli ambienti militari spiegavano apertamente che gli Hezbollah,
Siria e Iran cercavano di tendere una trappola a Israele e che quindi
Israele doveva trovarne una in cui far cadere i nemici. Le circostanze
giuste si sarebbero creato alla fine della guerra americana contro l'Iraq".
(Amir Oren, Ha'aretz, July 9, 2002).

Il 28 settembre del 2000, Sharon con l'appoggio di Barak, buttò benzina
sulla frustrazione accumulata nella società palestinese con la passeggiata
provocatoria al tempio della Montagna, Haram al-Sharif. Le guardie del
corpo che lo seguivano numerose colpirono ripetutamente con proiettili di
gomma i dimostranti disarmati. Così il giorno dopo la protesta crebbe e
Barak ordinò all'esercito di invadere con i carri armati alcune zone
palestinesi densamente popolate. Se la reazione israeliana fosse stata più
contenuta anche i Palestinesi avrebbero limitato la protesta. Anche davanti
a una resistenza armata, la reazione d'Israele è stata del tutto
sproporzionata come ha sottolineato anche l'Onu che ha condannato Israele
per "uso eccessivo della forza" il 26 ottobre del 2000. Israele definisce
l'azione militare come una difesa necessaria contro il terrorismo. Ma nei
fatti il primo attacco terroristico palestinese a civili israeliani
all'interno di Israele è avvenuto il 2 novembre del 2000. Insomma dopo un
mese intero durante il quale Israele ha usato tutto il suo arsenale contro
i civili, compresi proiettili, fucili automatici, elicotteri da
combattimento, carri armati e missili. E' stupefacente come la tattica
militare condotta da Israele nei mesi seguenti è stata concepita
all'inizio, nell'ottobre del 2000, compresa la distruzione delle
infrastrutture palestinesi (il piano "Field of Thorns"). La strategia
politica che tentava di discreditare Arafat e l'autorità palestinese era
pronta sin dall'inizio. Barak e il suo entourage prepararono un manoscritto
chiamato come Libro bianco che annunciava che Arafat non aveva mai
abbandonato l'opzione della violenza. Insomma un tema propagandistico che
lega queste circostanze a quelle della guerra del '48. Il generale Moshe
Ya'alon, allora vice capo dello staff (ora capo) spiegò che "questa era la
campagna più critica nei confronti dei palestinesi inclusa la popolazione
araba di Israele dalla guerra del '48", anzi per lui, "in effetti, era la
seconda fase della guerra del '48". (Amir Oren, Ha'aretz, November 17,
2000).

Dopo due anni di brutale oppressione israeliana dei palestinesi, è
difficile non concludere che l'esercito e la cerchia politica abbiano
concluso che la seconda metà - la pulizia etnica iniziata nel '48 - è
necessaria e possibile. Il secondo scopo del libro è sottolineare che,
nonostante gli orrori di questi due anni, c'è un'alternativa per terminare
la guerra del '48 ed è la strada della pace e di
una vera riconciliazione. E' incredibile quanto sarebbe semplice e facile
raggiungerla. Basterebbe che Israele si ritirasse dai territori occupati
nel '67. La maggior parte dei coloni (150 mila di essi) sono concentrati in
grandi colonie nel centro del West Bank. Questa area non si può lasciare in
quattro e quattr'otto. Ma il resto della terra (il 90 -96 per cento della
Cisgiordania e la striscia di Gaza) possono essere abbandonate subito.
Molti coloni che vivono in zone isolate dicono apertamente ai media
israeliani che se ne vogliono andare. E' solo necessario offrire loro una
compensazione adeguata per le proprietà che lasciano. Il resto - i fanatici
della terra promessa - sono una minoranza ridotta che dovrà accettare le
scelte della maggioranza. Il ritiro immediato lascerebbe da discutere che
fare del 6-10 per cento della Cisgiordania, quella con le colonie più
numerose, come risolvere la questione di Gerusalemme e il diritto al
ritorno. Su questi punti, servono negoziati di pace.

E intanto durante i negoziati, la società palestinese potrebbe
ricominciare, insediarsi nelle terre lasciate dagli israeliani, costruire
delle istituzioni democratiche e sviluppare un'economia basata con liberi
contatti con chi prescelgono. Con queste premesse, sarà allora possibile
stabilire quale sia la strada giusta per costruire insieme il futuro di due
popoli che dividono la stessa terra. In Israele, la proposta del ritiro
immediato ha avuto simpatizzanti come Amy Ayalon (ex capo del servizio di
sicurezza) che ne ha parlato apertamente, e nel febbraio del 2002 anche il
Consiglio per la pace e la sicurezza che ha mille membri ha appoggiato
l'idea. A giudicare dai sondaggi, il piano ha il supporto del 60 per cento
degli ebrei israeliani. E non stupisce, perché a partire dal '93
altrettanti hanno appoggiato l'abbandono delle colonie. In una sondaggio
Dahaf del 6 maggio del 2002, commissionato da Peace Now, il 59 per cento
propendeva per il ritiro unilaterale dell'esercito israeliani dalla maggior
parte dei territori occupati e l'abbandono della maggior parte delle
colonie. Pensano che questo possa dare fiato al processo di pace. Questa
maggioranza non rappresenta tutto il mondo politico, ma esiste.

Può spiegare come si scrive un libro? Da dove arrivano i contenuti? Come si
è costruito quello che leggiamo adesso?

Ho cominciato a scrivere il libro durante il primo mese di Intifada.
All'inizio era un fondo del giornale israeliano Yediot Aharonont, con
articoli più lunghi su Znet e Indymedia Israele che seguivano gli eventi
giorno per giorno. Ma poi ho esteso a tutto il periodo. La prima parte era
pronta nel febbraio del 2002. Ed è apparsa in francesi come "Distruggere la
Palestina o come terminare la guerra del '48" (France: La Fabrique, 2002).
La versione in inglese invece arriva all'estate 2002 quando Israele ha
iniziato la nuova e più crudele fase della distruzione della Palestina, con
l'operazione "Scudo di difesa" e gli orrori del campo dei Jenin. La mia
fonte sono per lo più i media israeliani. Sui giornali si trova molto di
più che nei reportage fatti dagli stranieri. A volte si sente dire che
questo significa che i media israeliani sono più liberali e critici che nei
paesi occidentali. Ma questa non è la spiegazione giusta. Con l'eccezione
di giornalisti coraggiosi e coerenti come Amira Hass Gideon Levi e pochi
altri, la stampa israeliana è sottomessa come altrove e riporta fedelmente
le veline dell'esercito o del governo. Ma quel che ci dà la notizia è la
mancanza di inibizioni. Opinioni che altrove sarebbero considerate
oltraggiose, sono all'ordine del giorno. Per esempio il 12 aprile dopo le
atrocità del campo di Jenin, Ha'aretz innocentemente ha scritto che fonti
militare avrebbero riferito al giornale: "L'esercito vuole seppellire oggi
i palestinesi uccisi nella Cisgiordania". La fonte disse che "due compagnie
sarebbero entrate subito per raccogliere i corpi. Quelli identificati come
civili sarebbero stati portati all'ospedale di Jenin e quindi nelle fosse,
mentre quelli identificati come terroristi sarebbero stati seppelliti in
una cimitero nella valle del
Giordano".Apparentemente, nessun israeliano si è preoccupato delle leggi
internazionali sui crimini di guerra o le fossi comuni. La tv israeliana
mostrò la notte prima, i camion con refrigeratori che aspettavano fuori
Jenin per trasferire i corpi nel cimitero dei terroristi. E' stato solo
dopo che l'attenzione internazionale si è concentrata su Jenin che le
informazioni sono state manipolate e reinterpretate con scuse assurde
negando che fosse successo alcunché.  Più tardi Ze'ev  Schiff, firma di
Ha'aretz, ha così commentato l'accaduto: "Verso la fine della battaglia,
l'esercito ha mandato tre grossi camion con celle frigorifere in città. I
riservisti hanno deciso di dormire lì per stare al fresco e così i
palestinesi hanno visto dozzine di corpi nei camion ed è circolata la voce
che i camion fossero pieni di morti". (Ha'aretz, 17 luglio, 2002).



Quale spera possa essere il contributo del suo libro?

Con l'aria che tira negli Stati Uniti e in Europa, chiunque osi criticare
Israele viene subito tacciato di
antisemitismo. Una delle ragione per cui la lobby israeliana ed ebrea ha
avuto così successo nell'accusare i palestinesi, è la mancanza totale di
conoscenza circa quello che è successo realmente. Senza i fatti, la vulgata
rimane che Israele combatte per esistere ancora. L'attenzione va solo al
terrorismo orribile e deprecabile dei palestinesi, così chiunque critica
Israele viene accusato anche di giustificare il terrorismo. Io spero di
dare ai miei lettori una relazione precisa dei fatti in modo da avere
risposte a questa accusa. La seconda speranza è di ridare speranza. Una
soluzione razionale e giusta è ancora possibile. La gente ha trovato il
modo in passato di passare da una storia di stragi alla coesistenza
pacifica. L'Europa è un esempio. Dopo due anni di orrori, la maggioranza
degli israeliani come dei palestinesi, spera di aprire una nuova pagina.
Mostro questo nel mio libro e concludo il libro con la storia degli
attivisti israeliani e palestinesi che si battono per l'unico futuro
possibile, quello basato sui valori umani. Tocca ora al mondo intervenire
per dare speranza e per fermare la giunta militare israeliana che non
rappresenta la maggioranza degli israeliani. Infine, forse è questa la
parte più importante, cerco di dare un'idea della tragedia palestinese
facendo parte dei privilegiati, gli oppressori. Con gli americani che
coprono le spalle e il silenzio degli occidentali, c'è il serio pericolo
che questo sia solo l'inizio e che col paravento della guerra in Iraq, il
popolo palestinese si trovi davanti a un aut aut: l'annullamento o un
secondo esilio. La descrizione dell'Afganistan di Arundhati Roy sembra
riprendere la situazione palestinese: "guarda la giustizia infinita di
questo secolo. I civili stanno morendo di fame aspettando di essere
uccisi". La mia più grande speranza e il mio appello è: salvate i
palestinesi! Fermate Israele! Deve essere una parte della lotta contro la
guerra americana all'Iraq. Se i governi del mondo non lo faranno, io spero
che lo facciano i popoli.

A cura di InfoPalestina