Siria, la parola agli osservatori - Il Sole 24 ORE



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Siria, la parola agli osservatori

Il Governo siriano ha accusato al-Qaida per la strage di Damasco del 23 dicembre - 44 morti nell'esplosione di due autobomba - l'opposizione afferma che è il regime stesso a orchestrare i massacri. Quando in un Paese si affaccia la domanda «chi uccide chi», come accadde in Algeria durante gli anni '90 nello scontro tra forze di sicurezza e islamici, allora significa che questo Paese sta vivendo la fase più critica. Sono interrogativi che di solito restano senza una risposta certa mentre nella popolazione si insinua lo smarrimento e la paura: o si torna indietro o si precipita nel caos e nella guerra civile.
Ma per tornare indietro non basta certo la delegazione della Lega araba, 50 osservatori guidati dal generale sudanese Mustafa Dabi, arrivati ieri in Siria mentre a Homs si contavano nei bombardamenti almeno una ventina di morti, da aggiungere alle 5mila vittime dall'inizio della rivolta. Il regime dovrebbe trattare con l'opposizione, un fronte molto variegato: si va dalla resistenza locale delle città del Nord al Consiglio nazionale ospitato a Istanbul, all'Esercito di liberazione ai confini con la Turchia che afferma di contare su 15mila disertori.
E negoziare non basta: il presidente Bashar Assad, la cui sopravvivenza è in mano ai generali delle forze speciali, dovrebbe imboccare la strada delle riforme che ha sempre promesso e non ha mai neppure cominciato. Se Bashar decidesse di accettare davvero il piano di pace arabo sarebbe costretto a ritirare le forze armate dalle città assediate e liberare migliaia di prigionieri. Per il momento non sembra uno scenario credibile: il regime non intende regalare questi centri all'opposizione e ha già rinchiuso i prigionieri nelle basi militari dove gli osservatori non sono autorizzati a entrare.
Si sta definendo anche lo schieramento internazionale di questa crisi siriana che si configura come una guerra di logoramento. Il regime, che perde 400milioni di dollari al mese per l'embargo petrolifero ed è in gravi difficoltà, ha ottenuto finanziamenti da Iran, Iraq e Venezuela, la Russia cerca di convincere Assad a cedere il comando al vice, Faruk al-Shaara, per evitare che si ripeta un'altra Libia. Ma nel manuale del dittatore il passaggio di poteri è un'ipotesi remota almeno fino a quando può contare sulla fedeltà degli ufficiali alauiti e di una cerchia di potere, circa 4mila persone, che tengono ancora in pugno la situazione.
L'impressione è che questo sia un regime irriformabile, come lo era quello di Saddam Hussein. Tutti lo sanno, anche le potenze straniere e i gruppi del terrore che adesso puntano alla destabilizzazione. E la Siria di Assad somiglia sempre di più al confinante Iraq dopo il ritiro degli americani: il campo di battaglia di un conflitto che è appena cominciato.