Un Marx contemporaneo



Roberto Saviano ha recentemente scritto (Repubblica, 4 luglio 2010) che leggere Varlam Salamov gli ha cambiato la vita. Penso che ognuno di noi abbia vissuto l'esperienza della lettura di autori che gli hanno stimolato una svolta intellettuale e morale. Anche a me è capitata una cosa simile leggendo da ragazzotto Murray Bookchin.

Sono riuscito finalmente a procurarmi la ristampa, fresca fresca per i tipi di Eleuthera, de "L'ecologia della libertà", il libro del pensatore statunitense (1921-2006) che lessi e studiai in carcere nel 1982 (ai tempi della "battaglia di Comiso") e che mi fulminò per la profondità della visione culturale, storica e strategica.

L'"anarchico" Bookchin era riuscito a porre con logica stringente la necessità del legame indissolubile tra impegno per la giustizia sociale (l'eguaglianza antigerarchica) e attivismo ecologico per garantirsi il diritto all'ambiente ed alla pace.

Non era scontato, allora, che qualcuno affermasse che il problema ecologico è in realtà un problema non tecnico ma sociale; ed - a pensarci bene - anche adesso questa idea può, purtroppo, essere considerata abbastanza originale ed eterodossa, in un ambiente politico dove riesce difficile persino conciliare "ambientalismo" e "pacifismo" (come è dimostrato, ad esempio, dal fatto che l'opposizione al nucleare civile è gestita come "altra cosa" rispetto a quella sul nucleare militare).

Per Bookchin esiste una comune e coerente matrice di dominio e di violenza nella società caratterizzata dalle "gerarchie di privilegiati", che opprimono i loro simili allo stesso modo in cui brutalizzano la natura per monopolizzarne le risorse. Ne deriva che tutti coloro che desiderano una società in senso libertario ed ecologico devono combattere la stratificazione sociale gerarchica per abbattere, a monte, il principio stesso della dominazione, del controllo su tutti e su tutto.

Il punto che più mi ha affascinato del libro - la narrazione mi tenne avvinto sul serio - è il tentativo di ricostruzione storico-strutturale dell'origine lontana della gerarchia sociale istituzionalizzata; una parabola evolutiva che - per quanto convincente - è inevitabile che non possa fugare tutti gli aspetti oscuri di questo tragico "Vaso di Pandora" dei nostri mali. Per dirla in breve, secondo Bookchin, il punto di partenza è stata la posizione debole, poco chiara e irrilevante degli anziani nelle prime società organiche. Alleandosi con gli sciamani gli anziani riuscirono a fare in modo che i giovani cacciatori usassero la loro forza e le loro armi per soggiogare gli altri giovani e le altre donne. Questo fu l'inizio della marcia trionfale della crescita delle gerarchie: un popolo soggiogava altri popoli, una classe sociale altre classi, gli esseri uomini sottomettevano le altre creature viventi...

La prima conseguenza pratica di quella lettura, per quanto riguarda i miei atteggiamenti politici, fu una maggiore consapevolezza acquisita della necessità di rifiutare l'"ambientalismo scientifico", parente di quello "tecnocratico", per come lo vedevo tratteggiato ed interpretato soprattutto da una associazione come Legambiente, che consideravo e considero ancora la quintessenza del lobbysmo specialistico finalizzato all'affarismo "verde".

A livello terminologico, sulla scia di Bookchin, ho infatti sempre distinto gli "ambientalisti", caratterizzati da un approccio presunto tecnico ai problemi ecologici, dagli "ecologisti", contraddistinti invece da un modo di porsi, appunto, sociale. L'ecologia sociale, inoltre, mi separava anche dagli "ecologisti profondi", alla maniera di Turi Vaccaro e di molti altri amici ultra-bucolici con cui collaboravo alla Verde Vigna, il campo pacifista che, mediante una sottoscrizione internazionale (il "metro quadro di pace") avevamo acquistato a ridosso della base missilistica di Comiso.

La concezione di Bookchin, che rigetta esplicitamente l'antropocentrismo - il paradigma che vorrebbe l'uomo al centro della natura, padrone e dominatore di tutto - e comunque consapevole dei limiti progettuali e pratici della nostra capacità di determinare l'ambiente che ci circonda, potremmo definirla, con neologismo che testè invento, "antropo-avanguardista". Bookchin, insomma, non vuole dire che l'umanità può e deve prendere da subito il "timone" dell'evoluzione naturale per dirigerla a capriccio: tutto il libro anzi suggerisce la massima prudenza negli interventi perchè, oltretutto, "dobbiamo ricordarci che ancora oggi siamo meno che umani".

"La nostra è tuttora una specie divisa, divisa antagonisticamente per età, genere, classe, reddito, etnia, eccetera, e non una specie unita... Un'umanità "illuminata", giunta a rendersi conto delle sue piene potenzialità è solo una speranza e non certo una realtà esistente, un "dover esssere" e non un "essere". Il problema di attingere la nostra piena umanità è un problema sociale che dipende da fondamentali mutamenti istituzionali e culturali"...

Le trasformazioni di grande portata necessarie in tal senso per Bookchin non possono avvenire attraverso l'apparato statale centralizzato ed in particolare attraverso la lotta politica parlamentare.

La proposta di Bookchin, nel proseguio della sua opera, si è ulteriormente completata, sviluppata e definita, a livello dell'organizzazione politica, come "Municipalismo libertario" (Eleuthera, 1993): l'autogestione di comunità comunali che si confederano dal basso in modo sempre più generale prende come lontano modello le poleis greche, naturalmente espungendone le incrostazioni classiste dell'epoca che limitavano la partecipazione al processo decisionale. E' notevole che il Nostro, mentre - a quanto mi risulta, non vorrei che in proposito la memoria mi ingannasse - non esclude la partecipazione alle elezioni comunali mediante lo strumento di liste civiche, ritiene che questo coinvolgimento vada assolutamente evitato a livelli territoriali più ampi (abbiamo visto la sua avversione per la lotta parlamentare).

Un punto cruciale del discorso di Bookchin che mi sembra assolutamente condivisibile è l'individuazione del soggetto rivoluzionario nel "cittadino", non nel "lavoratore", come da - rigettata - vulgata marxista.

L'individuo sociale pone i bisogni collettivi della comunità al di sopra degli interessi particolaristici che emergono facilmente se si parte dal posto di lavoro. Il posto di lavoro perpetua invece l'esistenza dei soggetti in quanto meri produttori, con interessi specifici conflittuali rispetto a quelli generali, magari in nome della "democrazia operaia", del "controllo operaio" e, spesso, di una forma di "capitalismo collettivo" orientato al mercato.

La presa di distanza di Bookchin è netta nei confronti delle illusioni identitarie da comunità chiuse: il localismo oggi coltivato da certi movimenti basisti , a mio avviso, ci rientra e finirà, alla lunga, per "tirare la volata ai leghisti". Il cittadino di cui si discute è - pensa Bookchin e, modestamente, lo penso anche io - "cittadino del mondo", è l'essere umano che custodisce il territorio in nome e per conto dell'umanità intera, non l'indigeno che rivendica la proprietà esclusiva del suo pezzo di terra nell'ansia di demarcarne il confine invalicabile.

Riassumendo, nella mia auto-formazione di giovane attivista, non semplicemente antimilitarista ma più complessamente "olistico", di cultura ormai libertaria anche se non ideologicamente anarchica, era importante per me superare in avanti il retaggio marxista 68ino e 77ino approdando alla concezione della ecologia sociale, che ricomprendeva la lotta di classe in una più ampia lotta contro il dominio gerarchico e che potevo integrare con la visione nonviolenta della lotta politica.

Gli anni sono passati ed il mio ripudio dell'originario marxismo (a 16 anni "Il Capitale", incoraggiato dalla mia militanza in "Avanguardia Operaia", me lo ero letto e studiato già tre volte!) si è oggi approfondito attraverso la critica del suo meccanismo teorico fondamentale: la teoria dello sviluppo delle forze produttive come motore e senso della storia. L'idea che scienza-tecnica-tecnologia sociale storicamente dispiegatesi possano essere in realtà sviluppo ambiguo di forze distruttive è un risultato recentemente acquisito, nella "Invenzione dell'economia", dalla ricerca di Serge Latouche, il propugnatore della "decrescita", recentemente ribattezzata "acrescita", ma a ben vedere era già contenuta in un altra mia autrice di culto, anch'essa da me molto frequentata nei primi anni '80: Simone Weil.

Questa critica, a ben vedere, la si ritrovava già nelle "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", scritto dalla allora 25enne filosofa francese (una riduttivissima definizione, questa!) nel 1934. La Weil metteva in discussione la "neutralità" e l'"oggettività" delle forze produttive e l'idea che fossero destinate ad accrescersi illimitatamente, rivoluzionando necessariamente i rapporti di produzione. La critica non si limitava superficialmente a bersagliare l'illusione che la soppressione della proprietà privata avrebbe da sola determinato la fine dello sfruttamento e dell'oppressione. Si appuntava più radicalmente sul sogno della automazione universale, frutto dei progressi scientifici e tecnologici, di una energia illimitata e senza costi (oggi, ad esempio, si sogna la fusione nucleare!), che avrebbe abolito la fatica e garantito il superamento di ogni scarsità in una abbondanza smisurata (fatica e scarsità simbolo della condizione del limite e del dolore: il paradiso in Terra). Per Simone Weil il limite insormontabile per questa ipotesi assurda (il robot che, animato da un fuoco inestinguibile, lavora sostituendo in tutto e per tutto il lavoro umano) sta nell'imprevedibilità che inesorabilmente accompagna l'esperienza esistenziale umana (di fronte a ciò, non vi sarà mai un adattamento macchinico realmente efficace). In ogni caso, non solo l'evoluzione dell'automazione all'infinito è un'utopia, ma si dovrebbe comprendere che a livelli tecnici via via più alti corrispondono, ad un certo punto, inconvenienti crescenti rispetto ai vantaggi. Simone Weil paragona il mito, sia "capitalista" che "comunista", del progresso infinito nel rendimento del lavoro e nella produzione dei beni materiali alla (vana) ricerca della "macchina del moto perpetuo", quella in grado di produrre lavoro indefinitamente senza consumarne mai (contrastando con il secondo principio della termodinamica). Eppure, orientandosi su un tale immaginario di onnipotenza sconsiderata hanno sacrificato la vita i rivoluzionari comunisti dando vita al fallimentare esperimento del "socialismo reale"...

Ma, mi dispiace per Bookchin e seguaci, dipendesse da me relegherei anche l'anarchismo, come del resto tutti gli "ismi" dal Settecento al Novecento, negli sgabuzzini della Storia (non escludendo nemmeno certo "nonviolentismo" ideologico).

Non credo infatti antropologicamente possibile, per l'animale umano così "gregario" come si configura oggi - tra 1.000 anni, se siamo fortunati, magari se ne potrà riparlare - una dismissione assoluta della pratica della delega ed una abolizione di ogni gerarchia, distinguendo le differenze prodotte dall'autorità coercitiva rispetto a quelle determinate dall'autorevolezza competente. Ne deriva che sono propenso a reputare realistico - nell'attesa attiva della donna e dell'uomo nuovi di là da venire (e che verranno) - puntare, in un orizzonte storico credibile, su una società ecologica regolata da uno "Stato minimo", che non può nascere solo dalla libera confederazione di entità comunali. Vedo perciò la compresenza di tre forme democratiche, quella diretta, quella partecipativa, quella rappresentativa. Compresenza che può funzionare se si sviluppa al massimo il controllo popolare (garantendo separazione dei poteri e diffusione della leadership a rotazione) e, innanzitutto, si disarticolano ed estinguono i macro-apparati delle burocrazie separate, a partire dai sistemi della difesa armata (ma anche la grande finanza e le imprese multinazionali).

Ovviamente dobbiamo combattere queste tendenze globalizzanti ed insieme di frammentazione specialistica disumanizzante per approdare ad una sempre maggiore autosufficienza dei territori con insediamenti abitativi a dimensione umana: ma si tratta, appunto, di un obiettivo di medio-lungo periodo che occorre raggiungere, non di una "datità" sulla quale possiamo appoggiarci per stabilire oggi un qualsiasi equilibrio.

La mia posizione, insomma è la seguente: bisogna essere utopisti al punto giusto per potere immaginare e perseguire un nuovo possibile, uscendo dalla gabbia di T-I-N-A (There is no alternative). Utopisti con giudizio.

Ma cercare la T-I-T-I-N-A (There is total insecurity - we need alternatives), come cantava Charlot, non signfica additare l'Isola che palesemente non c'é: perchè la gente, che è stupida ma solo fino ad un certo punto, allo stesso modo di come sono stupido io, che scrivo, e lo sei tu, che mi leggi, giustamente manda a quel paese coloro che gli propongono un presente ed un futuro incauto di dissipazione di tempo ed energie; ma sarebbe ancora più preoccupante se fosse abbagliato dallo stesso delirio e li seguisse. L'esperienza storica insegna che in questo caso i conducator donchisciotteschi - spesso rimpiazzati ad un certo punto da imbroglioni che agiscono pro domo loro (i maiali più eguali degli altri) - rinominerebbero "oasi paradisiaca" uno scoglio desertico e lì vi farebbero perire di fame, di sete e di stenti la ciurma credulona, non escludendo il carcere o peggio per i disgraziati che cominciassero a nutrire dubbi e a dissentire...

Alfonso Navarra - obiettore alle spese militari e nucleari

per l'intervento completo - anche se non sgrossato - vedi file allegato



Allegato Rimosso