Re: [MIR-Riconciliazione] Il capo di stato maggiore della Difesa alla Tavola della Pace




Mi sento d'accordo con Alfonso Navarra.
Enrico Peyretti, Torino
 

 
----- Original Message -----
Sent: Tuesday, May 11, 2010 2:08 PM
Subject: [MIR-Riconciliazione] Il capo di stato maggiore della Difesa alla Tavola della Pace

 

L'esercito italiano oggi professa una IDEOLOGIA PACIFISTA ma la cosa seria la dice il generale Mini: prima definivamo un tempo di guerra, oggi viviamo il tempo della guerra. E come Orwell in 1984 la chiamiamo pace.
Flavio Lotti dovrebbe "rimproverare" al generale Caporini le donne e i bambini che arrivano da morti e da feriti nell'ospedale di Emergency. Anzi arrivavano perchè quell'ospedale di testimoni scomodi è stato fatto chiudere nel modo che sappiamo...
L'ideologia pacifista però non è ancora stata adottata dalle potenze leader della coalizazione in Afghanistan che chiamano "guerra" quell'intervento...
Non accettano la nostra ipocrisia di forza armata che sta nella retrovia per reggere il sacco ai massacri altrui (sotto protezione iraniana, finchè dura).
Io non lo vedo Flavio Lotti fare domande scomode con spirito di verità.
Immagino piuttosto una riedizione del 1999, quando il Nostro accolse con tutti gli onori D'Alema - tutti i riflettori mediatici bene accesi - che aveva le mani grondanti di sangue dei bombardamenti "umanitari" su Belgrado fatti per difendere (sic) gli albanesi del Kossovo!
Dialogare è importante, va fatto anche con i militari, ma va fatto - ripeto - su basi di verità. Ed un dialogo serio è come la carità: essa è autentica quando non si fanno risuonare le trombe pubblicitarie dinanzi a sè... 
Auguri a chi va fare da comparsa alla sceneggiata mediatica della Perugia-Assisi.


IL GENERALE E IL PACIFISTA 11/5/10

Il capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Caporini. alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, incontra oggi pomeriggio il direttivo della Tavola della pace, l'associazione più nota tra i pacifisti italiani

da "Lettera 22" - Ritanna Armeni, Emanuele Giordana

Martedi' 11 Maggio 2010 

Che il generale Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore della Difesa, vada nella sede di Libera, l'associazione contro le mafie di Don Ciotti, non è cosa che accada tutti i giorni. Ma c’è un’altra più importante notizia. Ci andrà per incontrare, alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, il direttivo della Tavola della pace, l'associazione più nota tra i pacifisti italiani, quella che organizza da qualche lustro la camminata pacifista forse più nota al mondo. Il diavolo e l'acqua santa? Una provocazione? O semplicemente il segno che i tempi stanno cambiando?
Aver accettato l'invito dei pacifisti italiani, o almeno di una rappresentativa parte di quel mondo, indica che qualcosa è cambiato, che due mondi fino a ieri diversi e antagonisti si annusano e si vogliono conoscere. Quel che ne verrà fuori – se scontro o dialogo – si vedrà.
L'incontro di lunedì è solo un segno dei tempi. Se i pacifisti italiani si interrogano sui militari, è evidente che anche i soldati non sono più quelli di un tempo. Lo rivela l'inchiesta che inizia con questo articolo. 
Tutto è nato da uno zaino. Lo zaino di un soldato in partenza per l’Afghanistan. Lo aveva aperto davanti a noi in aeroporto per tirarne fuori guide, romanzi, saggi sul paese che stava per raggiungere in “missione di pace”. Quello zaino rompeva uno schema e cancellava uno stereotipo. Chi lo portava non era il militare rozzo e incolto che avevamo visto in tanti film di guerra, carne da macello e inconsapevole esecutore di scelte tragiche, inviato in un paese di cui non conosceva nulla. 
E allora sono cominciate le domande . Chi era allora il soldato che andava in guerra nel mondo globalizzato dove i conflitti sono asimmetrici e l’esercito in divisa si scontra con nuovi spesso inafferrabili nemici? Chi era il militare che non deve più difendere i confini nazionali dall'invasore ma - se mai - deve tutelare interessi economici planetari o – stando alle parole degli stessi militari - valori universali, quali pace, convivenza civile, sicurezza globale? E ancora: quanto è diverso il militare di oggi, che sceglie un lavoro cui accede per concorso o riceve una paga cospicua se impiegato all’estero, da chi era costretto alla leva obbligatoria? E – infine - che differenza c’è fra le battaglie di ieri, che per dirla con Fabio Mini definivano un “tempo di guerra”, e quelle di oggi che si svolgono “nel tempo della guerra”?
Se si guarda alle Forze armate italiane le differenze in pochi anni sono diventate talmente profonde che si parla senza reticenze di una rivoluzione. Lunga, silenziosa in gran parte sconosciuta, ma imponente. Lo affermano con una punta di orgoglio generali e soldati. Lo conferma lo stesso Vincenzo Camporini che, pur avendo le doti del grande comunicatore, certamente non ama la retorica. E che ammette; “I cambiamenti dall'89 sono stati tanti che si può parlare di rivoluzione” .
Naturalmente l’affermazione può essere accolta con diffidenza. Le guerre ci sono e, per quanto un esercito possa essere cambiato, ci sono le vittime. Spesso innocenti. Tuttavia il cambiamento, per quanto sicuramente denso di limiti e ambiguità, è evidente. Quel soldato carico di libri e la testa piena di curiosità, che parte “in missione di pace” sia pure in una zona di guerra, ha un volto ed un’ ideologia diversa da quella del passato. E allora, con tutta la prudenza e quella vigile diffidenza che deriva da una cultura antimilitarista e pacifista così largamente diffusa nel mondo e in Italia, vale la pena di indagare quel cambiamento. E per non farsi ingannare dalle sensazioni, cominciare dai dati oggettivi.
Fino al 1989 le Forze armate costituivano una barriera difensiva nel caso di una invasione dell’Armata rossa. La guerra, per quanto fredda, richiedeva un esercito e un nemico. Dopo il 1989 il nemico però scompare e la difesa del suolo patrio non può più essere il collante ideologico delle Forze armate. Era necessario un nuovo ruolo, una nuova ideologia, comportamenti diversi dal passato. Il cambiamento è stato per così dire obbligato dal rivolgimento del mondo. L’esercito del passato è crollato col muro di Berlino. 
In secondo luogo dal 2004 è cambiato l’arruolamento. Non più di leva obbligatoria, tributo che ogni giovane – maschio – doveva pagare. La scelta del servizio militare è diventata volontaria. Chi la compie soprattutto al sud è spinto dalla disoccupazione. Ma alla ricerca del lavoro si aggiunge quella del ruolo: il desiderio di trovare senso e ordine alla propria esistenza. “I giovani – affermano i comandanti - vengono da noi spesso perché non hanno altre possibilità, ma ci restano perché trovano un luogo nel quale coltivano interessi e ideali”.
Il terzo cambiamento strutturale è il livello culturale di chi sceglie di lavorare nelle Forze armate. I soldati, laureati o diplomati, conoscono le lingue, hanno interessi e spirito critico. Vengono addestrati, ma non solo, all’uso delle armi. Li affiancano psicologi e insegnanti di lingue. Una leva di giovani molto diversi da quelli che, secondo Angelo Del Boca, durante la guerra di Libia “ vedevano gli avversari come bestie”. 
Ma la vera novità è costituita da un collante ideologico che permea la vita nell’esercito. Paradosso dei paradossi il collante ideologico è oggi la pace Il militare italiano si vive e si concepisce come soldato di pace. Questa è la sua missione, il motivo per cui, carico di libri, va in Libano, in Afghanistan, Kossovo. Conquistare la pace, preservarla conservarla, difenderla: è da questa convinzione, non sappiamo quanto profonda o imposta, sicuramente proclamata, che discendono comportamenti e approccio sul terreno. Da questa convinzione nasce la cosiddetta “diversità italiana” e il nocciolo duro di quella che è chiamata “rivoluzione”. E’ in effetti che cosa ci può essere di più rivoluzionario rispetto ai millenni passati di un soldato che non ha nemici e dice di lottare per la pace? 

anche su Il Riformista





__._,_.___
Attività recenti:
    .

    __,_._,___