Newsletter Sopralluoghi in Palestina N.2



A seguire la Newsletter n.2 di "Sopralluoghi in Palestina" e la prossima proiezione del cineforum.



Assopace Roma – Sumud – www.assopace.org
Associazione Culturale Aktivamente - www.aktivamente.it
Associazione giovani palestinesi Wael Zwaiter – www.palestinawz.org 

Presentano

SOPRALLUOGHI IN PALESTINA
Fotogrammi di un conflitto
7 film da Palestina/Israele


ArciArcobaleno
Via Pullino 1 (Garbatella – Roma)
www.arciarcobaleno.it

Entrata a sottoscrizione libera
(e’ necessaria la tessera ARCI valida per il 2009 – costo 5€)
Info: +39 331 7858469 sopralluoghipalestina at gmail.com



Prossima proiezione:
Domenica 15 febbraio 2009, ore 20.30
The Iron Wall, di Mohammed Alatar
(Palestina, 2006, 57’, Sott. Italiano - www.theironwall.ps)



La colonizzazione sionista nella terra di Israele può solo arrestarsi o procedere a dispetto la popolazione nativa palestinese. Questo significa che può procedere e svilupparsi solo con la protezione di una potenza indipendente, dietro un muro di ferro, che i nativi non potranno penetrare. Con queste parole, nel 1923, Vladmir Jabotinsky indicava la strada per la colonizzazione della Palestina. Il muro è solo una tappa di questo processo.



 


NEWSLETTER n.2
…tutte le notizie da Israele e Palestina della settimana

In breve…

•    Il Presidente dell’ANP Abbas (Abu Mazen) è stato ricevuto al Parlamento Europeo questa settimana: ha dichiarato che non ci saranno negoziazioni fino a quando l’espansione delle colonie andrà avanti e fino a quando non sarà rimosso il blocco imposto a Gaza. Ha inoltre invitato l’Unione Europea a sostenere un governo di unità nazionale e ha chiesto l’invio nell’area di forze di peacekeeping.

•    Secondo un sondaggio condotto questa settimana il 57% dei palestinesi della West Bank e di Gaza crede che Hamas sia uscito rafforzato in seguito alle aggressioni di Israele condotte a dicembre e gennaio.

•    L’inviato USA in Medio Oriente, George Mitchell, incontrerà il 22 febbraio a Ramallah, il Presidente Abbas.

•    La Municipalità Israeliana di Gerusalemme ha demolito questa settimana due abitazioni a Gerusalemme Est, nel quartiere di Issawiyeh. Nel frattempo il Ministro della Difesa Israeliano ha autorizzato la costruzione di 250 nuove unità abitative vicino a Ramallah, in West Bank.

(Tutte le notizie sono tratte dalle principali Agenzie Stampa Palestinesi e Israeliane).


Qualche news…

•    Nasce il sito www.whoprofits.org, un nuovo sito web che elenca le aziende che sono direttamente coinvolte nell'occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme est, Striscia di Gaza, e Colline del Golan. L'iniziativa di base, della Coalizione Israeliana di Donne per la Pace (Israeli Coalition of Women for Peace), comprende una raccolta di dati e un centro di informazione.
•    Al seguente indirizzo http://www.mossawacenter.org/default.php?lng=3&pg=1&dp=2&fl=3
è disponibile, in versione inglese, una nuova pubblicazione dal titolo “La minoranza araba palestinese e le elezioni Israeliane del 2009” curata da Mossawa, l’associazione per i diritti umani dei cittadini arabi in Israele.


Da Israele …

Articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Yedioth Ahronoth”, di B. Michael
“Sommario di Piombo Fuso”
di B. Michael

Vostro Onore, Giudice Istruttore,

Eccomi di nuovo davanti a Lei. E, di nuovo, non intendo negare la mia colpa, o scansare la mia responsabilità. Sono colpevole e sono responsabile. Il problema è solo quanto io sia colpevole e responsabile.
Mi ero posto la medesima domanda, Vostro Onore, ma, in assenza di alcune informazioni fondamentali, non sapevo rispondere. Solo ora, che divengono chiari alcuni fatti e alcuni dati aggiuntivi, posso tentare una stima di quale sia stata la mia parte.
In primo luogo, Vostro Onore, vorrei stabilire che il risultato principale di questa campagna – si potrebbe anche dire l'unico – sono le vittime. Sono certo che sia il Pubblico Ministero, sia la Corte, saranno d'accordo con me, su questo punto. Dopo tutto, il resto degli 'obiettivi', delle pretese, delle dichiarazioni e delle promesse sono già state smascherate, come vuote illusioni. I missili ci sono ancora, i tunnel sono di nuovo attivi, Hamas rimane imbattuta, i suoi arsenali (se proprio per caso ne avesse avuti) non sono stati scoperti - persino le aree devastate in modo folle saranno ricostruite.

Solo i morti rimarranno morti, per sempre. Niente li farà mai rivivere. E sono terribilmente, dolorosamente numerosi. 1.315 morti di là, 13 qui.
Detto questo, e mi scuso con la Corte per essere agitato, non si può evitare di rendersi conto che questo è stato il solo vero risultato di tutto quel Piombo Fuso. 1320 esseri umani morti (nel conto ho incluso cinque israeliani che, a quanto pare, sono pure stati uccisi dal denaro delle mie tasse)
E adesso, onorevoli membri della Corte, proseguiamo con i dati: stime accurate fissano il prezzo di questa campagna a circa 5 miliardi di shekel. Un breve calcolo dà circa 3,7 milioni di shekel per vittima. E poiché i contribuenti israeliani ammontano ad appena 1,1 milioni, si può dedurre che la quota di ciascuno nel finanziare l’uccidere è ammontata a circa 3 shekel per vittima.
Scorgo una certa aria di stupore, signori, per quanto è basso il prezzo. E quindi voglio ricordarvi, ancora una volta, che si parla qui di tariffe particolarmente scontate.

Ma ritorniamo al nostro problema: per un attimo ho pensato che la mia parte nel finanziare la campagna ammontasse a 3,960 shekels, agorà più, agorà meno. Ma poi i conti hanno cominciato a confondersi. In primo luogo, ho compreso che è molto probabile che molte delle le donne che ho ucciso (104, secondo i dati attuali) fossero incinte. Come integrare questo fatto nel conteggio? Secondo, non è ben chiaro se io debba formulare una scala progressiva dei costi del massacro. È ovvio che il costo per uccidere un bambino (quasi 400 bambini, per adesso) è minore del costo necessario per uccidere un individuo completamente cresciuto. Terzo, ci sono anche migliaia di feriti. Come devo considerarli? Si potrebbe sostenere che, così come stanno le cose, per tutti costoro merito in realtà di essere rimborsato. Dopo tutto, francamente, è un lavoro incompleto. Si potrebbe certo richiedere all’esercito di tornare a concluderlo. Se un idraulico riparasse semplicemente metà rubinetto, dovrebbe – è naturale - rimborsare il cliente. Perché mai l’esercito dovrebbe essere trattato in modo diverso?

In breve, Vostro Onore, questa è una faccenda complicata. E poiché so bene che c'è una lunga fila di imputati ed un pesante carico di casi da esaminare in tribunale; poiché, rammento alla Corte, questa volta non nego la mia colpa; sottolineando il fatto che, considerata l'età e i miei valori, non ho preso parte nel perpetrare effettivamente gli atti ma solo nel finanziarli, posso affermare davanti alal Corte quanto segue:
in ogni caso – comunque lo si contabilizzi - qui stiamo parlando di un'inezia. La morte, dopo tutto, nella mia regione è diventata molto a buon mercato. Chiedo pertanto a Vostro Onore di tenerlo in considerazione, e di condannarmi solo ad un lavoro di pubblica utilità, anziché al carcere.
E, come usa, per risparmiare le spese della Corte, posso esprimere la mia completa disponibilità a compiere questo pubblico servizio qui. All’Aia.
Grazie.

Così, cosa abbiamo ottenuto?
- Un esercito che ha imparato la lezione? Non necessariamente. Questo rimane da vedere. L'esercito ha partecipato a due guerre: in Libano gli hanno sparato addosso ed è uscito appena in tempo. A Gaza gli hanno a malapena sparato, ed ha immediatamente ‘vinto’. La sola saggia conclusione, perciò, da trarre finora dagli eventi di Gaza, è che è molto più facile vincere se il nemico non c'è.
- I palestinesi hanno imparato la lezione? No. Morte e devastazione non istruiscono. È così che vanno le cose. Più di 1000 israeliani sono stati uccisi durante la seconda intifada. Questo non ci ha reso precisamente pacifisti; ne' ci rende moderati, razionali, o comunque più saggi.
- Il nostro potere deterrente si è rafforzato? No. Nemmeno quello. Tra le varie ragioni, perché non è mai esistito. Israele pesta i palestinesi da decenni, e loro – lenti di comprendonio come sono - persistono a non essere dissuasi. E sarà così anche questa volta.
- Abbiamo dimostrato al mondo che Hamas si nasconde dietro ai civili? Mi spiace, nememno quello. Possiamo vendere quella scusa solo a noi stessi. Gaza è tutto un ammasso di civili, e i movimenti clandestini non sono eserciti regolari. Vivono fra la gente. Menachem Begin (mascherato come Israel Sassover) non si nascondeva forse in una costruzione residenziale nel nord di Tel Aviv? I kibbutz ed altre comunità non erano piene fino a scoppiare dei loro leggendari arsenali clandestini? Gli appartenenti alla Haganah e al Palmach non si nascondevano forse fra donne e bambini? Le strade di frontiera non sono state minate contro un esercito arabo invasore? Ma come oso confrontare… Dopo tutto, quelli eravamo noi. Ora sono solamente loro.
- Ancora una volta si è mostrata la moralità dell’esercito? Oh, povero me! Un esercito morale non uccide civili, per poi vantarsi della propria moralità. Un esercito morale è uno che si accolla il problema di non uccidere civili, anche se questo implica rischi. Quando i crudeli occupanti britannici hanno preso di mira il comandante del Lehi/Banda Stern, gli hanno sparato da vicino dentro il suo nascondiglio, in un quartiere di Tel Aviv. Il morale occupante israeliano avrebbe probabilmente lasciato cadere una bomba da una tonnellata sull’intero quartiere, spiegando di non aver voluto mettere in pericolo i propri soldati.
- I media hanno imparato la lezione? Indubbiamente. I guardiani della democrazia sono stati perfettamente addomesticati, diventando cuccioli affamati di carezze, felicissimi di rendere i propri servizi solo al regime. Ecco, ci siamo. Qualcosa si è guadagnato da tutto quel Piombo Fuso, dopo tutto.
http://www.rete-eco.it/it/approfondimenti/opposizione-israeliana/4841-sommario-di-piombo-fuso-.html
(Traduzione dall'ebraico in inglese di Tal Haran, dall'inglese di Andrea Piccinini e Paola Canarutto)


Articolo di Ilan Pappe, storico israeliano e docente presso il Dipartimento di storia dell'Università di Exeter, Inghilterra.
(http://ilanpappe.com http://electronicintifada.net)
“La furia sacrificale di Israele e le sue vittime a Gaza”
di Ilan Pappe

La mia visita di ritorno a casa in Galilea è coincisa con l'attacco genocida israeliano contro Gaza. Lo stato, attraverso i suoi media e con  l'aiuto del mondo accademico, ha diffuso una voce unanime - persino più forte di quella udita durante l'attacco criminale contro il Libano nell'estate del 2006. Israele è ancora una volta divorata da una furia sacrificale che traduce in politiche distruttive nella Striscia di Gaza. Questa autogiustificazione spaventosa per l'inumanità e l'impunità non è soltanto sconcertante, ma è un argomento sul quale soffermarsi se si vuole comprendere l'immunità internazionale per il massacro che infuria a Gaza. E' anzitutto fondata su bugie pure e semplici trasmesse con una neolingua  che ricorda i giorni più bui dell'Europa del 1930. Ogni mezz'ora un bollettino d'informazioni su radio e televisione descrive le vittime di Gaza come terroristi e le uccisioni di centinaia di persone come un atto
di autodifesa. Israele presenta sé stessa al suo popolo come la vittima sacrificale che si difende contro un grande demonio. Il mondo accademico è  reclutato per spiegare quanto demoniaca e mostruosa è la lotta palestinese, se è condotta da Hamas. Questi sono gli stessi studiosi che demonizzarono l'ultimo leader palestinese Yasser Arafat nel primo periodo e delegittimarono il suo movimento Fatah durante la seconda intifada palestinese. Ma le bugie e le rappresentazioni distorte non sono la parte peggiore di tutto questo. Quello che indigna di più è l'attacco diretto alle ultime tracce di umanità e dignità del popolo palestinese. I palestinesi di Israele hanno mostrato la loro solidarietà con il popolo di Gaza e ora
sono bollati come una quinta colonna nello stato ebraico; il loro diritto a restare nella loro patria viene rimesso in dubbio data la loro mancanza di sostegno all'aggressione israeliana. Coloro che hanno accettato - sbagliando, secondo la mia opinione, di apparire nei media locali sono interrogati e non intervistati, come se fossero detenuti nelle prigioni dello Shin Bet. La loro apparizione è preceduta e seguita da umilianti rilievi razzisti e sono sottoposti all'accusa di essere una quinta colonna, un popolo fanatico e irrazionale. E ancora questa non è la pratica più vile. Ci sono alcuni bambini palestinesi dei Territori Occupati curati per cancro negli ospedali israeliani. Dio sa quale prezzo devono pagare le loro famiglie per poterli ricoverare. La radio israeliana va ogni giorno negli ospedali per chiedere ai poveri genitori di dire agli ascoltatori israeliani quanto è nel suo diritto Israele nel suo attacco e quanto demoniaco sia Hamas nella sua difesa. Non ci sono confini all'ipocrisia che una furia sacrificale produce. I discorsi dei generali e dei politici si muovono in modo erratico tra gli autocompiacimenti da un lato sull'umanità che l'esercito mostra nelle sue operazioni "chirurgiche" e dall'altro sulla necessità di distruggere Gaza una volta per tutte, naturalmente in un modo umano. Questa furia sacrificale è un fenomeno costante nella espropriazione israeliana, e prima ancora sionista, della Palestina. Ogni azione, sia essa la pulizia etnica, l'occupazione, il massacro o la distruzione è stata sempre rappresentata come moralmente giusta e come semplice atto di autodifesa commesso da Israele suo malgrado nella guerra contro la peggior specie di esseri umani. Nel suo eccellente volume "I risultati del sionismo: miti, politiche e cultura in Israele", Gabi Piterberg esamina le origini ideologiche e la progressione storica di questa furia. sacrificale. Oggi in Israele, dalla destra alla sinistra, dal Likud a Kadima, dall'accademia ai media, si può ascoltare questa furia sacrificale di uno stato che è molto più indaffarato di qualsiasi altro stato al mondo nel distruggere e nell'espropriare una popolazione nativa. E' molto importante esaminare le origini ideologiche di questo modo di comportarsi e derivare, dalla sua larga diffusione, le conclusioni politiche necessarie.
Questa furia sacrificale costituisce uno scudo per la società e per i politici in Israele da ogni biasimo o critica esterna. Ma ancora peggio, si traduce sempre in politiche di distruzione contro i palestinesi. Senza nessun meccanismo interno di critica e senza nessuna pressione esterna, ogni palestinese diventa un obiettivo potenziale di questa furia. Data la potenza di fuoco dello stato ebraico può soltanto finire in più massicce uccisioni, massacri e pulizia etnica. L'assenza di una qualsiasi moralità è un potente atto di auto-negazione e di giustificazione. Ciò spiega perché la società israeliana non può essere modificata da parole di saggezza, di persuasione logica o di dialogo diplomatico. E se non si vuole usare la violenza come mezzo di opposizione, c'è soltanto un modo per andare avanti: sfidare frontalmente questa assenza di moralità come una ideologia diabolica tesa a nascondere atrocità umane. Un altro nome per questa ideologia è Sionismo e l'unico modo di contrastare questa assenza di moralità è il biasimo a livello internazionale del sionismo, non solo di particolari politiche israeliane. Dobbiamo cercare di spiegare non solo al mondo, ma anche agli stessi israeliani che il sionismo è un'ideologia che comporta la pulizia etnica, l’occupazione, e ora massicci massacri. Ciò che occorre ora non è tanto una condanna del presente massacro. ma anche la delegittimazione dell'ideologia che ha prodotto tale politica e la giustifica moralmente e politicamente. Speriamo che importanti voci nel mondo possano dire allo stato ebraico che questa ideologia e il comportamento complessivo dello stato sono intollerabili e inaccettabili e che, sino a quando persisteranno, Israele sarà boicottato e soggetto a sanzioni. Ma non sono ingenuo. So che anche il massacro di centinaia di innocenti palestinesi non sarà sufficiente per produrre questa modificazione nella pubblica opinione occidentale; è anche più improbabile che i crimini commessi a Gaza muovano i governo europei a mutare la loro politica nei confronti della Palestina.
Ma noi non possiamo permettere che il 2009 sia un altro anno, meno significativo del 2008, l'anno di commemorazione della Nakba, che non sia riuscito a realizzare le grandi speranze che noi tutti avevamo, per la sua potenzialità, di trasformare il comportamento del mondo occidentale verso la Palestina e i palestinesi. Pare che persino il più orrendo dei crimini, come il genocidio a Gaza, sia trattato come un evento separato, non connesso con nulla di ciò che è già avvenuto nel passato e non associato ad una ideologia o a un sistema. In questo nuovo anno, noi dobbiamo tentare di riposizionare
l'opinione pubblica nei confronti della storia della Palestina e dei mali dell'ideologia sionista come i mezzi migliori sia per spiegare le operazioni genocide come quella in corso a Gaza sia per prevenire cose peggiori nel futuro.
Questo è già stato fatto, a livello accademico. La nostra sfida maggiore è quella di trovare un modo efficace di spiegare le connessioni tra l'ideologia sionista e le politiche di distruzione del passato con la crisi presente. Può essere più facile farlo mentre, in queste terribili circostanze, l'attenzione mondiale è diretta ancora una volta verso la Palestina. Potrebbe essere ancora più difficile quando la situazione sembra essere "più calma" e meno drammatica. Nei momenti "di quiete", l'attenzione di breve durata dei media occidentali metterebbe ai margini ancora una volta la tragedia palestinese e la dimenticherebbe sia per gli orribili genocidi in Africa o per la crisi economica e per gli scenari ecologici apocalittici nel resto del mondo. Mentre i media occidentali non sembrano molto interessati alla dimensione storica, soltanto attraverso una valutazione storica si può mostrare la dimensione dei crimini commessi contro i palestinesi nei sessanta anni trascorsi. Perciò il ruolo degli studiosi attivisti e dei media alternativi sta proprio nell'insistere su questi contesti storici. Questi attori non dovrebbero smettere di educare l'opinione pubblica e, si spera, di influenzare qualche politico più onesto a guardare ai fatti in una prospettiva storica più ampia. Allo stesso modo, noi possiamo essere in grado di trovare un modo più adeguato alla gente comune, distinto dal livello accademico degli intellettuali, per spiegare chiaramente che la politica di Israele - nei sessanta anni trascorsi - deriva da un'ideologia egemonica razzista chiamata sionismo, difesa da infiniti strati di furia sacrificale. Nonostante l'accusa scontata di antisemitismo e cose del genere, è tempo di mettere in relazione nell'opinione pubblica l'ideologia sionista con il punto di riferimento storico e ormai familiare della terra: la pulizia etnica del 1948, l'oppressione dei palestinesi in Israele durante i giorni del governo militare, la brutale occupazione della Cisgiordania e ora il massacro di Gaza. Come l'ideologia dell'apartheid ha spiegato benissimo le politiche di oppressione del governo del Sud-Africa, questa ideologia - nella sua variante più semplicistica e riflessa, ha permesso a tutti i governi israeliani, nel passato e nel presente, di disumanizzare i palestinesi ovunque essi fossero e di combattere per distruggerli. I mezzi sono mutati da un periodo all'altro, da un luogo all'altro, come ha fatto la narrazione che ha nascosto queste atrocità. Ma c'è un disegno chiaro che non può essere solo fatto oggetto di discussione nelle torri d'avorio accademiche, ma deve diventare parte del discorso politico nella realtà contemporanea della Palestina di oggi.
Alcuni di noi, in particolare quelli che si dedicano alla giustizia e alla pace in Palestina, inconsciamente evitano questo dibattito, concentrandosi, e questo è comprensibile, sui Territori Palestinesi Occupati (OPT) - la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Lottare contro le politiche criminali è una missione urgente. Ma questo non dovrebbe trasmettere il messaggio che le potenze occidentali hanno adottato volentieri su suggerimento israeliano, che la Palestina è soltanto la Cisgiordania e la Striscia di Gaza e che i palestinesi sono solo la popolazione che vive in quei territori. Dovremmo estendere la rappresentazione della Palestina geograficamente e demograficamente raccontando la narrazione storica dei fatti dal 1948 in poi e richiedere diritti civili e umani eguali per tutte le persone che vivono, o che erano abituati a vivere, in quella che oggi è Israele e i Territori Occupati.
Ponendo in relazione l'ideologia sionista e le politiche del passato con le atrocità del presente, noi saremo in grado di dare una spiegazione chiara e logica per la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Sfidare con mezzi non violenti uno stato ideologico che si autogiustifica moralmente, che si permette, con l'aiuto di un mondo silenzioso, di espropriare e distruggere la popolazione nativa di Palestina, è una causa giusta e morale. E' anche un modo efficace di stimolare l'opinione pubblica non soltanto contro le attuali politiche genocidarie a Gaza, ma, si spera, anche a prevenire future atrocità.  Ancora più importante di ogni altra cosa ciò dovrebbe far sfiatare la furia sacrificale che soffoca i palestinesi ogni volta che si gonfia. Ciò aiuterà a porre fine alla immunità dell'occidente a fronte dell'impunità di Israele. Senza questa immunità, si spera che sempre più la gente in Israele cominci a vedere la natura reale dei crimini commessi in loro nome e la loro furia potrebbe essere diretta contro coloro che hanno intrappolato loro e i palestinesi in questo ciclo non necessario di  massacri e violenza.


Dall’Italia…

A due anni dalla morte del giornalista Stefano Chiarini, il Manifesto per celebrare la sua memoria ha ripubblicato un reportage-intervista del 2004 sul massacro di Sabra e Chatila.
“Verità su  Chatila – Palestina, la strage dell’oblio”
di Stefano Chiarini

Sono passati due anni dalla morte del nostro amico e collega Stefano Chiarini. Per celebrare la sua memoria e la sua passione per il giornalismo, ripubblichiamo questo reportage-intervista del 2004 sul massacro di Sabra e Chatila. Un evento che Stefano, spendendosi in prima persona, ha contribuito a non far dimenticare.
«Il primo impulso ad iniziare un progetto di storia orale basato sulle testimonianze dei sopravvissuti al massacro di Sabra e Chatila mi venne in quei tragici giorni di settembre del 1982 per uscire da quel senso di impotenza che ci attanagliava di fronte a tanto orrore e per ribadire che il sangue palestinese, libanese e arabo è uguale a quello di tutti gli altri uomini. Il mondo in questi giorni ricorda, giustamente, le vittime delle torri gemelle ma i profughi palestinesi massacrati a Beirut, più o meno lo stesso numero, sono stati del tutto dimenticati. Nessuno ha pagato e anzi il principale responsabile, Ariel Sharon, è stato definito dal presidente Bush un uomo di pace». Bayan el Hout - originaria di Gerusalemme, allieva di Edward Said, insegnante nella facoltà di scienze politiche a Beirut dal `79 - racconta così nella sua tranquilla casa di Beirut, non lontana dal quartiere di Fakhiani, cuore della resistenza palestinese sino all'estate del 1982, le motivazioni che l'hanno portata a scoprire verificare e pubblicare, prima in arabo e ora in inglese, non solo i nomi di 906 uccisi e 484 scomparsi, ma anche le circostanze della loro morte e le responsabilità dei comandi israeliani. È difficile da credersi ma in realtà fino ad oggi nessuno aveva mai voluto sapere quante fossero state le vittime del massacro avvenuto dal sedici al diciotto settembre del 1982 nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila circondati dall'esercito israeliano: certamente non il governo di Tel Aviv, non quello di Washington, arrivato a minacciare il governo belga di spostare il comando della Nato da Bruxelles a Varsavia se non avesse bloccato il processo ad Ariel Sharon, non i governi di Usa, Francia e Italia che nel settembre del 1982 avevano precipitosamente ritirato le loro truppe lasciando i campi profughi senza alcuna difesa, non gli esecutori materiali delle Falangi libanesi, non il governo di Beirut dai fragili equilibri e per nulla interessato alla sorte dei palestinesi; e neppure l'Anp, sempre di fronte a tragiche e più impellenti necessità, ma anche timorosa delle pressioni americane e israeliane. Ma c'è chi ha rotto questa soffocante omertà.
UNA PATTUGLIA IN VISITA
La vita di Bayan el Hout sarebbe cambiata per sempre alle tredici di quel sabato, 18 settembre 1982. «Ero nella mia casa di Corniche el Mazra, l'edificio era completamente vuoto, sola con una vicina e i suoi tre figli - ci dice ricordando quei giorni terribili - quando ricevetti la visita di una pattuglia israeliana guidata da un ufficiale che cercava mio marito, direttore dell'ufficio dell'Olp in Libano. Al momento di andare via l'ufficiale bruscamente mi disse: "Vede quanto siamo civili... non è come pensate". Avevo appena chiuso la porta quando un annunciatore alla radio, con la voce rotta, cominciò a parlare del massacro nei campi di Beirut. Tutta quella ipocrisia mi fu insopportabile: di quale civiltà aveva parlato? Ci si può ritenere civili solo perché si spinge un bottone e non si sente nelle narici l'odore della carne bruciata dalle bombe al fosforo? O perché si sono assoldati dei killer locali per `finire il lavoro' senza sporcarsi le mani con il sangue delle vittime?».
Il periodo più difficile e pericoloso della ricerca fu senza dubbio quello iniziale, all'indomani del massacro. Beirut Ovest era ancora occupata dagli israeliani e al governo con Amin Gemayel c'erano le Forze libanesi, gli uomini che avevano portato a termine la strage. «Incontravamo i testimoni segretamente al di fuori dei campi dove avremmo rischiato di essere uccisi o arrestati - continua Bayan el Hout - e i nastri registrati venivano subito copiati per impedire che potessero essere distrutti». «Gli israeliani - aggiunge la storica palestinese - hanno sempre fatto di tutto non solo per cancellare la nostra esistenza ma anche la nostra memoria. Il loro primo obiettivo a Beirut furono proprio gli istituti di ricerca, il centro studi palestinesi, gli archivi cinematografici, fotografici e cartacei». Le copie dei nastri, dieci alla volta, venivano poi sistemate in pacchetti regalo coloratissimi e dati ad amici e conoscenti in occasione di qualche festa o compleanno. Per maggior sicurezza occorreva però trascriverne il contenuto, «ma il terrore era tale - ricorda sorridendo Bayan el Hout - che non trovammo nessuna dattilografa disposta a farlo. Una nostra conoscente ci disse persino che non se la sentiva di aiutarci perché il vicino di casa avrebbe potuto sentire il rumore della macchina e denunciarla. Finalmente una ragazza si offrì di farlo, scrivendo a mano durante la notte quando i suoi dormivano.
La ricerca su Sabra e Chatila, iniziata come un progetto di storia orale, dal 1983 sarebbe diventata una vera indagine per identificare le vittime del massacro e lo svolgersi degli eventi. La svolta si ebbe in occasione della pubblicazione del rapporto israeliano sulla strage secondo il quale non vi sarebbero stati più di 700-800 morti: «In particolare - sostiene Bayan el Hout - andai su tutte le furie quando dissero che erano stati uccisi non più di una ventina di bambini e una quindicina di donne. A quel punto capii quanto fosse importante stabilire scientificamente i nomi e il numero delle vittime».
LISTE UFFICIALI TOP SECRET
Occorreva però incrociare le testimonianze orali con le liste ufficiali, per quanto parziali fossero, tutte «top secret». Il lavoro rischiava di fermarsi quando, per uno di quei casi sorprendenti che spesso avvengono in momento così drammatici, uno dei «tecnici» presenti nella compagine governativa, lo psichiatra Abdul Rahman al-Labbani, ministro degli affari sociali, riuscì a farsi consegnare, per poi girarle a Bayan el Hout, le liste con i nomi delle vittime della Croce rossa, della Difesa civile, e un altro elenco. Tutte e tre ancor oggi inedite. A questo punto i contorni e le dimensioni del massacro cominciarono ad apparire per quelli che erano e la ricerca potè ripartire utilizzando anche altre liste palestinesi e i registri di un vicino cimitero.
Il numero dei nomi delle vittime palestinesi e libanesi arrivò così tra interviste e liste ufficiali a 906 e a questi vennero poi aggiunti quelli di altri 484 «scomparsi» e «rapiti», dei quali erano note le circostanze dell'arresto da parte dei falangisti o degli israeliani, per un totale di 1390 vittime. Al di fuori di questa cifra vi sono poi coloro che sono scomparsi senza lasciare alcuna traccia e i membri di intere famiglie che con vicini e conoscenti sono stati sepolti tutti insieme nei rifugi dove si erano riparati. Tra le vittime delle quali non si ha notizia vi sono molti abitanti stranieri del campo, lavoratori immigrati o volontari uniti ai loro vicini palestinesi dalla comune miseria o da comuni ideali. Tra questi, sei immigrati bengalesi uccisi nella loro casa o il giovane infermiere di colore di nazionalità britannica, volontario al Gaza Hospital, chiamato da tutti «Osman», rapito e ucciso la mattina di sabato diciotto settembre 1982. Nessuno ha mai saputo chi fosse. Tenendo conto di questi fattori il numero totale delle vittime del massacro potrebbe arrivare e forse superare le 3.000 persone.
Nella ricerca di Bayan el Hout, accanto agli elenchi degli uccisi, degli scomparsi e dei rapiti vi sono anche 47 storie particolarmente rilevanti sotto il profilo umano, per l'efferatezza delle esecuzioni - molte donne incinte vennero squartate per le strade, alcuni neonati tagliati a pezzi e ricomposti sulle tavole a mo' di dolci, dei ragazzi vennero legati per le gambe a due jeep che partendo in direzioni opposte li tranciarono in due - le responsabilità dei comandi e dei soldati israeliani ma anche per isolati e inaspettati gesti di pietà. Alcuni soldati permisero a delle famiglie di fuggire dal campo, altri fecero rapporto ai superiori, ma nessuno fermò i killer. Sharon e i suoi generali sapevano bene cosa stava succedendo a Chatila. Un barlume di umanità brillò anche tra i macellai delle Forze libanesi come nel caso di un uomo, già dentro un pozzo nel quale venivano gettati i vivi e i morti, salvato da un falangista figlio di un collega di lavoro con il quale passava, prima della guerra, tutte le domeniche.
«Nel corso della ricerca - ci dice Bayan el Hout - sono emersi molti particolari inediti di grande interesse, come il fatto che il massacro non riguardò solamente Sabra e Chatila ma anche diversi quartieri circostanti; o che i killer, per non allarmare gli altri abitanti del campo e poterli quindi sorprendere nelle loro case, tentarono nelle prime ore, sembra su consiglio di alcuni esperti israeliani, di utilizzare solamente armi da taglio, coltelli, accette, ma furono costretti ad aprire il fuoco in seguito alla disperata resistenza di una quindicina di ragazzi palestinesi: altro che i 2500 terroristi armati di cui andava vaneggiando Ariel Sharon». Un gesto eroico che permise a molti di mettersi in salvo.
MATTANZA IN PIÙ FASI
Il massacro, emerge dalla ricerca, ha avuto in realtà varie fasi: «All'inizio -sostiene Bayan el Hout, mostrandoci alcuni grafici - non volevano lasciare in vita nessuno, e così il primo giorno il numero degli uccisi è di gran lunga superiore a quello dei rapiti o scomparsi. Poi con il passare delle ore, il rapporto si inverte sia per una certa stanchezza e sazietà dei killer, sia perché i comandi israeliani, con i giornalisti che già si stavano dirigendo verso Chatila, decisero di far fare il 'lavoro' altrove, lontano da occhi indiscreti».
Sul tema, centrale, dei rapporti tra comandi israeliani e i responsabili delle Forze libanesi, primo tra tutti Elie Hobeika, ucciso due anni fa a Beirut alla vigilia di un suo possibile viaggio in Belgio per testimoniare contro Ariel Sharon, sono usciti recentemente importanti documenti di prova fatti arrivare agli avvocati delle vittime da una anonima fonte dei servizi segreti americani o israeliani. Sino ad oggi però né da parte israeliana, né da parte falangista è arrivato alcun elemento di verità, un dato che forse la pubblicazione della ricerca in inglese, e il passare del tempo potrebbero modificare. «Dopo aver concluso questo lavoro ventennale - ci dice Bayan el Hout prima di tornare ai suoi studi - spero che ora, anche grazie alla mobilitazione internazionale `per non dimenticare Chatila' che oggi vede a Beirut delegazioni provenienti dall'Italia, Spagna, Stati uniti, Malesia, Francia, il mondo cominci a dare lo stesso valore anche al sangue dei palestinesi e soprattutto che i responsabili di questo orrendo massacro siano giudicati e paghino per i loro crimini. Non c'è altra strada, se vogliamo la pace, che passare dalla scomoda e stretta porta della memoria e della giustizia».

Articolo tratto da Panorama.it
“Si rafforza la collaborazione tecnologica e militare tra Italia e Israele”

Una missione a Tel Aviv per rafforzare i rapporti bilaterali tra Italia e Israele, che hanno conosciuto negli ultimi anni un significativo sviluppo, e per favorire lo scambio commerciale ed il confronto tecnico-scientifico con i Paesi dell’area mediterranea. La spedizione, organizzata da Sat Expo Europe, in collaborazione con il ministero Affari Esteri, e con la presenza di Panorama.it, si inserisce nell’ambito della quarta edizione della “Ilan Ramon International Space Conference”, a cura del ministero israeliano di Scienze, Cultura e Sport, dell’Israeli space agency (Isa) e del Fisher Brothers Institute for Air and space strategic studied di Israele. Quattro giorni, da 26 al 29 gennaio, caratterizzati da una fitta serie di incontri, con visite programmate presso importanti associazioni e stabilimenti aerospaziali israeliani. “L’evento - dice a Panorama.it il presidente di Sat Expo Europe Paolo Dalla Chiara - interessa una delle più importanti tappe del programma di promozione presso quei paesi del Mediterraneo sensibili alle applicazioni e ai servizi dell’industria aerospaziale italiana e che saranno ospiti della prossima edizione di Sat Expo Europe 2009 alla Nuova Fiera di Roma nel prossimo marzo“. Il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani, guiderà la missione. Farà parte della delegazione italiana anche Marco Airaghi, consigliere per le politiche spaziali del ministro della Difesa Ignazio La Russa. “L’adesione alla delegazione italiana dell’onorevole Tajani segnala il valore stesso dell’iniziativa - prosegue Dalla Chiara - Alla delegazione, composta da rappresentanti dell’Agenzia spaziale italiana, associazioni di settore e industria, verrà offerta la possibilità di stringere importanti relazioni di natura economica e scientifica e poter acquisire maggiori informazioni sulla domanda di nuovi servizi applicativi dello spazio”. I rapporti economici tra i due paesi sono caratterizzati da un eccellente andamento. L’interscambio, in costante crescita, ha raggiunto i 3,5 miliardi di dollari nel 2007 (con un incremento del 24,8 per cento rispetto all’anno precedente) e fa figurare l’Italia tra i partner d’Israele di maggiore importanza a livello mondiale (quarto fornitore e quinto acquirente in assoluto). La spesa nazionale israeliana in ricerca e sviluppo ha raggiunto il 4,2 per cento del pil nazionale. Il numero di scienziati ed ingegneri, circa 90 mila è il più alto al mondo, se rapportato alla popolazione, 150 ricercatori per 10 mila abitanti. Israele è poi il primo paese al mondo per il numero di pubblicazioni scientifiche (la metà in medicina), se rapportato alla popolazione: 115 ogni 100 mila abitanti. “Israele è molto interessato al sistema Italia, soprattutto per quanto riguarda il settore satellitare e delle telecomunicazioni, dal momento che i risvolti sono sia di natura civile che, ovviamente, militare – spiega a Panorama.it Stefano Boccaletti, addetto scientifico dell’Ambasciata italiana in Israele – La missione preparata dall’ambasciata vuole favorire in maniera cospicua i rapporti di tecnologie dello spazio tra le industrie dei due paesi. Per questo abbiamo preparato un ricco programma di visite alle quattro principali aziende di industria pesante israeliana e una conferenza internazionale con i maggiori esponenti del settore”.Boccaletti aggiunge che Israele produce satelliti molto piccoli, sotto i 200 chili. E questo per un semplice motivo: devono essere lanciati verso ovest e non verso est come avviene tradizionalmente in tutti i paesi del mondo, in quanto verrebbero intercettati dai paesi arabi e probabilmente abbattuti. “Andare verso ovest significa andare in direzione opposta alla direzione della terra e questo comporta misure piccole, ma costi elevatissimi – aggiunge Boccaletti – Da qui l’esigenza di investire in miniature e componenti elettronici sofisticati e l’attenzione verso l’Italia è ancora più importante anche in prospettiva futura”. Da Tel Aviv a Roma, a marzo, protagonista sarà sempre lo spazio e l’industria aerospaziale come elemento per i nuovi bisogni di sviluppo economico e sociale in tutta l’area del Mediterraneo.

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