In Afghanistan si fa la guerra



08 07 29 Incursore italiano in Afghanistan

 

L’Espresso, 29 luglio 2008

Noi in prima linea

di Edoardo Crainz

Altro che missione di pace. Qui si combatte dal 2003. Ed è sempre peggio. Il racconto, in esclusiva per 'L'espresso', di un tenente della Folgore  Soldati italiani a Kabul. Se gli chiedi come si chiama, risponde così: "Qui non abbiamo nome. E nemmeno uniformi. Quando comincia la missione smettiamo di avere un'identità. Non siamo più Mario o Francesco, non siamo più parà, ranger o incursori di marina. C'è solo la tua arma e i tuoi compagni. E l'Afghanistan". Non dice il suo nome, ma sono quelli come lui a fare la differenza. E lui è uno dei pochi che hanno fatto tanto. È un operatore delle forze speciali, definizione burocratica che nasconde i protagonisti più silenziosi delle missioni di pace. Non cercateli nei comunicati ufficiali dello Stato maggiore. Quando un nostro reggimento parte per l'estero, quando intere brigate si schierano in città crivellate di proiettili, loro sono già lì. Arrivano per primi, partono per ultimi. Così deve
 essere. Preparano il terreno, alla lettera: si caricano sulle spalle la parte più rischiosa della spedizione, sapendo che quel brivido potrà durare anni. Senza medaglie, senza avventure da raccontare: solo silenzio. Ed è per questo che il mio interlocutore fatica nel tirare fuori quello che si porta dentro. Lui che ha quarant'anni fa l'incursore già da venti. Lui che ha visto Somalia, Balcani e soprattutto Afghanistan ha una certezza: "Hanno cercato in tutti i modi di farci dimenticare".
Poi scuote la testa e guarda lontano, come se temesse di vedere il profilo dei palazzi romani trasformarsi d'incanto nella sagoma di quelle montagne assolate. Lo sguardo è quello di un felino. E non c'è paura di cadere nel luogo comune: no, sono occhi abituati a squarciare il buio. Nel caldo di una città narcotizzata dall'afa, non tradisce nessuna emozione. Tra poche ore ripartirà: di nuovo Kabul e poi più a sud.
In Afghanistan ha già concluso dieci missioni in cinque anni. Non ha dubbi: dal 2003 le cose vanno sempre peggiorando. Il governo Karzai è stabile solo perché ci sono loro: fuori dalla capitale non conta nulla. Il consenso popolare non è un concetto reale laggiù. Le province occidentali, dove negli ultimi anni sono stati impiegati i nostri soldati, rimangono le più difficili da gestire: "È un territorio inaccessibile dove la cultura tribale e conservatrice dei talebani è ancora la legge: i talebani non sono mai stati sconfitti, perché non sono un esercito, un'entità definita: hai presente la nostra mafia? Qualcosa di molto simile, non si vede ma ha un potere enorme". Cercare di scardinare questo potere, senza venirne schiacciati, è da sette anni l'impegno degli uomini mandati in quelle terre. Non è guerra, non è pace. Gli equilibri sono nuvole di polvere. Il lavoro dell'incursore diventa un'alchimia di dialogo e scontro diretto, tra politica
 e integralismo, tra mine e pacifiche chiacchierate davanti a un tè verde, una sottile linea tracciata dall'Intelligence tra due avversari che si studiano, si combattono, si temono.
Dimenticate Rambo, dimenticate i ranger di 'Black Hawk Down'. Qui non ci sono guerrieri moderni, che con armi tecnologiche danno la caccia ai talebani con turbante e barba lunga. "Passi giorni e giorni fermo in un punto, semplicemente aspettando, razionando i viveri, l'acqua, il carburante. Può far caldo o nevicare, ma tu aspetti, con l'unico scopo di non dare nell'occhio. Nel frattempo non accendi luci, non fai rumore, non ti lavi. Può durare settimane". Quando hai visto tutto, quando hai capito, allora puoi muoverti. Contatti i capi locali, tratti, costruisci la sicurezza che servirà a quelli che seguono per andare avanti. Ma per farlo "devi passare tempo con loro. Dopo aver diviso il pasto con te ti trattano come un fratello. Il problema è mandar giù carne di montone dura come un sasso, o bere da otri ricavati dalle mammelle delle pecore, in cui spesso nuotano ancora frammenti dell'originario proprietario, se non insetti o vermi ".
Spesso è questo il lato oscuro dell'Intelligence, il sottile lavoro compiuto per conquistare la fiducia, l'amicizia, magari in vista di un'operazione alleata, o del transito di un nostro convoglio. "Sono forse un po' arretrati, ma non sono tutti cattivi come sembrano", e mostra immagini senza tempo di volti barbuti che calzano pakòl e imbracciano micidiali razzi Rpg: "Sono uomini fieri, ancora genuini. Se uno di loro ti giura vendetta, puoi scommettere che ti ucciderà. È gente che non dimentica. Se accettano di parlare e trattare con noi, è solo perché ci guadagnano". Guadagnano? Da cosa si può trarre vantaggio? Dalla vita degl altri. E quella più preziosa laggiù è la vita degli occidentali. "Sequestrano di continuo soldati della coalizione. Ma non li uccidono, non ha senso uccidere una mucca che può continuare a darti il latte. Così se li passano, da un capo talebano all'altro. In modo che possano guadagnarci in tanti. E noi, noi tanto
 continuiamo a pagare".
Esiste un vero e proprio fondo stanziato dal ministero, per evenienze simili. Ma non basta. Spesso si finisce in trappola, si cade in un fuoco incrociato, in una rete di accordi da cui è impossibile uscire senza offendere o ferire uno degli interlocutori. È accaduto anche alla coppia di operatori del Sismi, catturati un anno fa: uno non è tornato a casa. "Ne ho avuti tanti nel mirino, gente che ci aveva sparato addosso e poi aveva accettato il dialogo, naturalmente per interesse o per soldi. Soggetti che minano strade, rapiscono, terroristi stranoti alla coalizione. Gente che non meriterebbe di vivere, ma che assume un ruolo nella scacchiera dell'Intelligence, e deve continuare a giocare. Quando ti hanno sparato addosso, o hai estratto un compagno massacrato da un veicolo saltato su una mina anticarro, la tentazione di tirare il grilletto è davvero forte".
È il conflitto che gli italiani conducono dal 2003. Non se ne parla mai. Per non urtare sensibilità interne, per non esporre attività sul campo. Tanto nessuno ha la divisa: i guai si scoprono solo quando va veramente male. C'è voluto l'entusiasmo improvvido del neoministro Ignazio La Russa per rompere il tabù durato cinque anni e rivelare quello che tutti sanno: è una guerra e gli italiani la combattono da oltre un anno.
"Io in Afghanistan non ho mai sparato un colpo. In Somalia, ho ucciso e sono stato colpito, ma tra i monti dell'Afghanistan mai. Il lavoro sporco lo fanno gli americani, che infatti attirano la maggior parte del fuoco. Di noi non si parla mai".
Eppure si combatte. Molti dei nostri fanno fuoco. Il pericolo sono le mine, contro le quali però i nuovi fuoristrada blindati Lince si stanno rivelando una manna. E le bombe improvvisate, che a dispetto del nome vengono costruite con cura formando piramidi di ordigni: un telefonino come innesco e salta tutto per aria. I proiettili sono quasi un male minore. "Se ti colpiscono, e non prendono l'osso, è come nei film: senti caldo e vedi il sangue solo molto dopo. Quando scende l'adrenalina, arriva il peggio, perché arriva anche il dolore. Il brutto, quando ti sparano addosso, è proprio che puoi non accorgertene: il rumore del colpo non lo senti, perché arriva prima il colpo. Allora devi convivere con la paura di perdere un pezzo di te, da un momento all'altro, o di vedere calare un velo nero sugli occhi e svegliarti in uno di quei pulciosi posti di medicazione, dai quali non si esce quasi mai. La realtà è che non bisognerebbe pensarci, a essere
 colpiti: è questo che insegnano. Ma ti insegnano anche ad avere davanti infiniti bersagli, mentre si dimenticano sempre di spiegarti come si vince la paura di essere tu stesso, un bersaglio".
In Afghanistan si spara tanto. In una terra senza frontiere, sono le pallottole a indicare i confini ai nostri soldati che finiscono in territorio iraniano o pachistano. "Te ne accorgi subito, quando entri in Iran: un metro dopo il confine ti stanno già sparando addosso, anche se non sanno chi sei. Idem in Pakistan". Le montagne non hanno bandiere, difficile capire se la caccia ti porta in uno Stato straniero. Ma tanto quello che accade resta segreto. "In Italia non si viene mai a sapere nulla. Pensa all'interprete colpito durante il sequestro dei nostri: nove fucilate addosso, un braccio perso e il volto sfigurato. Lo abbiamo operato in Italia, e abbandonato. Con moglie e figli. E laggiù non può mica tornare: l'interprete è sempre il primo a cui tagliano la testa".
Nei due anni del governo Prodi il silenzio sulle azioni è diventato opprimente per le forze speciali, che si sono ritrovate in una frontiera infuocata. Sempre più rischi, sempre più successi, mai un encomio. Per la sinistra di governo i raid dei commandos erano indispensabili ma imbarazzanti. "Sono sempre stati puntuali nel rinfacciare ai paracadutisti quel che avevano fatto in Somalia, ma mai che abbiano accennato al nostro lavoro in Afghanistan. Che, ti assicuro, è stato tutt'altro che trascurabile".
Quei territori rimangono un crocevia di traffici, armi e soprattutto droga perché "l'oppio è tutto, laggiù". Mi parla dei nostri tentativi di combattere i narcotrafficanti, "hanno provato persino con colture alternative, di recente con i cetrioli. Ti rendi conto? Cetrioli". Dallo schermo del suo computer portatile occhieggiano campi verdissimi, con lavoratori curvi sui loro attrezzi: "Si rompono la schiena per coltivare un ortaggio che non sa di niente e che non mangia nessuno perché non lo puoi trasportare da nessuna parte. E nel campo di fianco al tuo coltivano oppio e guadagnano cento volte te: secondo te che fine hanno fatto i cetrioli?". L'immagine verde si perde in un sorriso amaro: "Ma dimmi, tu che sei un dottore, a noi non serve, come medicina, la morfina? Potremmo comprarglielo noi, tutto quell'oppio, e farne medicine, non ti sembra?".
Sullo schermo scorrono scatti su scatti. E noto l'immagine di un ragazzo che osserva uno sterminato campo di papaveri multicolori. "Quello è uno di noi", mi dice, "anche se ha barba e capelli lunghi. Noi non operiamo quasi mai in uniforme, tranne in pochi e selezionati casi. Anche veicoli ed armi sono modificati per non essere riconoscibili". Avevo scambiato l'uomo in mezzo ai papaveri per un contractor, una di quelle figure a metà tra il soldato ed il mercenario che spesso si incontrano in Afghanistan "Ma sono pochi. Sono operatori di molte agenzie, soprattutto americane. A lavorarci sono per la maggior parte ex carabinieri, ex poliziotti, personaggi così. Ci sono anche generali, che offrono una sorta di consulenza tattica, strategica, ma la loro fonte è Internet, non il territorio. I contractor offrono sicurezza e vendono informazioni. Il problema dell'Afghanistan è che non c'è niente da vendere! In Russia o in Africa ci sono petrolio, diamanti,
 malavita, e in quei posti ci sono aziende europee che hanno interessi forti e sono disposte a pagare informazioni che valgono. Nelle province afgane nessuno ha interessi, ragion per cui contractor non ce ne sono".
Senza divisa, i commandos sono tutti uguali. Barba lunga, capelli lunghi, scarpe da trekking: se non fosse per il mitra, assomiglierebbero a Jovanotti. Un talebano non può sapere se ha davanti un italiano, un americano o un britannico. "Gli americani ci rispettano: riconoscono il valore e la professionalità. Non li capirò mai: alternano situazioni in cui sono di un'efficienza impeccabile, ad altre in cui commettono leggerezze imbarazzanti. Impostano tutto il loro operato su algoritmi e procedure scritte, che vengono seguite dall'ultimo soldato fino al generale a tre stelle, salvo poi saltare tutto davanti a un funzionario della Cia". La guerra della Cia, un altro capitolo di cui nessuno parla: "Hanno bracci armati non convenzionali che fanno il lavoro così sporco da risultare troppo sporco persino per le forze speciali. Loro non dialogano praticamente mai, minacciano e basta. Spesso ci siamo trovati in forte imbarazzo perché per arrivare a certi
 personaggi pericolosi bisognava in qualche modo premiare o ingraziarsi altri personaggi discutibili. Beh, bastava un nostro contatto per far saltare i nervi agli americani, che non hanno mai una gran diplomazia con quella gente. Inseguono, catturano, interrogano, e a volte distruggono, nulla di più. Non è facile andarci d'accordo".

Ancora peggio va con i britannici, che non celano il disprezzo verso gli italiani. L'incursore pensa all'ex collega passato al Sismi, catturato e ucciso dal fuoco amico durante un raid inglese per liberarlo. Altra vicenda chiusa nel silenzio, quella di Lorenzo D'Auria, morto nello scorso ottobre senza che nessuno cercasse di fare luce sul comportamento degli alleati nel blitz: "Se nella macchina degli ostaggi ci fosse stato il principe Carlo e non due italiani e un afgano, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente".
Noi italiani siamo diversi, non c'è dubbio. Abbiamo anche provato a costruire scuole e ospedali, in Afghanistan: li mandano avanti numerose organizzazioni non governative, "ma poi i talebani impediscono ai maestri e ai dottori di lavorarci. Lo vedi questo?" Sullo schermo del laptop appare una testa tagliata, gli occhi socchiusi su una pozza di sangue scuro: "Questo non era mica un criminale, era uno che secondo i talebani collaborava con noi. Gli hanno staccato la testa in un minuto con un semplice coltello svizzero pieghevole. Non è gente che va per il sottile". E chi gestisce ospedali a disposizione di tutti, come Emergency? "Emergency sta lì perché paga, come fanno tutti. Non in dollari, ma paga. Curando tutti, in primis quelli che hanno il potere di concederle di restare laggiù a lavorare. Il potere è in mano ai talebani".
Altre foto. Si vede un veicolo italiano distrutto in un'imboscata. L'equipaggio se l'è cavata. E in Italia di quell'attacco non si è saputo nulla: "Chi ci gestisce non si rende nemmeno conto. Eppure i nostri politici sono a poche ore di jet da noi, potrebbero aiutarci in tempo reale. Invece vorrebbero che fosse fatto tutto e subito. Ma come si fa ad averla vinta con gente che non ha mai visto se non la guerra? Sai che cosa hanno loro che noi non abbiamo? Hanno tempo. Piazzare una mina in mezzo ad una strada ed aspettare costa poco, ma richiede tempo. Loro ne hanno in abbondanza. Basta che solo un colpo vada a segno e hanno il massimo della resa con il minimo della spesa".
L'incursore ce l'ha con chi lo manda a combattere senza metterlo in condizioni di vincere. E senza dargli nemmeno l'arma più preziosa: il tempo. "È sempre stato così: vogliono tutto e subito, come in una eterna campagna elettorale. Invece per formare gente come noi serve tempo, è un mestiere dove nessuno ti insegna nulla, se non fai esperienza. E fare esperienza è rischioso".
Essere abbandonati a se stessi, in certi posti, può fare la differenza tra la morte e la vita: "Il nostro sistema di Intelligence, e anche le nostre forze speciali, operano secondo uno schema puramente difensivo. Noi non siamo in guerra con l'Afghanistan e la nostra Costituzione ci impedisce qualunque azione offensiva".
Lui obbedisce e combatte, anche se crede sempre di meno. Sa che difendersi è ancora più rischioso: richiede gente che sappia controllare e controllarsi. In situazioni veramente estreme "siamo rimasti in pochi operativi: per ogni uomo in teatro ce ne sono mille che ingrassano in Patria. E tutti vogliono comandare: lo sai che io parto tra poco per l'ennesima missione e non ho un obiettivo da raggiungere? Parto in missione, e non ho una missione".
E allora, perché non si toglie quell'uniforme? A uno come lui le opportunità di trovare un posto in un'azienda non mancano, è un professionista della sicurezza. "No, anche se sembra che mi lamenti, mi piace il mio lavoro. Sono vent'anni che sono in giro, ne ho viste di tutti i colori, e posso dire con certezza che sono molte più quelle che abbiamo preso di quelle che abbiamo dato. Ma nessun politico potrà mai venire a dirmi che non ho lavorato".

Edoardo Crainz è chirurgo ortopedico e tenente della riserva della Folgore, con cui è stato in missione in Afghanistan e in Iraq
(29 luglio 2008)

 

 
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