Palestina dal collasso di Oslo alla speranza dello stato unico di Jamil Hilal*




un importante documento:

il manifesto 19 07 2007  

Un sentimento di disperazione ha cominciato a diffondersi tra i palestinesi dopo il collasso dei negoziati di pace israelo-palestinesi sullo status finale, del luglio del 2000. La vittoria elettorale di Hamas nelle elezioni legislative del gennaio del 2006, l'imposizione di sanzioni economiche e il boicottaggio politico contro il governo di Hamas e poi contro il governo di unità (Fatah-Hamas, ndt), formato in seguito agli accordi della Mecca del febbraio 2007, hanno annichilito ogni speranza. L'atmosfera di sfiducia è stata ulteriormente esasperata dai combattimenti tra Fatah e Hamas culminati con l'imposizione violenta del controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. Fatah, attraverso Abbas, ha risposto con l'istituzione di un governo di emergenza composto da tecnocrati indipendenti (accettabili dall'amministrazione Bush), che Hamas ha respinto mantenendo il suo governo nella striscia di Gaza. Malgrado le apparenze, l'Autorità palestinese (Anp) è stata isolata e resa politicamente irrilevante. Lo svuotarsi dell'Anp, l'emarginazione dell'Olp e lo sgretolamento della società palestinese hanno reso l'istituzione di uno stato palestinese indipendente e funzionante sui territori palestinesi occupati da Israele nel giugno del 1967, un'impresa immaginaria e uno slogan che intrappola la politica palestinese, distorce ogni prospettiva e ostacola la formulazione di una nuova visione.

Comunque, i palestinesi si sono resi conto che Oslo era una imboscata di Israele e Usa tesa a ostacolare le aspirazioni palestinesi all'indipendenza nazionale e alla libertà. Israele, sostiene la stragrande maggioranza dei palestinesi, non ha mai inteso porre fine all'occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza, smantellare gli insediamenti, accettare l'istituzione di uno stato palestinese indipendente e realizzabile con Gerusalemme est capitale, e non ha mai pensato di riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, come stabilito dalle risoluzioni delle Nazioni unite. Questo è reso evidente dalla continuazione della costruzione e dell'ampliamento delle colonie dopo gli accordi di Oslo, la costruzione di strade bypass, in stile apartheid (solo per israeliani), che collegano le colonie alle città e villaggi all'interno della linea verde, il mai terminato processo di ebraizzazione di Gerusalemme est e il suo isolamento dalla Cisgiordania. Ed è reso evidente anche dall'istituzione di centinaia di check point, barriere militari, chiusura di ampie aree della Cisgiordania, la costruzione di un muro di separazione, tutto realizzato sotto il pretesto della sicurezza. La devastazione intenzionale dell'economia palestinese è una prova ulteriore che l'ipotizzato stato palestinese (che lascerebbe fuori pezzi della Cisgiordania e della striscia di Gaza) resta subordinato economicamente a Israele e fortemente dipendente da un'assistenza esterna condizionante e da aiuti per ridurre l'alto livello di disoccupazione e povertà.

La politica e le affermazioni della classe politica dominante israeliana riguardo la seconda intifada hanno trasmesso al popolo palestinese il chiaro messaggio che il progetto di sovranità e autodeterminazione non era nell'agenda israeliana e nemmeno, nonostante le assicurazioni verbali, in quella delle potenze internazionali, in particolare di Stati uniti e Unione europea.

Quando Israele e le potenze internazionali hanno capito che Arafat insisteva sulla creazione di uno stato palestinese nella Cisgiordania e Gaza con capitale Gerusalemme est, lo hanno criminalizzato, assediato e boicottato. La morte di Arafat (per cause misteriose) non ha posto fine alla criminalizzazione e disumanizzazione del movimento palestinese, come dimostra il trattamento riservato a Mahmud Abbas (Abu Mazen) ignorato nonostante la sua esplicita posizione «moderata», l'impazienza per la ripresa dei negoziati di «pace» con Israele e la sua acritica accettazione delle direttive politiche americane e arabe «moderate». Israele ha fatto di tutto per screditare Abbas con l'intensificazione della colonizzazione della Cisgiordania, con l'assassinio e la detenzione di militanti e leader palestinesi, la frammentazione e l'incarcerazione della società palestinese e la distruzione delle istituzioni dell'Anp.

Il fallimento dell'Anp (e l'inattività delle istituzioni dell'Olp) nel costruire lo stato (che era stato il progetto che aveva dato al movimento nazionale palestinese la sua legittimità politica negli anni '70 e '80) è la ragione principale della crescita dell'influenza e della forza di Hamas. Il fallimento di Oslo era intrinseco perché non serviva agli interessi dei palestinesi, mirava solo a soddisfare gli interessi di un piccolo settore della classe media politica palestinese. Il popolo si è rivolto ad Hamas negli anni '90, e più tardi, perché ha respinto Oslo e ha dato voce alle critiche sulla corruzione e l'eccessiva burocratizzazione del vertice dell'Anp. La gente ha sostenuto Hamas non perché offra una credibile prospettiva per porre fine alla disperazione e all'impasse politica dei palestinesi, perché semplicemente non possiede questa capacità. In realtà la stessa Hamas ha contribuito all'impasse per mancanza di una chiara strategia, per la sua visione totalitaria e per la ripresa degli scontri con Fatah. I due maggiori movimenti politici non avrebbero dovuto asservire la lotta nazionale ai loro propri obiettivi.

Per questo occorre che il movimento nazionale palestinese torni all'idea di una Palestina unificata e democratica. Questa ipotesi sta guadagnando terreno tra i palestinesi: dentro Israele, dove la principale richiesta dei palestinesi è quella di trasformare Israele in uno stato per tutti i cittadini (ebrei e arabi), e l'accettazione dei palestinesi come una comunità nazionale; nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza (il 68 per cento, secondo una inchiesta dell'Università di Birzeit del 5 marzo 2007) dove cambiamenti imposti unilateralmente sul territorio, l'economia, e la demografia, hanno eroso le condizioni necessarie per la realizzazione di uno stato; e nella diaspora dove nessuna soluzione al conflitto israelo-palestinese può essere presa in considerazione senza il diritto al ritorno dei palestinesi. Una Palestina unita, come una casa per due popoli è l'unica opzione che può porre fine a un lungo conflitto sanguinoso, inaugurare un esperimento di fruttuosa coesistenza e cooperazione e ricreare una Palestina come luogo di riconciliazione culturale, religiosa ed etnica unificando le diversità. Ci sono condizioni necessarie che devono essere pensate ed elaborate, ma questa iniziativa deve essere incoraggiata e favorita.

*Sociologo, autore di numerosi libri sulla Palestina. E' co-editore della rivista quadrimestrale Journal of Palestine studies (edizione araba, pubblicata a Beirut e Gerusalemme)

 
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