Palestina e Israele: "Il giro della liberta'"



A seguire trovate un'interessante articolo di Uri Avneri (figura storica del pacifismo israeliano) tradotto dall'ufficio di Luisa Mrgantini.
Una riflessione originale su tre questioni su cui spesso anche in Italia si fa confusione:
1) reale utilita' del boicottaggio contro i prodotti israeliani
2) differenze tra l'apartheid in Sudafrica e l'occupazione israeliana in Palestina
3) due popoli, due stati o stato bi-nazionale

Buona lettura
Associazione per la Pace - ufficio nazionale




                                                                            “A Freedom Ride”

Il giro della libertà

Di

Uri Avneri

20.01.07

 

Il Mahatma Ganghi lo avrebbe adorato. Nelson Mandela lo avrebbe salutato con entusiasmo. Martin Luther King sarebbe stato il più emozionato – gli avrebbe ricordato dei vecchi tempi.

Ieri stava per entrare in vigore, un decreto dell’Ufficio del Comandante del Settore Centrale, Generale Yair Naveh. Il decreto proibisce ai conducenti israeliani di avere in macchina passeggeri palestinesi nei territori occupati. Il generale - indossatore di Kippah fatte a mano e amico dei coloni - ha giustificato l’ordine come una necessità vitale per la sicurezza. In passato, gli abitanti della Cisgiordania riuscivano qualche volta a raggiungere i territori israeliani su vetture israeliane. Gli attivisti per la pace israeliani hanno deciso che bisogna protestare contro questo nauseante ordine. Diverse organizzazioni hanno pianificato azioni di protesta per il giorno in cui il decreto sarebbe entrato in vigore. Hanno organizzato un“Freedom ride” ovvero “Un giro della libertà”, per cui i proprietari israeliani di macchine che stavano entrando in Cisgiordania (una offesa criminale di per sé)  avrebbero dato un passaggio ai palestinesi locali, che si sono prestati come volontari per l’azione. Una iniziativa impressionante solo da organizzare. Conducenti israeliani e passeggeri palestinesi che infrangono apertamente la legge, affrontando possibili arresti e processi nelle corti militari. Ma all’ultimo momento, il generale “ha congelato”l’ordine. La manifestazione è stata annullata. L’ORDINE che è stato sospeso (ma non ufficialmente revocato) emetteva un forte odore di apartheid. Si unisce a una lunga serie di azioni delle autorità di occupazione che sono reminiscenze del regime razzista del Sudafrica, così come la sistematica costruzione di strade in Cisgiordania solo per gli israeliani e sulle quali ai palestinesi è vietato l’accesso. O la legge “temporanea” che vieta ai palestinesi nei territori occupati, che hanno sposato un cittadino o una cittadina israeliano/a, di vivere con il proprio coniuge in Israele. E, cosa più importante, il Muro, ufficialmente denominato “l’ostacolo della separazione”. In Afrikaans, “apartheid” vuol dire separazione. La “visione” di Ariel Sharon e di Ehud Olmert mira allo stabilimento di uno “Stato Palestinese” così definito: una stringa di isole palestinesi in un mare israeliano. E’ facile individuare una similarità tra gli enclavi pianificati ed i “Bantustans” che erano stati creati dal Regime bianco in Sudafrica – la così chiamata “homeland” dove i neri dovevano teoricamente godere di un “auto-regolamento” ma che in realtà altro non erano che campi di concentramento razzisti. In virtù di questo, noi siamo nel giusto quando utilizziamo il termine “apartheid” nella nostra lotta quotidiana contro l’occupazione. Parliamo di “Muro dell’Apartheid” e di “metodi di Apartheid”. L’ordine del Generale Naveh ha praticamente fornito una sanzione ufficiale all’utilizzo di questo termine. Anche istituzioni, da sempre lontane dal pacifismo radicale lo hanno messo in relazione con il sistema di apartheid. Per questo, il titolo del nuovo libro dell’ex presidente Jimmy Carter è pienamente giustificato “Palestina – Pace non Apartheid”. Il titolo ha sollevato l’ira degli “amici di Israele” molto più di quanto non abbiano fatto i suoi contenuti. Come ha osato? Paragonare Israele ad un oberrante regime razzista? Alludere che il governo di Israele sia motivato dal razzismo, quando tutte le sue azioni sono mirate esclusivamente dalla necessità di difendere i propri cittadini contro i terroristi arabi? (Tra le altre cose, nella copertina del libro vi è una foto di una manifestazione contro il muro organizzata da Gush Shalom e da Ta’ayush. Il naso di Carter punta verso un nostro poster che cita: “Il Muro – Prigione per i palestinesi, Ghetto per gli Israeliani”). Sembra che lo stesso Carter non fosse pienamente soddisfatto con l’utilizzo di questa terminologia. Lui ha dichiarato, anche se non esplicitamente, che era stato aggiunto sotto richiesta degli editori, che hanno pensato che un titolo provocante avrebbe stimolato la pubblicità. Se cosi è stato, la strategia è stata un successo. La famosa lobby ebraica è stata pienamente mobilitata. Carter è stato tacciato di essere  anti-semita e bugiardo. La tempesta scatenatasi attorno al titolo ha spostato qualsiasi dibattito inerente ai fatti citati nel libro, che non sono stati messi seriamente in discussione. Il libro non è ancora apparso nella versione ebraica. MA QUANDO usiamo il termine “Apartheid” per descrivere la situazione, dobbiamo essere consapevoli del fatto che la somiglianza tra l’occupazione israeliana ed il regime bianco in Sudafrica riguarda i metodi, e non la sostanza. Su questo si deve fare chiarezza, in modo tale da prevenire gravi errori di analisi della situazione e delle conclusioni che da essa si possono trarre. E’ sempre pericoloso disegnare analogie con altri paesi ed altri tempi. Mai due paesi e due contesti sono identici. Ogni conflitto ha le sue specifiche radici storiche. Anche quando i sintomi sono gli stessi, la malattia potrebbe risultare parecchio diversa. Queste riserve si applicano tutte ai paragoni tra il conflitto israelo-palestinese ed il conflitto storico tra bianchi e neri in Sudafrica. E’ sufficiente evidenziare alcune differenze: (a) In Sudafrica vi era un conflitto tra neri e bianchi, ma entrambi erano d’accordo che lo stato del Sudafrica doveva rimanere intatto – la questione risiedeva esclusivamente sul fatto di chi lo avrebbe governato. Praticamente nessuno propose di dividere il paese tra neri e bianchi. Il nostro conflitto è tra due diverse nazioni con diverse identità nazionali, ognuna delle quali colloca il proprio stato nazione come valore supremo. (b) In Sudafrica, l’idea di “separazione” è stata uno strumento della minoranza bianca per l’oppressione della maggioranza nera, e la popolazione nera lo ha rigettato all’unanimità. Qui, la stragrande maggioranza di palestinesi vuole essere separato da Israele per poter stabilire uno stato per proprio conto. La stragrande maggioranza degl’israeliani, anche, vuole essere separata dai palestinesi. La separazione è l’aspirazione delle maggioranze di entrambi i lati, e la vera questione risiede nel confine che ci dovrebbe essere. Dal lato israeliano, soltanto i coloni ed i loro alleati rivendicano la volontà di mantenere l’intera area storica del paese unita e obiettano la separazione, per poter rubare ai palestinesi la loro terra e poter espandere gli insediamenti. Dal lato palestinese, i fondamentalisti islamici anche credono che tutto il paese è un “waqf” (credo religioso) ed appartiene ad Allah, e per questo non può essere diviso. (c) In Sudafrica, una minoranza bianca (all’incirca il 10 %) ha governato su una immensa maggioranza nera (78%), persone di razza mista (7%) ed asiatici (3%). Qui, tra il Mediterraneo ed il fiume Giordano, ci sono attualmente 5.5 milioni di ebrei-israeliani ed un numero eguale di arabi palestinesi (inclusi il 1.4 milioni di palestinesi che sono cittadini di Israele). (d) L’economia sudafricana era basata sul lavoro svolto dalla popolazione nera e non sarebbe mai potuta esistere senza di esso. Qui, il governo israeliano è riuscito ad escludere i palestinesi non israeliani quasi completamente dal mercato del lavoro israeliano rimpiazzandoli con lavoratori stranieri. E’ importante evidenziare queste differenze fondamentali per poter prevenire gravi errori nella strategia della lotta volta a porre fine all’occupazione. In Israele ed all’estero ci sono persone che citano questa analogia senza prestare attenzione alle differenze essenziali tra i due conflitti. La loro conclusione: i metodi che si sono rivelati vittoriosi contro il regime sudafricano possono essere applicati nuovamente nella lotta contro l’occupazione – principalmente, mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale, boicottaggio internazionale ed isolamento. Ciò rappresenta la reminescenza di  un falso mito, che un tempo si insegnava nelle lezioni di logica: un Eschimese conosce il ghiaccio. Il ghiaccio è trasparente. Il ghiaccio può essere masticato. Quando si da un bicchiere di acqua anche questo è trasparente, e quindi si pensa che sia masticabile.

Non vi è dubbio che sia essenziale sollevare l’opinione pubblica internazionale contro il trattamento criminale della popolazione palestinese ad opera delle autorità di occupazione. Lo facciamo tutti i giorni, come Jimmy Carter sta facendo. Comunque, deve essere chiaro che questo è senz’altro molto più complesso della campagna che ha portato al rovesciamento del regime sudafricano. Una delle ragioni: durante la Seconda Guerra mondiale, le persone che più tardi sarebbero diventati i governanti del Sudafrica cercarono di sabotare gli sforzi anti-nazisti e furono imprigionati, e per questo si sollevò ovunque nel mondo il ripudio. Israele è accettata dal mondo come lo “stato dei sopravissuti all’Olocausto”, e per questo solleva ovunque simpatia. E’ un errore serio pensare che l’opinione pubblica internazionale metterà fine all’occupazione. Ciò avverrà soltanto quando l’opinione pubblica israeliana sarà convinta lei stessa del bisogno di farlo. Vi è inoltre un’altra importante differenza tra i due conflitti, e questa potrebbe risultare ancora più pericolosa di qualunque altra: in Sudafrica, nessun bianco avrebbe mai sognato la pulizia etnica. Anche i razzisti avevano capito che il paese non avrebbe potuto sopravvivere senza la popolazione nera. Ma in Israele, questo obiettivo si sta prendendo seriamente in considerazione, sia apertamente che in segreto. Uno dei suoi più grandi fautori, Avigdor Lieberman, è un membro del governo e la settimana scorsa Condoleeza Rice lo ha incontrato ufficialmente. L’Apartheid non è il peggior pericolo che pende sulle teste dei palestinesi. Sono minacciati da qualcosa infinitamente più grave: “ il trasferimento”, che significa totale espulsione. ALCUNE PERSONE in Israele e intorno al mondo seguono l’analogia dell’Apartheid sino alle sue conclusioni: la soluzione qui sarà la stessa del Sudafrica. Lì i bianchi si sono arresi alla maggioranza nera che ha assunto il potere. Il paese è rimasto unito. Grazie a leader saggi, guidati da Nelson Mandela e Frederick Zillem de Klerk, questo è potuto accadere senza spargimenti di sangue. In Israele, ciò costituisce un bellissimo sogno sino alla fine dei giorni. Per via delle persone coinvolte e per le proprie paure si trasformerebbe in un incubo. In questo paese ci sono due popoli con una forte coscienza nazionale. Dopo 125 anni di conflitto, non vi è la minima possibilità che possano abitare in uno stesso stato, condividere lo stesso governo, servire lo stesso esercito e pagare le stesse tasse. Economicamente, tecnologicamente ed a livello didattico, il vuoto tra le due popolazioni è immenso. In una tale situazione, le relazioni di potere simili a quelle dell’apartheid in Sudafrica si solleverebbero senz’altro. In Israele, il demone demografico persiste. Sussiste una paura di natura esistenziale tra gli ebrei che da vita alla convinzione che il bilancio demografico cambierà anche dentro la Linea Verde. Ogni mattina i bambini si contano – quanti bambini ebrei sono nati la scorsa notte, e quanti arabi. In uno stato condiviso, la discriminazione crescerebbe a dismisura. La corsa per deprivare ed espellere non conoscerebbe limiti, le attività rampanti degli insediamenti ebraici fiorirebbe, insieme con gli sforzi di svantaggiare gli arabi su tutti i campi. In breve: l’Inferno. SI PUO’ sperare che questa situazione cambi fra cinquant’anni. Io non ho dubbi che alla fine, una federazione tra i due stati, forse includendo anche la Giordania, potrebbe nascere. Yasser Arafat ne aveva parlato con me diverse volte. Ma né i palestinesi né gli israeliano possono permettersi altri 50 anni di spargimenti di sangue, di occupazione e di lenta pulizia etnica. La fine dell’occupazione arriverà nell’ambito di un contesto di pace tra i due popoli che abiteranno in due stati liberi e vicini – Israele e Palestina – con un confine tra loro tracciato dalla Linea Verde. Io spero che questo possa essere un confine aperto. Forse allora – inshallah – i palestinesi potranno girare liberamente sulle macchine israeliane, e gli israeliani gireranno liberamente sulle macchine palestinesi.

Quando quel tempo arriverà, nessuno si ricorderà del Generale Yair Naveh, o perfino del suo capo, Generale Dan Halutz. Amen.

 

Traduzione a cura di Teresa Maisano