[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 725



 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVI)

Numero 725 del primo luglio 2015

 

In questo numero:

1. Oggi a Viterbo

2. Anna Bravo presenta "Il femminismo degli anni Settanta" a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno (2005)

3. Anna Bravo: Oppressione di genere e liberta' sessuale e sentimentale (2006)

4. Anna Bravo: Della famiglia, dell'eros e dell'amore (2007)

5. Anna Bravo: Donne nella Resistenza (2009)

6. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"

 

1. INCONTRI. OGGI A VITERBO

 

Oggi, mercoledi' primo luglio, con inizio alle ore 17,30, a Viterbo presso il Palazzetto della Creativita' in via Carlo Cattaneo 9 (sito nell'area del complesso scolastico degli istituti comprensivi Canevari e Vanni), si svolge l'incontro del "Tavolo per la pace" di Viterbo.

Per ulteriori informazioni e per ogni comunicazione il punto di riferimento e' come sempre Pigi Moncelsi: tel. 0761348590, cell. 3384613540, e-mail: pmoncelsi at comune.viterbo.it

 

2. LIBRI. ANNA BRAVO PRESENTA "IL FEMMINISMO DEGLI ANNI SETTANTA" A CURA DI TERESA BERTILOTTI E ANNA SCATTIGNO (2005)

[Dal quotidiano La Repubblica del 14 dicembre 2005 col titolo "Troppi pudori tra femministe".

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014.

Teresa Bertilotti, storica, fa parte del direttivo della Societa' italiana delle storiche e della redazione della rivista "Genesis"; i suoi principali interessi di ricerca riguardano la storia delle istituzioni scolastiche nell'Italia liberale con particolare attenzione all'istruzione femminile, la storia delle donne e gli studi di genere.

Anna Scattigno, storica, insegna Cristianesimo e storia di genere presso l'Universita' di Firenze; si occupa di storia religiosa dell'eta' moderna e contemporanea, e di storia delle donne; fa parte della Societa' italiana delle storiche, di cui e' stata presidente nel biennio 2001-2003]

 

Per Jerry Rubin, leader dei movimenti americani contro la guerra del Vietnam, chi diceva di avere ricordi precisi di quegli anni, probabilmente non li aveva vissuti; era stata un'esperienza cosi' intensa che per lo piu' se ne conservavano immagini puntiformi, disseminate in un flusso di emozioni (solo per alcuni di natura psichedelica). Visione un po' romantica e un po' vera. Tempo qualche anno, e' cominciato il tentativo di mettere a frutto quei frammenti, tanto piu' utili perche' nel '68, e forse ancora all'inizio degli anni Settanta, si scriveva moltissimo e si conservava pochissimo.

Ricreare la propria memoria e' una sfida per tutti i movimenti e le esperienze collettive. Memoria come strumento per la storia, e qui ci si affida a metodi collaudati; memoria come oggetto specifico di ricerca, come racconto con la sua cifra, le stilizzazioni, derive, errori, e con la particolare verita' che esprimono. Si potrebbero fare molti esempi del modo in cui da un ricordo vago, da una datazione sbagliata, si puo' risalire a un mondo. Negli anni Ottanta alcuni metalmeccanici di Terni, intervistati da Alessandro Portelli, gli avevano raccontato che nell'ottobre 1953, durante un ciclo durissimo di lotte per il lavoro, un giovane operaio era stato ucciso dalla polizia. Se non che, il fatto era avvenuto nel 1949, nel corso di una manifestazione contro l'ingresso italiano nella Nato. Slittamento non deliberato ma non incidentale, che rifletteva la spinta a trasformare quella morte, interna a una battaglia perduta, in un potente simbolo della tradizionale combattivita' ternana. La data era falsa, l'orgoglio operaio era vero. Come sono vere, nella memoria dei deportati, la certezza dell'indicibilita' del Lager, e nello stesso tempo il suo opposto, la determinazione a trovare le parole per dirlo.

Memoria, verita', indicibilita' mi sono tornate in mente leggendo un libro appena uscito, Il femminismo degli anni Settanta (Viella), dedicato al rapporto con i movimenti coevi. E' un insieme di saggi nati dal corso 2004 della Scuola Estiva della Societa' delle Storiche, che riunisce ogni anno intorno a temi diversi donne di piu' generazioni, docenti e discenti. Come scrivono le curatrici, Anna Scattigno e Teresa Bertilotti, il femminismo e' il luogo di un vuoto storiografico, e di un lutto mancato per il suo esaurimento a fine decennio, dopo una rivoluzione incruenta, ma perturbante, specie in Italia. Bisogna tornare indietro nel tempo e immaginare un paese latino, cattolico, da poco approdato alla piena modernita', in cui le donne, alcune, poi molte, poi una folla, scoprono (e lo dicono): che i comportamenti personali hanno rilevanza politica, che l'infelicita' non e' una defaillance individuale, ma il prodotto di una societa' e di una cultura nemiche delle donne; che neppure i movimenti "antagonisti" sono immuni da questo vizio di origine, e dunque a un certo punto diventa necessario separarsene; che al centro di tutto sta la ricerca dell'autodeterminazione nella vita quotidiana, in politica, nella sessualita', nella maternita' e nel suo rifiuto, e che al centro del centro sta il corpo. Alcune acquisizioni sono ormai cosi' radicate da sembrare ovvie, e dovranno farci i conti gli attacchi alla legge 194 sulla legalizzazione dell'aborto. Dobbiamo farli anche noi storiche: l'ovvio uccide la curiosita', dunque bisogna risuscitarla con racconti convincenti.

Ricco di stimoli per un pubblico colto non specializzato, Il femminismo degli anni Settanta argomenta con efficacia quanto gia' sedimentato nel dibattito storiografico, senza introdurre grandi novita' o svolte (il che e' inevitabile nei testi legati all'insegnamento). Proprio per questo potrebbe essere visto come il manifesto per una "buona storia" del femminismo. A tutt'oggi ne esistono soltanto spaccati, a volte belli ma circoscritti. Molti i vuoti di memoria, e non c'e' da stupirsi. Il problema serissimo nascosto nella boutade di Jerry Rubin per noi e' ancora piu' complicato. All'epoca c'era una intensita' emotiva straordinaria, specie nell'autocoscienza, e puo' esserci anche nell'analizzarla, perche' l' identita' e' chiamata in causa in modo unico: si diventa ex studenti, ex militanti, donne si e' sempre. Chi altri, nel nostro bianco occidente, potrebbe vivere il rapporto fra quel che si e' e quel che si studia con altrettanta profondita'? Che la storia stenti a comunicare tutto questo e' quasi scontato, un'emozione non e' qualcosa che si racconta, e' qualcosa che si suscita. Ma parlare di indicibilita' prima di aver sperimentato ogni risorsa narrativa mi sembra rinunciatario. Benvenute allora le domande "inopportune", "anacronistiche", benvenuti gli azzardi. Chi ha detto che prima di mettere in comune le proprie idee bisogna aspettare che siano ben sistemate? E chi avrebbe titolo per dirlo? Questione di autorevolezza culturale e esistenziale, certo, ma anche di ruoli istituzionali, relazioni, assertivita' personale, poteri, visibilita'.

Mi ha colpito in questo libro il discorso di Anna Rossi-Doria sul rapporto femminismo/democrazia, esaminato con uno sguardo che mi sembra possa essere esteso al '67-'68. Ho sempre considerato una conquista l'abbandono dell'idea secondo cui la liberta' delle persone dipende esclusivamente dalla loro posizione economica e lavorativa; ma leggendo i rilievi dell'autrice sulla mancata analisi delle differenze di classe e di cultura fra donne, mi chiedo se quella conquista non abbia involontariamente contribuito a eludere la questione. Lo stesso vale per l'informalita' nel movimento; abbiamo tutte diffidato delle regole e degli organigrammi, ma il rifiuto di averne, scrive Rossi-Doria, ha incentivato forme di leadership carismatica e una fusionalita' soffocante: presupporre una parita' che non c'e', e' la peggiore caricatura della democrazia.

Anche sul ruolo della psicoanalisi, amata/odiata, smontata e ripensata, la messa a fuoco sui rapporti scelta da Manuela Fraire e Lea Melandri funziona, e cosi' il confronto con altri paesi proposto da Elda Guerra, in un viaggio attraverso le molte origini e i molti inizi del femminismo.

Fra i contributi piu' corposi, quello di Emma Baeri sulle lotte contro l'installazione di missili Nato a Comiso in risposta agli SS20 sovietici puntati verso l'Europa occidentale. Siamo nei primi anni Ottanta, nel pieno della mobilitazione pacifista internazionale, e in Sicilia nasce un "disarmismo" femminista che stringe rapporti con altri gruppi, soprattutto inglesi, e pratica forme di lotta inedite. Come il blocco dell'aeroporto Magliocco con una rete di fili colorati, a sostegno delle donne che nell'ottobre 1982 accerchiano la base di Greenham, appendendo alla recinzione indumenti, fotografie, pentole, ogni sorta di pacifici oggetti domestici. Forse qualcuno ricorda la grande manifestazione dell'8 marzo 1983 a Comiso. Eppure, l'anno dopo, un intervento della Libreria delle donne si dava per titolo "Inizio di un discorso sulle guerra e sulle donne". Inizio? Evidentemente le donne di Comiso erano diventate invisibili persino alle loro simili, scrive Baeri. Difficile non vedere qui un altro problema di democrazia.

Fra gli aspetti piu' interessanti, la presenza di giovani ricercatrici: forse e' l'eta', anche se non solo l'eta', che permette a Elena Petricola uno sguardo sereno sulle femministe militanti dei gruppi extraparlamentari, strette fra la diffidenza delle femministe "originarie" e quella dei compagni, rischio comune per chi vuol fare da ponte fra realta' diverse. Come scriveva Alexander Langer nel 1964 a proposito dei due nazionalismi contrapposti in Sud-Tirolo, se si vogliono cercare soluzioni equilibrate e aperte all'altro, "bisogna accettare di essere chiamati traditori".

Altrettanto serenamente Liliana Ellena racconta il movimento dei consultori e il femminismo sindacale, nato a Torino e coprotagonista di molte lotte.

Ancora Petricola e Ellena, insieme a Luisa Passerini, presentano un testo in cui la differenza generazionale e' misurata su piu' terreni, in particolare sulla concezione del corpo. Che Passerini dipana poi in una riflessione metodologica personale sui modi (casuali, strutturati, densi di fisicita', disincarnati) in cui le italiane entrano in rapporto prima con il femminismo americano, poi con le francesi.

Infine Carmen Leccardi affronta il tema della vita quotidiana con un occhio agli anni Settanta e uno al presente, concludendo che l'incertezza del futuro ha ormai trasformato questo ambito nell'ultima riserva per l'invenzione e la trasformazione.

Non e' una guida all'ortodossia femminista, questo libro, poco sentenzioso, su certi aspetti eterogeneo, con saggi che a mio parere indugiano troppo sulle controversie di un tempo e altri piu' mirati all'oggi, con valutazioni diverse sulle fonti. Eppure trasmette un senso di coesione. Sara' l'interesse a esperienze internazionali e al rapporto con la politica, sara' il largo ricorso alla memoria autobiografica - peccato per il linguaggio, a volte ancora infiltrato di gergalismi e poco accogliente. Sara' il tono un po' guardingo, quasi un tenersi a distanza di sicurezza da temi ritenuti inappropriati - con qualche motivo, visto che la pluralita' delle memorie e delle verita' e' spesso sboccata nella contrapposizione frontale. Ci mancano, purtroppo, stili di conflitto capaci di non rendere irreversibili le tensioni, di elevare il tasso di democrazia nel confronto fra noi e dentro di noi, capaci insomma di contemplare sempre la tregua. Ma e' anche una questione di sostanza: esplicitamente o meno, il "cattivo" della storia mi sembra la Libreria delle donne di Milano, il gruppo italiano piu' influente, che spostando l'accento sul simbolico, avrebbe scacciato il corpo, la politica, il pensiero libero, e decretato i criteri della rispettabilita' femminista e della legittimita' nella ricerca. Quanto sia e sia stato cosi', e' una domanda cui probabilmente le giovani applicano uno sguardo piu' leggero.

 

3. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: OPPRESSIONE DI GENERE E LIBERTA' SESSUALE E SENTIMENTALE (2006)

[Dal quotidiano "La Repubblica" del 4 marzo 2006 col titolo "Sesso e Sessantotto"]

 

"Gli uomini liberati avevano bisogno di pupe disinvolte al passo col nuovo stile di vita, avevano bisogno di sesso e questa era la sola cosa, guai se le pupe chiedevano in cambio una vecchia devozione, diventava una lagna deprimente, la pupa doveva essere indipendente per non essere una noia attaccaticcia". Nella Dialettica dei sessi Shulamit Firestone racconta cosi' i primi tempi del movimento americano, inizio anni '60. Se sembra troppo sarcastica, bisogna ricordare che il libro e' del '70, nel pieno del conflitto donne/studenti. Da noi circolava la formula: "Non vorrai dirmi di no, se sei davvero libera (e/o intelligente indipendente brava compagna)". Poche parole, ma molto interessanti per la storia delle mentalita' maschili. Perche' soppiantavano il vecchio "non puoi dirmi no se mi ami veramente", su cui si erano angosciate tante delle lettere raccolte da Gabriella Parca in Le italiane si confessano; e perche' sposavano senza pudore l'ideologia secondo cui la liberta' delle donne si misura sul loro grado di disponibilita' sessuale. L'argomento non funzionava sempre, ma spesso si', soprattutto se il maschio si era coperto di gloria in uno scontro con la polizia, aveva talento per l'oratoria da assemblea, un posto nella dirigenza, un ruolo di operaio d'avanguardia. Il corollario era che fare l'amore non implicava affatto un impegno stabile. Con la crescita del femminismo, qualcuno sosterra' che ormai toccava alle donne, specie se autorevoli, prendere l'iniziativa per risparmiare ansie ai compagni in crisi. Non vorrei dare l'idea di pressioni pesanti, di una strategia generalizzata. Se non c'era desiderio, se si preferiva un altro (o dormire dodici ore di fila), ovvio che si poteva tranquillamente rifiutare, e i respinti si rassegnavano senza tante storie; si poteva rifiutare anche se si pensava che sesso e amore erano cose complicate e delicate - ma questo lo si diceva di rado.

Non vorrei neppure che ne uscisse sopravvalutato il posto delle relazioni sessuali nella vita collettiva. Contrariamente a uno stereotipo infrangibile, nel '68 il sesso non era una priorita'. Poteva sembrarlo a chi guardava dall'esterno, e a vedere quella quantita' di persone giovani e irriverenti immaginava notti strepitose. Mentre piu' che altro si dormiva. A Torino, qualche poliziotto favoleggiava di "tigri del materasso", e non c'erano ne' le une ne' l'altro, se mai sacchi a pelo. Neanche negli anni '70 tirava aria di libertinaggio, ai gruppi della sinistra extraparlamentare la rispettabilita' stava piuttosto a cuore. Resta il fatto che per molte e diverse ragioni dire di no non era facile, in particolare per le piu' giovani, che magari sentivano di avere qualcosa da dimostrare a se stesse e agli altri; che a volte finivano per essere piu' realiste del re. Ricordo lo sbalordimento di un amico per il fatto che una giovane militante, dopo aver passato la notte con lui, la mattina lo aveva guardato come un perfetto estraneo. Cosa non si fa per proteggersi da possibili delusioni.

Eppure, e questo e' un pezzo di storia delle donne, la verita' non sta tutta qui. La "rivoluzione sessuale" degli anni Sessanta e Settanta si dipana in forme impreviste, sconnesse, spurie, creative, che si lasciano irregimentare solo in parte nel conformismo di gruppo. Una ragazzina di allora l'ha spiegato bene in una intervista collettiva condotta da Alberto Papuzzi a vent'anni dal '68: una cosa era restare avvinghiate ai precetti familiari e religiosi, un'altra misurarsi con le suggestioni di un'appartenenza decisa liberamente, con il suo bello e il suo brutto, le sue componenti di maschilismo e quelle di solidarieta', di insicurezza e di arroganza. Aver scelto dava ai comportamenti un potenziale di sperimentazione che il sospetto di essere usate non bastava a svuotare. Certo, ci si conformava pur sempre a un sistema di rilevanze; ma visto che non si fluttua nel vuoto, rifiutare un modello implica aderire in varia misura a un altro. Che possa esistere un "anticonformismo" rispetto al mondo intero, questa si' e' ideologia. Per di piu', era duro ammettere i lati miseri di un'esperienza che assomigliava a modo suo alla felicita' pubblica evocata da Hannah Arendt.

L'aspetto piu' amabile e fugace del '68 e' stata un'accezione di liberta' diversa da quella classica, secondo cui la mia finisce nel punto in cui comincia la tua, quasi dovessero inevitabilmente competere e tollerarsi a vicenda. Allora le liberta' sembravano camminare insieme, non liberta' "di", "da", "fin dove", ma liberta' "con", vissute in una sintonia in parte immaginaria, ma in parte reale. Bisogna anche dire che l'equazione liberta' femminile = disponibilita' sessuale era intergenerazionale, interclassista, con localizzazioni le piu' varie, dalla New York della lost generation alle fabbriche fordiste alle gite scolastiche alle canzoni - Bocca di rosa insegna. E aveva una sua storia, e naturalmente un'eco nella storiografia.

Negli anni Settanta, per esempio, c'era un importante storico ottimista e progressista, Edward Shorter, che adorava le certezze delle serie statistiche e credeva fermamente che i mutamenti nell'economia dovessero sempre portare a una trasformazione nelle culture. Aveva notato che fra la meta' del '700 e la fine dell'800 era molto cresciuta la percentuale di illegittimita', e cosi' le gravidanze preconiugali, triplicate o quadruplicate nelle zone dove dominava la manifattura tessile. Ne usciva una tendenza generale nella demografia europea: possibile che non ci fosse un legame con l'industrializzazione e l'urbanizzazione che proprio allora andavano sviluppandosi? Infatti un legame c'e'. Per Shorter (Famiglia e civilita', Rizzoli, 1978) l'alta illegittimita' sarebbe la conseguenza del nuovo modello produttivo e della nascente proletarizzazione della forza-lavoro. Conseguenza positiva, a suo parere, sintomo di un mutamento spettacolare di valori, che vedrebbe i e le giovani ribellarsi al controllo della famiglia e della comunita' sui comportamenti sessuali e sul matrimonio. Di qui, una rivoluzione sessuale, vale a dire "un bel po' di sesso, corteggiatori all'arrembaggio, nascita di figli illegittimi"; e una rivoluzione sentimentale, in cui viene rivendicata l'importanza delle inclinazioni affettive nelle scelte di coppia. Mentre l'economia familiare tradizionale e i vincoli comunitari si indeboliscono, nascono l'individualismo e la voglia di liberta', che presso la borghesia e' ostacolata dall'intreccio fra valori familiari e interessi patrimoniali, ma dilaga nelle classi popolari e al loro interno fra le donne.

Nell'immaginario di Shorter doveva aggirarsi una schiera di ex contadinelle che abbandonavano la castita' di un tempo per saltare di letto in letto e di gioia in gioia. Il tutto grazie al lavoro di fabbrica: la liberta' era effetto del salario, l'illegittimita' era la sua dimostrazione, le operaie le sue avanguardie. Peccato per Shorter che la realta' lo smentisca. Intanto, in quella fase le ragazze fanno per lo piu' le domestiche, le sarte, le cucitrici a domicilio; il lavoro di fabbrica riguarda una minoranza, e anche in questo caso possono sopravvivere i vecchi valori, come quando i padroni ricreano per le operaie condizioni di vita pseudofamiliari, compresi alloggiamenti sorvegliati; o quando i contatti con la comunita' d'origine perdurano. In secondo luogo, il salario, questa scorciatoia magica per l'emancipazione, viene spesso mandato per intero o in gran parte alla famiglia, e a volte sono i padroni a girarglielo direttamente. Terzo, per descrivere i comportamenti sessuali e' meglio non chiamare in causa nuove ideologie edonistiche. Fra le ragazze che avviano convivenze, probabilmente molte lo fanno sperando di costruirsi un nucleo familiare, per sfuggire al servizio domestico, per non patire piu' la fame; probabilmente quelle che dicono di si' a un uomo seguono la consuetudine corrente nelle campagne di fare all'amore dopo un impegno reciproco. Solo che in citta' non esistono le reti di controllo/protezione della parentela, della comunita' e della chiesa, che in passato avevano garantito lo sbocco del corteggiamento nel matrimonio.

Il legame fra demografia e industrializzazione esiste, ma va in senso opposto a quello caro a Shorter: anziche' un segno di autonomia, l'illegittimita' e' la conseguenza di matrimoni sperati e mancati. A scriverlo, non e' un caso, sono due donne, Joan Scott e Louise Tilly (Lavoro femminile e famiglia nell'Europa del XIX secolo, in C. E. Rosemberg (a cura di), La famiglia nella storia, Einaudi 1979), e un pacato storico uomo, Lawrence Stone, per il quale e' molto piu' credibile che a avere figli illegittimi fossero "le donne piu' povere, piu' ignoranti, piu' indifese e piu' sfruttate, e non gli esseri voluttuosi, allegri e edonisti evocati dai nostri romantici della sessualita'". Tesi saggia e realistica, se non che Shorter e' troppo occupato a adattare i fatti all'eterno sogno maschile di un'amante giovane, sensuale, poco impegnativa. Si puo' capirlo, ma non perdonarlo per aver dimenticato che di norma le operaie ottocentesche erano intristite, incattivite, abbrutite dalla fatica.

Ci vorra' tempo perche' le donne comincino a desiderare una vera liberta' sessuale e sentimentale, fino a diventare le protagoniste del passaggio dall'unione contrattuale a quella d'amore; i cambiamenti nelle culture hanno origini e ritmi propri. Ci vorra' tempo anche perche' le ragazze degli anni Settanta riescano a dire si' e no a seconda del proprio desiderio, e non come reazione in positivo o in negativo alle aspettative maschili. Chissa' se oggi - divisione dei ruoli sempre meno rigida, piu' donne che, pur con difficolta', si affermano nel lavoro, politica languente, un'inondazione di messaggi contrastanti - le giovani donne hanno maggiori opportunita' per capirsi. E' una speranza e un augurio.

 

4. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: DELLA  FAMIGLIA, DELL'EROS E DELL'AMORE (2007)

[Dal quotidiano "La Repubblica" del 23 giugno 2007 col titolo "La rivincita dell'eros"]

 

Se l'immagine della famiglia impropriamente detta tradizionale vive una crisi, su un punto sta vincendo - e che punto: il modello di eros. Nella discussione sulle convivenze "non regolamentari" (coppie di fatto, gay, unioni con persone trans), l'argomento piu' usato e' l'impegno reciproco, l'esclusivita', la lunga durata, se possibile la volonta' di generare: precisamente le caratteristiche del modello coniugale. Di stile di vita gay, che certo non e' quello degli anni Sessanta e Settanta, ma che ha espresso una cultura e un'estetica, praticamente non si parla piu'. E' la legge della politica, con il suo tasso di mezze verita'. Si ammette anche che l'eros matrimoniale possa avere le sue traversie, ma a breve termine e a lieto fine. Come nei racconti smagati, lievi, e molto determinati nelle loro tesi, di Annalena Benini (Le mie famiglie, ed. I libri del Foglio), dove fra tradimenti, ritorsioni, furori, a vincere e' immancabilmente l'amore coniugale, con il suo corredo di abitudini e irrequietezze, con qualche ritorno di fiamma fra i coniugi. E, soprattutto, con i figli. Rispetto a pochi anni fa, le cose stanno di nuovo cambiando. Gente di cultura, politici, attori, spesso si dichiarano orgogliosamente gelosissimi (e lusingati dalla gelosia del partner); chi non lo e' passa per un cuore arido. Il sesso non e' piu' una cosa sporca da riscattare nel matrimonio, anzi in certi ambienti "e' laico, gratuito, obbligatorio", come scrive Marina Terragni in un altro bel libro (La scomparsa delle donne, Mondadori).

Ma in molti e risonanti discorsi si precisa o si lascia capire che esistono pur sempre il polo buono del sesso per sempre e il polo cattivo della rapacita' estemporanea (in altre versioni, il polo del sesso come misterioso sperdimento e quello del sesso ginnico); e non si dimentica di dire che in mezzo c'e' il vuoto. Risultato: l'erotismo fuggevole, l'amicizia amorosa, il sesso non impegnato, senza progetti e senza diritti di esclusiva sui corpi, sono risucchiati al polo della negativita', declassati a tristissimo spreco (mentre le famiglie del Family Day erano felici, e perche' dubitarne?), a simulazione di liberta', e, naturalmente, a peccato. Ma l'effetto piu' pericoloso e' che il vuoto non prevede regole, limiti, mediazioni, graduazioni, e' un mondo dove puo' succedere di tutto: violentare, picchiare, mettere le mani addosso a chiunque (e lasciarsele mettere), fotografarsi in pose suggestive e mettersi in rete. Vale per gli adulti come per i giovani, con la differenza che i giovani non hanno ancora deciso cosa diventare, e le polarizzazioni favoriscono la via facile dell'estremismo.

Chissa' cosa puo' ricavare da questo insieme una ragazzina con tutte le paure e la baldanza della sua eta', una ragazzina che magari rifiuta di essere giudicata secondo l'equazione liberta' femminile = disponibilita' sessuale, ma neppure vuole apparire bigotta o rigida; che ha voglia di divertirsi senza dover programmare il futuro e senza sentirsi una deviante o una vittima ritardataria della "rivoluzione sessuale". E un ragazzo? Potrebbe pensare che al vuoto fra sesso impegnato e sesso predatorio corrisponda il vuoto fra madonna e puttana in versione aggiornata: da una parte la ragazza per la vita, dall'altra quella per la serata, oggetto che una volta consumato perde valore e si puo' dividere con gli amici - gli stupri di gruppo sono omaggi di maschi a maschi. E sintomi di una concezione cosi' miserevole dei rapporti uomo/donna e del sesso, di una tale incapacita' di immedesimarsi nella sofferenza altrui, che viene da chiedersi se abbia ancora senso pensare all'adolescenza come a un'eta' delicata da capire in ogni caso e prioritariamente. Oppure se la massima urgenza non sia difendersi da certi suoi orrori, ovunque si presentino, ai margini della societa' o al suo centro acculturato e agiato.

Ma il secondo imperativo e' cercare un modo per dare forma (nel duplice senso di improntare e contenere) alle relazioni e agli impulsi, e' fare ordine, e con l'ordine liberare spazi per rendere vivibili le contraddizioni. Il successo vero sarebbe sostituire le norme (cioe' i contenuti, gli automatismi), con le forme, che alludono a metodi, dispositivi, atteggiamenti esistenziali, come appunto l'empatia. E che di fronte alle realta' complesse aiutano a capire e ad agire. Non necessariamente in questo ordine: la pratica puo' seguire la coscienza, ma anche precederla, se per esempio nel gruppo dei pari si crea un galateo delle relazioni che comprenda anche quelle relegate nella negativita'.

Gli adulti non solo contano sempre meno, ma rischiano di fare la fine di quegli antropologi che dopo aver intervistato per mesi i membri di una comunita', alla fine si sono sentiti dire che le risposte erano quasi sempre false, inventate per prendersi gioco di loro. Se poi non hanno scorciatoie da proporre, se non rimpiangono l'ideologia della coppia aperta ne' le demi-vierges anni '50, possono sentirsi sperduti come un adolescente, perche' quello che ieri sembrava assurdo oggi puo' rivelarsi sensato, e viceversa. Di fronte alla gravidanza di una ragazzina, qualche genitore puo' caldeggiare l'aborto non per tutelare la reputazione della figlia, ma per paura che un bambino le rubi la giovinezza, mentre lei pensa che gliela arricchirebbe. Un rimescolamento delle parti interessante, e una conferma che la famiglia resta il luogo di veri e seri conflitti di idee e di interessi.

Con l'eccezione importante di alcune donne, i piu' silenziosi mi sembrano gli e le ex giovani dei movimenti anni Sessanta e Settanta, che hanno sperimentato molte esperienze di confine e hanno vissuto, quasi tutti, almeno una storia bella e una orrenda. Che non si riconoscono nelle vulgate speculari in cui quegli anni sono stati avvolti: sesso facile e felice, oppure debauche e prevaricazioni. Peccato che molti tacciano, siamo in una delle rare fasi in cui l'esperienza degli adulti (e anziani) avrebbe qualcosa da dire alle persone giovani. Leggendo un libro bellissimo, temo non piu' reperibile, Amati amanti di Marisa Rusconi, si incontra per frammenti uno spaccato di generazione che ha creduto alla liberta' sessuale e affettiva e ha cercato di praticare una morale nuova, spesso pagandolo caro - salvo chi la usava per chiudere la bocca ai recalcitranti: "Ma sei ancora a questo punto?", dove il punto era volere un compagn* o una casa solo per se', un padre presente per un bambino, un corteggiamento romantico. Quante ragazze si sono trovate a dover erogare dimostrazioni di "autonomia". Quante sciocchezze si sono compiute in nome della mitica verita' sempre e comunque, quanti amori sono finiti infelicemente e in silenzio; per fortuna c'erano i discorsi fra donne, perche' delle vicissitudini Sartre-de Beauvouir, che avrebbero incoraggiato piu' persone a parlarne, si sapeva poco.

Fra le critiche al '68, questa e' sensata, anche se stranamente dimentica fattori di medio periodo come la secolarizzazione e la minore dipendenza economica delle donne - a volte si direbbe che quegli anni siano piu' incombenti per chi li ha osservati che per chi li ha vissuti. Se sulle relazioni sessuali di allora si e' detto e scritto poco, e' anche perche' si sa di essersi catapultati nel nuovo senza capire che c'era bisogno di forme, di un galateo etico/estetico su come prendersi, lasciarsi, scusarsi, su come distinguere le verita' necessarie da quelle inutilmente crudeli, su come darsi un campo di vincoli diverso al cui interno esercitare la liberta'. E' vero, non era facile vivere il passaggio dalla morale anni Cinquanta - primi anni Sessanta al suo opposto, ne' mettere a fuoco certe sensazioni di incompletezza: quando si lotta per la fine dell'ipocrisia, cercare nuove forme e' l'ultimo pensiero. Infatti non si e' inventato granche'. E questo e' un pezzetto di storia.

Ce n'e' un altro meno sconsolante. In quegli anni, molti hanno conosciuto intimita' fugaci e amichevoli, che fa piacere ricordare. Molti hanno scoperto che anche le malfamate storiette, piu' simpatia e curiosita' che Sturm und Drang, e nessun futuro, se ne stavano scavando uno nella memoria. Certo, il mondo intorno e' cambiato, il microcosmo dei movimenti lontanissimo, la famiglia ha saputo trasformarsi e restare importante. Appunto per questo, si potrebbe dire qualcuna delle verita' su cui oggi si tende a sorvolare.

E' cosi' difficile rivendicare il valore di storie nate piccole e rimaste piccole, in cui ciascuno ha avuto riguardo per le priorita' sentimentali dell'altr*, senza per questo ridursi a merce di scambio? Si teme che l'erotismo a pathos minimo venga assimilato alle performances seriali, oppure alla poca cura per le relazioni elettive? Credo che l'esperienza degli ex giovani abbia almeno contribuito a far passare un principio oggi un po' pericolante: che la dignita' di una persona non dipende dal calendario degli incontri con un'altra (anche, ma non solo). Che una concezione tenera e rispettosa del corpo e della sessualita' non e' monopolio della coppia, istituzionalizzata o meno, e della famiglia. Anzi, e' proprio al loro esterno che ha piu' senso esigerla, quando nessuno dei due gode della protezione di un ruolo - moglie marito compagno fidanzato.

Per invecchiare bene, si dice, bisogna avere una scorta di bei ricordi, e prima si comincia a farsene meglio e'. Non vorrei che per le persone giovani la scorta comprendesse solo occhiali colorati, concerti, partite di calcio, birre - e uno o due matrimoni.

 

5. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: DONNE NELLA RESISTENZA (2009)

[Dal quotidiano "La Repubblica" del 17 dicembre 2009 col titolo "L'occasione per dar voce al ruolo delle donne"]

 

Caro direttore, quando ho letto della bellissima proposta per una raccolta estensiva di storie della Resistenza piemontese, mi e' tornato in mente un amico partigiano che mi aveva raccontato di dovere la vita a una sconosciuta: era stato fermato a un posto di blocco mentre trasportava carte compromettenti, e all'ultimo momento le aveva porte in silenzio a lei, e lei le aveva prese e nascoste su di se'. Non aveva mai saputo il suo nome, e neppure quello della contadina che durante un rastrellamento aveva sepolto nel fienile alcuni fucili mitragliatori, ai tempi in cui farsi trovare delle armi era essere morti.

Certo, oggi non si puo' piu' dire che sulle donne nella Resistenza e nella guerra ci sia silenzio. Grazie alle grandi pioniere - Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, Bianca Guidetti Serra, Giuliana Beltrami e Mirella Alloisio - e alle molte ricercatrici che le hanno seguite, il tema ha trovato posto nella ricerca e nel dibattito; il termine "Resistenza civile" (o non armata), agita soprattutto dalle donne, e' accettato. Ci sono convegni, libri, film. E' un risultato che deve molto all'appoggio di partigiane, deportate "razziali" e politiche, militanti antifasciste.

Ma in quei venti mesi, molte donne operavano senza una collocazione formale negli organici della Resistenza, e spesso ne erano del tutto al di fuori - come le tante che hanno lottato in difesa delle condizioni di vita, che hanno protetto ebrei, soldati allo sbando dopo l'8 settembre 1943, partigiani. E che hanno contribuito a isolare moralmente il nemico, per impedirgli di dimenticare che si trovava in un territorio ostile, costretto a subire ma capace di giudicare. Eppure sono rimaste quasi tutte sconosciute. Non avevano usato le armi, non erano legate ai partiti e alle organizzazioni di massa, non avevano distintivi e gradi.

Concentrate sullo scontro armato e sulla politica intesa in senso stretto, la Resistenza e la sua storiografia hanno fatto fatica a riconoscere il ruolo delle lotte nonviolente, a superare l'immagine del partigiano come giovane maschio in armi, regolarmente inquadrato. Di una donna che cucinava per una banda, curava i feriti o segnalava la presenza di tedeschi, si diceva che dava un aiuto; dell'addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell'infermiere, dell'informatore, si diceva che erano partigiani.

La raccolta di narrazioni potrebbe farci ritrovare almeno alcune di quelle donne e di quelle storie. La memoria familiare, di paese, degli stessi partigiani ha conservato molto, l'ho verificato in una ricerca. Naturalmente bisogna fare domande mirate, bisogna insistere, vale la pena.

 

6. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"

 

Per sostenere il centro antiviolenza delle donne di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.

O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.

Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, sito: http://erinna.it

Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 725 del primo luglio 2015

 

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