[Nonviolenza] Telegrammi. 2025



 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2025 del 25 giugno 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com

 

Sommario di questo numero:

1. Al Presidente del Senato della Repubblica. Una lettera aperta

2. Ricordando Otto Ruehle

3. Anna Bravo e Domenico Scarpa presentano "Raccontare per la storia" di Anna Bravo (2014)

4. Segnalazioni librarie

5. La "Carta" del Movimento Nonviolento

6. Per saperne di piu'

 

1. APPELLI. AL PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA. UNA LETTERA APERTA

 

Al Presidente del Senato della Repubblica

Oggetto: "Una persona, un voto". Per il riconoscimento del diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutte le persone residenti

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Egregio Presidente del Senato della Repubblica,

oltre cinque milioni di stranieri risiedono regolarmente in Italia, producono ricchezza per il nostro paese, rispettano le leggi del nostro paese, contribuiscono sotto tutti i punti di vista al bene comune.

Ma ad essi viene negato il diritto di voto.

Orbene, mentre per il riconoscimento del diritto di voto per l'elezione del Parlamento occorre verosimilmente procedere a una modifica della Costituzione, nulla osta a che si riconosca celermente con legge ordinaria l'elettorato attivo e passivo per quanto riguarda i Comuni e le Regioni.

L'essenziale, lapidaria formulazione del principio democratico è "una persona, un voto".

Si adempia finalmente la democrazia nelle elezioni amministrative nel nostro paese.

Legiferi il Parlamento la fine di un odioso e insensato regime di esclusione.

Si riconosca il diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutte le persone residenti.

*

Egregio Presidente del Senato della Repubblica,

voglia adoperarsi a tal fine, per la democrazia, per la giustizia, per il bene comune; inviti autorevolmente il Parlamento a riconoscere ed inverare un fondamentale diritto umano.

Voglia gradire distinti saluti ed auguri di buon lavoro,

Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani"

Viterbo, 24 giugno 2015

 

2. MEMORIA. RICORDANDO OTTO RUEHLE

 

Ricorreva ieri, 24 giugno, l'anniversario della morte di Otto Ruehle (Grossschirma, 23 ottobre 1874 - Citta' del Messico, 24 giugno 1943), pedagogista e psicologo tedesco, militante politico e pubblicista, deputato socialdemocratico, oppositore della guerra, comunista consiliare, oppositore del totalitarismo e dell'autoritarismo, esule antifascista.

*

Anche nel ricordo di Otto Ruehle proseguiamo nell'azione nonviolenta per la pace e i diritti umani; per il disarmo e la smilitarizzazione; contro la guerra e tutte le uccisioni, contro il razzismo e tutte le persecuzioni, contro il maschilismo e tutte le oppressioni.

Ogni vittima ha il volto di Abele.

Vi e' una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.

Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.

Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione da tutte le oppressioni.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

 

3. LIBRI. ANNA BRAVO E DOMENICO SCARPA PRESENTANO "RACCONTARE PER LA STORIA" DI ANNA BRAVO (2014)

[Dal sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi (www.primolevi.it) riprendiamo la seguente presentazione di "Raccontare per la storia": "In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il 9 maggio 2014 e' stato presentato 'Raccontare per la storia', il volume di Anna Bravo tratto dalla quinta Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese. Di seguito proponiamo il testo dell'incontro".

Domenico Scarpa (1965) e' consulente letterario-editoriale del Centro studi Primo Levi di Torino. Ha pubblicato Italo Calvino (Bruno Mondadori, 1999), Storie avventurose di libri necessari (Gaffi, 2010), Natalia Ginzburg. Pour un portrait de la tribu (Cahiers de l'Hotel de Galliffet, 2010), Uno. Doppio ritratto di Franco Lucentini (:duepunti, 2011) e, con Ann Goldstein, In un'altra lingua (Lezioni Primo Levi - Einaudi, 2015). Ha curato il terzo volume della Grande Opera Atlante della letteratura italiana. Dal Romanticismo a oggi, edito da Einaudi (2012).

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014.

Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel 1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto, fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita' umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu' alti dell'impegno civile in difesa dell'umanita'. Opere di Primo Levi: fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti. Opere su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano 1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994; Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Anna Bravo, Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014; Massimo Dini, Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992; Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino 1997; Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano 1976. Cfr. anche il sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi (www.primolevi.it)]

 

Salone Internazionale del Libro di Torino, 9 maggio 2014. Presentazione della quinta Lezione Primo Levi: Anna Bravo, Raccontare per la storia, Giulio Einaudi editore, Torino 2014. Intervengono Anna Bravo e Domenico Scarpa.

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- Domenico Scarpa: Buongiorno a tutti! Fabio Levi ha parlato delle "persone che camminano": comincio ringraziando le persone sedute; oggi sono piu' numerose del solito, ne siamo contenti. Vediamo se all'interrogazione che le faro' - cosi' Fabio Levi, ancora lui, l'ha definita - Anna Bravo sapra' rispondere... Ma in realta' lo ha gia' fatto perche', com'e' gia' accaduto in occasioni precedenti, il titolo della lezione dello scorso novembre, cioe' Raccontare per la storia - lo sto sillabando di proposito, perche' e' un titolo che va letto e pensato al rallentatore - e' un titolo scelto dal Centro Studi Primo Levi. Anna non ha fatto storie: l'ha accettato subito e ha consegnato a noi e a voi questo tema svolto. La prima domanda sara' questa: come lei ha inteso, come ha interpretato il titolo del tema, ma soprattutto il verbo sostantivato "raccontare": il raccontare alla stregua di un oggetto, di una cosa che si tocca e si fa. E poi, come ha interpretato l'altro oggetto che potrebbe apparire astratto ma diventa concreto: la storia.

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- Anna Bravo: Raccontare e' quello che dovrebbero fare i buoni studiosi e studiose di storia, capaci non soltanto di enunciare e collegare dei concetti, di costruire dei modelli, ma anche di farli risuonare in una narrazione. Si e' visto che le persone seguono molto di piu' un tema raccontato che una trattazione per categorie, il che, se si vuole parlare non soltanto ai colleghi ma sperabilmente a un po' piu' di soggetti, e' importante. Raccontare e' un dovere e una scommessa della storia. Lo svolgimento della Lezione era molto legato a questa proposta del Centro Primo Levi, che ringrazio. Insieme ringrazio la casa editrice Einaudi, e tutti voi qui presenti.

Partire dalla parola "raccontare" e' stata una scelta suggerita anche dal modo di scrivere di Levi, che era un grandissimo narratore, oltre che un grandissimo pensatore. Ed e' stata nello stesso tempo una scelta disciplinare: oggi anche in Italia, finalmente, ci sono molti storici che hanno imparato a raccontare costruendo intrecci vivi e credibili; e cosi' c'e' stato questo incontro. Devo dire che il modo di scrivere di Levi... non ci si puo' avvicinare, pero' si puo' prenderlo come guida e talismano. Io spessissimo lo leggo con la speranza che qualcosa mi resti appiccicato, che un po' dell'aura che emana dalle sue pagine, quell'aura di chiarezza, di limpidezza, di precisione, trasmigri in qualche modo nella mia testa.

Sull'impegno alla limpidezza voglio ricordare un'affermazione di Levi, si trova in un'intervista che Federico Cereja e io avevamo fatto all'inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui erano ancora molto diffusi i gerghi specialistici, tipici linguaggi per pochi, che respingevano chi non fosse abituato a quel tipo di comunicazione, o chi non facesse parte di date cerchie professionali/intellettuali. In quell'intervista Levi dichiara invece: "io scrivo e cerco di farlo in modo che qualsiasi persona di buona volonta' possa capire il mio discorso". E' una affermazione di principio straordinaria, e un incoraggiamento di cui abbiamo bisogno, perche' oggi ci troviamo in una situazione forse piu' complicata di allora - ce ne rendiamo conto, penso, ma il rischio e' abituarcisi. Da un lato - nonostante gli storici piu' aperti di cui vi parlavo prima - la parola specialistica continua a esistere, con i suoi tecnicismi e concettosita', che funzionano ancora come attestati di rango. D'altro lato siamo un paese in cui, a dispetto dell'ironia pedagogica di Arbasino, sopravvivono svariate accezioni del "bello scrivere": c'e' chi predilige il linguaggio pseudopoetico, "alato", o vezzoso, e chi pensa che "effettuare" e "recarsi" suonino meglio di fare e andare. Infine, dobbiamo misurarci con la parola inflazionata o degradata, cosi' invasiva che non se ne puo' piu'. Per esempio: quante volte sentiamo pronunciare in modo vaghissimo parole impegnative come "identita'", "carattere nazionale", e soprattutto "soggettivita'" - con l'espressione "ragioni soggettive" oggi si intendono ragioni cosi' personali e intime che si presentano come insindacabili, e infatti il termine soggettivita' puo' essere finalizzato a giustificare qualunque comportamento, comprese la scelta di chi nel '43-'45 si e' schierato dalla parte del fascismo e nazismo. E ancora: quante volte sentiamo ripetere "visibilita'", "protagonismo", o, peggio, "mobilitazione, strategia, schieramenti, militanti, scendere in campo" ecc. Queste ultime fra l'altro sono espressioni di origine guerresca. Ha scritto la grande Lidia Menapace: "se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase".

Ma anche noi incontriamo la stessa difficolta': e' uno dei motivi che mi hanno fatto accettare questa proposta con gioia. Beninteso, esprimersi con chiarezza non vuol dire semplificare quel che e' complesso, magari rifugiandosi in un similparlato sciatto, o adeguandosi a un presunto livello medio di conoscenze; a chi legge e ascolta, Levi chiede "buona volonta'", che implica l'impegno a spostarsi dalle proprie posizioni per andare incontro alla parola altrui.

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- Domenico Scarpa: Vorrei dire brevemente com'e' fatto il libro. Il testo di Anna e' diviso in tre parti. C'e' una prima parte che s'intitola "Deportazione per motivi razzisti"; e gia' questo rispetto al linguaggio corrente, normalmente accettato, e' un piccolo shock: non per motivi razziali, "razziali" e' carino, educato, storiografico: e' astratto. Razzisti e' piu' forte, piu' sporco, piu' attuale, e' qualcosa che ancora circola tra noi; Anna ha preferito questa parola.

La seconda parte e' intitolata come il piu' celebre capitolo dell'ultimo libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati. Infatti s'intitola "La zona grigia", uno dei concetti piu' inflazionati non solo della letteratura, della teoria letteraria, ma proprio del parlare, del bla bla contemporaneo; "zona grigia" e' una delle nozioni piu' tradite - malmenate, direi - degli ultimi trent'anni, cioe' da quando e' uscito nel 1986 il libro di Primo Levi. Qui invece, nella Lezione di Anna, abbiamo una sorta di restauro linguistico, di restauro storiografico, e spero avremo il tempo di tornarci su.

La terza e ultima parte s'intitola "Storiografia e giudizio morale": si parla di fatti, di questioni, di cui in Italia e non solo in Italia si e' discusso poco. Per esempio, quale effetto abbia sulle persone e sulla societa' la violenza, quella che noi conosciamo ma anche quella che non conosciamo, che non vediamo, che possiamo a volte solo a malapena indovinare. Qual e' l'effetto della violenza anche quando sia compiuta per cause giuste, commessa cioe' da persone che qualsiasi tribunale giuridico o morale considererebbe dei giusti. Proviamo magari a partire dalla fine e a dire due parole su questo, Anna... Perche' e' un finale, quello di Anna, tutto smorzato, chi leggera' il libro se ne accorgera'. Ma e' uno smorzato in crescendo: puo' sembrare una contraddizione in termini, eppure Anna e' dotata di questo paradossale talento musicale. Spero ce ne dira' qualcosa.

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- Anna Bravo: Grazie. L'ultima parte del mio librino, come diceva Domenico Scarpa, e' centrata su questo tema pesantissimo e attuale della violenza compiuta dai "giusti": quella che pone piu' domande a chi la attua e a chi vuole studiarla e raccontarla, e per questo deve assegnare un ordine ai fatti e un nome alle cose, ai fenomeni, ai comportamenti. Dare un ordine e un nome implica formulare un giudizio, che non e' giuridico, ne' morale in senso proprio, perche' lo storico non e' il giudice, deve innanzitutto capire; ma deve capire senza mai perdere di vista il significato di vicende e comportamenti. E' un impegno morale. Come ha scritto un grande sociologo, Max Horkheimer, chi e' "esposto a un'eternita' di tormenti inflittigli dagli altri uomini" e' animato dall'idea che nel futuro "verra' qualcuno assicurandogli verita' e giustizia". Per questo la storia non puo' astenersi dal giudizio, che vuol dire anche mostrare il lato oscuro delle azioni umane, incluse quelle dei giusti, che nell'esempio che vi presentero' sono i nostri partigiani. Si tratta di fatti poco noti, perche' sono stati sottoposti (e in parte lo sono ancora) a una sorta di interdetto. Levi parla in molti suoi testi, brevemente, della violenza esercitata dai giusti, e foriera di effetti distruttivi per le persone che la subiscono, naturalmente, ma anche per chi la agisce. Uno dei compiti piu' difficile e delicati era proprio applicare questo sguardo alla Resistenza.

Come sapete la Resistenza e' un grande evento della nostra storia, la parte essenziale di quello che chiamiamo "mito fondativo" dell'Italia democratica e antifascista. Questa definizione la avrete spesso sentita riecheggiare in modo rituale, ma non per questo e' meno vera. Solo che la Resistenza e' stata, a mio avviso e non solo mio, troppo sacralizzata, e troppo a lungo. Nelle prime opere di storia e di narrativa le voci piu' distaccate, a volte ironiche, a volte autocritiche, erano di pochissimi, penso a Fenoglio; gran parte della storiografia illustrava le "glorie della resistenza". Con il tempo, e con la cosiddetta crisi delle ideologie, si e' affacciata una visione piu' laica. Ma negli ultimi due decenni si e' rischiato di tornare alle origini: la mia impressione e' che piu' la situazione nel nostro Paese diventa complicata, politicamente e ideologicamente, piu' ci si aggrappa a un'immagine della Resistenza che assomiglia di nuovo, da vicino, a quella "sacrale", "eroica" del primo dopoguerra. E' una reazione agli attacchi rivolti al movimento partigiano in quei decenni, ma e' nello stesso tempo un uso politico della resistenza che non aiuta affatto a renderle onore.

Ma, a parte alcune preziosissime eccezioni, persino nelle fasi di maggior apertura storiografica il tema della violenza esercitata dai partigiani - i nostri giusti, anche se non i soli giusti - e' rimasto ai margini, al punto che le uniche fonti sono rimaste a lungo quelle presentate dalla destra - non dalla destra politica, che non e' la mia parte e che comunque rispetto, ma dalla destra neofascista, nostalgica, rivendicativa, che ha esaltato, gonfiato gli episodi di violenza partigiana. Poi sono arrivati i libri di Pansa, che storicamente non sono ineccepibili, ma che sono in parte il risultato di quel vuoto della storiografia... Pansa e' una persona che ha cominciato a fare storia del movimento partigiano con passione, e' stato il primo in Italia a laurearsi con una tesi sulla Resistenza, quando ha iniziato a approfondire fatti controversi ha probabilmente trovato un muro da parte di altri storici, di intellettuali, dei maggiori media... e adesso si dedica quasi soltanto a documentare errori, illegalita', uccisioni (non in combattimento) a opera di partigiani, in particolare di partigiani comunisti. Dalla vicenda di Pansa secondo me non esce bene nessuno, ne' lui, ne' gli storici "ortodossi", ne' quegli studenti che anni fa hanno cercato di impedirgli di presentare un suo libro.

Sul tema della violenza dei "buoni" Primo Levi ha gettato uno sguardo nuovo nel Sistema periodico, in un racconto, "Oro", dove narra che i suoi compagni - e lui stesso, sembra di capire - erano stati "costretti" a uccidere due giovani partigiani per motivi di sicurezza. Levi non spiega esattamente il perche', le versioni non sono chiare neanche dopo Partigia, il libro di Sergio Luzzatto che e' andato a vedere in dettaglio i documenti dell'epoca e alcune testimonianze orali. Ma il punto, in questo caso, non e' solo il perche'; il punto e' che questa azione, l'uccidere, la piu' devastante e piu' antiumana immaginabile, era fatta da persone non soltanto in buona fede, ma con buona ragione.

Ora, uccidere fa parte di una guerra; purtroppo la Resistenza non e' stata solo una guerra ma e' stata anche una guerra, una guerra in cui non si potevano fare prigionieri, in cui lo scontro era durissimo, in cui venivano coinvolte le popolazioni come mai era avvenuto prima. Pero' la dissonanza che "Oro" rappresenta rispetto alla questione della distruttivita' dei giusti e' che Levi racconta il dopo, cosa succede a chi ha ucciso il proprio compagno; e parla di annichilimento, di fine di ogni speranza per il futuro, di schiacciamento dell'umanita'. Levi e' l'autore che con piu' forza, nel momento stesso in cui dice "l'abbiamo fatto in buona coscienza perche' era necessario", ci fa sentire il peso enorme di quel gesto, ci fa sentire che c'e' un limite - che e' la vita - oltre il quale uno non passa indenne anche se ha tutte le ragioni del mondo. Vorrei ricordare quello che diceva Gandhi - io amo molto i pensatori nonviolenti, non pretendo di essere "nonviolenta", e' molto difficile, ma "amica della nonviolenza" si'. A quanti dicevano: "In fondo i mezzi che cosa sono? Sono solo mezzi", Gandhi rispondeva che i mezzi in fin dei conti sono tutto, e che non possono smentire i fini, devono rispettarli, onorarli. L'uccisione di quei ragazzi partigiani, che si potrebbe raccontare semplicemente come un passo necessario per salvaguardare la banda, in realta' e' stata una tragedia che l'ha distrutta. Diceva ancora Gandhi: "non si puo' ottenere una rosa piantando un'erbaccia nociva", un pensiero semplice e meraviglioso che sarebbe piaciuto a Primo Levi, e spero che gli sia capitato di leggerlo, e che ne abbia tratto forza.

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Domenico Scarpa: Si', infatti... Da questo libro viene fuori un'immagine complessiva di Levi come scrittore della responsabilita'. Anche "responsabilita'" e' una parola oggi svuotata di significato. La sua origine e' semplice, viene dal verbo "rispondere": se tu fai una qualche cosa e poi qualcuno ti domanda perche' l'hai fatta, dovresti essere in grado di dire il motivo per cui l'hai fatta; e dopo aver fatto quella cosa dovresti essere capace di immaginare le conseguenze della cosa che hai fatto. La responsabilita' e' questa faccenda semplice e complicatissima. Primo Levi ha avvertito il senso della responsabilita' durante tutta la sua vita attiva, durante tutta la sua vita di scrittore; e' finito in un Lager di sterminio a ventiquattro anni, e' stato li' per undici mesi e ha dedicato il suo ultimo libro, quarant'anni piu' tardi - nel 1986, I sommersi e i salvati - a una riflessione su quello che gli era capitato allora. In quei quarant'anni non aveva smesso di riflettere, e non perche' fosse un personaggio ripetitivo; stava attento alle parole e difficilmente ripeteva un concetto, semmai si stufava quando gli ponevano sempre le stesse domande, obbligandolo a ripetersi. Eppure, anche davanti a quelle stesse identiche ripetute domande, Levi trovava ogni volta un modo per gettare la sua pietra piu' in la', per dire e far dire ai fatti - e perfino al suo interlocutore occasionale - qualcosa di nuovo.

Ha scritto Anna nella sua Lezione Raccontare per la storia che I sommersi e i salvati e' anche lo sforzo di costruire un'etica e una grammatica della testimonianza. Prima di chiedere ad Anna di prolungare un po' questa frase, quest'affermazione che a me sembra giusta, voglio leggere mezza paginetta da I sommersi e i salvati. Lo faccio perche' a volte in queste presentazioni il pubblico non arriva a toccare il testo, a sentirlo; e allora vorrei dare un piccolo campione di come Primo Levi scriveva e argomentava. E' preso dall'ultima pagina de I sommersi e i salvati, in un certo senso e' l'ultima pagina che Levi abbia scritto. Si parla di stereotipi, e nel libro c'e' un capitolo dedicato agli stereotipi: cioe', le immagini consolanti, semplificanti, false, che circolano sul mondo della deportazione, sui Lager, sulla Germania nazista, sugli italiani, sulla politica e cosi' via. Levi tiene da parte - per questo ultimo capitolo, che consiste in alcune pagine di conclusione - uno stereotipo che non aveva inserito nell'apposito capitolo perche' evidentemente gli voleva dare piu' importanza: e lo mette in risalto nell'ultima pagina del libro.

"Agli stereotipi che ho passati in rassegna nel settimo capitolo vorrei infine aggiungerne uno. Ci viene chiesto dai giovani, tanto piu' spesso e tanto piu' insistentemente quanto piu' quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri 'aguzzini'". ("Aguzzini", che e' una parola preziosa, colta, d'altri tempi, Levi la mette fra virgolette, come dicesse: "vedete, il tempo si sta allontanando, la storia del '44, la storia di quando io fui in Auschwitz non si capisce piu', e' scritta quasi in una lingua straniera"). "Il termine" - cioe' "aguzzini" - "allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere e' improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d'origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male".

Sembra una conclusione di un'ingenuita' denudata, sconfortante addirittura: "erano stati educati male". Invece e' la frase piu' dura che Levi potesse pronunciare alla fine del suo ultimo libro. Ricominciamo da qui, Anna...

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- Anna Bravo: Primo Levi ha questa caratteristica che Domenico vi ha adesso descritto, il rifiuto di demonizzare l'altro: se noi demonizziamo un soggetto, automaticamente prendiamo le distanze dal suo male, dal male che ha in se', dal male che fa, e in questo modo possiamo pensare che non ci riguardi. Insistendo sulla comune sostanza umana, Levi chiama invece in causa anche noi, ma non perche' ci attribuisca una responsabilita' diretta - la responsabilita' di chi e' nato dopo non esiste dal punto di vista giuridico e morale. Ci chiama in causa facendo leva sul nucleo originario che condividiamo con gli aguzzini, far parte del genere umano. E' una comunanza/comunione da cui abbiamo a lungo distolto gli occhi, e che molti hanno negato, non teoricamente - sarebbe insostenibile - ma di fatto si': definendo "mostro" il carnefice, ne facevamo l'"altro da noi" per eccellenza.

Espellere l'aguzzino e' un'operazione rassicurante, ma non ci aiuta: se si vuole capire una realta', bisogna capirla anche pensando che i suoi protagonisti erano soggetti esattamente come noi. O meglio, non "esattamente": le persone sono tante e diverse fra loro, e possono essere diverse persino da se stesse a seconda delle circostanze. Quello che Levi capisce subito (e lo scrive nel '52 in un testo che Domenico ha scovato grazie a cultura e intuito) e' un insieme di cose decisive. Quell'anno Levi recensisce un libro, Le Pitre ne rit pas, di David Rousset, e descrive le SS, i nazisti, come pagliacci, dementi, imbecilli, senza il minimo barlume di liberta' mentale e di immaginazione. Non li vede come "angeli neri", portatori di un male demoniaco che verrebbe da profondita' abissali - il male dell'Ottocento, pensiamo a Dostoevskij. Quelli del secondo Novecento sono "demoni mediocri" - Levi non usa questa espressione, che e' il titolo della seconda parte di un libro di Simona Forti uscito anni fa, I nuovi demoni; ma il significato e' precisamente quello.

Nel 1952 la consapevolezza della mediocrita' degli aguzzini non era diffusa, Levi e' stato uno dei primi a sostenere che erano caratterizzati non tanto da efferata perfidia, quanto da mancanza di empatia, cioe' di talento per la condivisione. Definire l'SS un "cannibale in mezze maniche" come fa lui, distrugge l'aura misteriosa, suggestiva, costruita intorno a colui che commette il male, palesandolo nella sua dimensione miserabile e grottesca.

Hannah Arendt - ci sono affinita' singolari tra Primo Levi e Hannah Arendt, nonostante fossero persone cosi' diverse per tanti motivi - e' stata la prima a gettare in faccia al mondo con una forza impareggiabile la miseria morale dei nuovi demoni, la "banalita' del male". Eichmann e' un esempio tipico del nuovo genere di criminale: un uomo da poco, che compie i suoi crimini perche' non ha la capacita' di mettersi al posto dell'altro, sia nel bene sia nel male; e siccome - lo spiegano le scienze umane e il buon senso - l'io e il noi si definiscono sempre in rapporto all'altro, quell'incapacita' e' in fondo anche una negazione di se stessi. Eichmann e' un uomo essenzialmente servile, che non sa far altro che obbedire, e trovandosi dentro una macchina burocratica, politica, ideologica secondo cui obbedire e' un valore, esegue gli ordini e li trasmette ai suoi subordinati, da cui si aspetta la medesima adesione. Credo si possa dire senza venature razziste che la Germania, che non era stata il paese piu' antiebraico d'Europa, era pero' quello dove intorno alla docilita' verso i poteri si era costruita un'immagine altamente positiva; nell'esercito prussiano il motto era "Obbedienza da cadavere", il che dice molto sul tipo di mentalita' che veniva instillata.

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- Domenico Scarpa: Voglio ripetere il nome appena pronunciato da Anna perche' qualcuno non lo avra' afferrato bene, il nome cioe' di Hannah Arendt. E' un consiglio di lettura, perche' Hannah Arendt ha introdotto nel dibattito politico del Novecento, nella storia - macche' nella storia: nella nostra vita comune, non nella storia: nella nostra vita quotidiana! Hannah Arendt ha introdotto la seguente domanda: Che cosa succede quando qualcuno ci dice di fare una cosa e noi la facciamo, zitti e muti, senza discutere? quali sono le conseguenze di questa obbedienza completa? In un tempo non lontano da noi le conseguenze sono state milioni di morti, soprattutto ebrei ma non soltanto: zingari, omosessuali, oppositori politici, tutte le categorie sgradite per una qualsiasi ragione a chi avesse il monopolio di una forza, anzi un monopolio industriale della forza capace di fabbricare in serie la morte. Poi, quando questo qualcuno e' stato beccato, uncinato, portato davanti a un tribunale - parlo forte perche vedo distrazione, vedo movimento; vorrei il chiodo delle persone su queste parole qui, faccio la parte di Primo Levi, vi chiedo scusa... - quando questo qualcuno e' stato portato di fronte a un tribunale, si e' difeso dicendo che aveva solo obbedito agli ordini.

Questa faccenda dell'obbedire agli ordini e' purtroppo la nostra vita quotidiana: e' storia nostra, ci riguarda, capita tutti i giorni, e capita proprio a noi... Oggi non c'e' piu' il caporale prussiano - o e' meno riconoscibile, perche' la croce uncinata puo' sembrare ormai un'immagine del folklore, un residuo di antiquariato. Oggi esistono altre vie attraverso le quali noi obbediamo agli ordini. E chi ha saputo smontare, chi e' riuscito a descrivere i meccanismi dell'obbedienza con la maggiore efficacia sono stati due scrittori: uno e' italiano, si chiama Primo Levi, ne stiamo parlando; l'altro e' un'ebrea tedesca riparata in America, che ha scritto in tedesco e in inglese, e che ha pubblicato in inglese negli anni Sessanta un reportage intitolato Eichmann a Gerusalemme, sottotitolo La banalita' del male (A report on the banality of evil). Hannah Arendt ando' a Gerusalemme per seguire il processo di Adolf Eichmann, il gerarca nazista che aveva organizzato direttamente la cosiddetta "soluzione finale" ed era quindi il responsabile maggiore, subito dopo Hitler, dello sterminio di sei milioni di persone. Eichmann a Gerusalemme ci descrive come questo personaggio che noi osserviamo in fotografia (potete trovarlo anche su YouTube), bloccato al suo seggio di imputato nell'aula del tribunale, con gli occhialoni a fondo di bottiglia e una grande cuffia, come quelle che sono adesso tornate di moda per ascoltare la musica per strada o in autobus (nel tempo della miniaturizzazione siamo tornati alle cuffie di grossa taglia): murato dentro i suoi occhiali, dentro la sua cuffia, dentro la sua cravatta, a distanza di vent'anni dai fatti Eichmann non vedeva, non era capace di vedere cio' che aveva fatto. Non perche' fosse un mostro, ma perche' era un mediocre che aveva eseguito ordini.

Chiedo scusa per la passione eccessiva, la retorica, la lungaggine pedagogica, le ripetizioni. Proviamo a miniaturizzare anche questo discorso: abbiamo parlato di raccontare, abbiamo parlato di storia, di che cosa significassero per Anna queste due parole. Il prossimo tema in miniatura e' la preposizione "per", che e' bellissima... Che cosa significa "raccontare per la storia"? Parliamo del "per"...

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- Anna Bravo: Il titolo non e' mio, e' di Fabio Levi... "Per" sta a indicare una finalita', nel caso di Primo Levi apertamente dichiarata: io racconto, e facendolo mi impongo dei vincoli, scelgo delle modalita' espressive, garantisco un'attendibilita', la massima attendibilita' consentita dalle circostanze vissute, cosi' da trasmettere agli storici una documentazione il piu' possibile verificata e utilizzabile; questo e' uno degli obiettivi. L'altro e' offrire agli studiosi, insieme a nozioni e dati, anche teorie, o meglio ancora, suggestioni, impulsi: non ideologici, ma di metodo e di riflessione. E' significativo che le acquisizioni piu' profonde sulla condizione umana siano venute dalla memoria del Lager, come se fosse necessario un estremo per mettere a fuoco elementi che nella normalita' tendono a sfumare.

I due aspetti - attendibilita' e impulso alla riflessione - sono strettamente connessi all'etica e alla grammatica della testimonianza. "Grammatica" e' una parola che ho sempre interpretato come la fissazione di alcuni criteri, anche tecnici, di vaglio del proprio racconto. Al tempo della "storia orale" si discuteva tantissimo su questo...

Detto in breve e rifacendomi a quello che dicevi: il primo punto e' essere vigili sulla natura della memoria. La memoria e' uno strumento, Levi diceva, "meraviglioso ma fallace"; quindi bisogna sapere cosa stiamo maneggiando, e distinguere tra quello che si e' vissuto, quello che si e' sentito dire, quello che si e' letto, quello che hanno detto i compagni, quello che viene enunciato nelle celebrazioni ufficiali, cercando di ricondurre il racconto a quello che e' la garanzia massima della memoria: il vincolo all'esperienza diretta. Quando si dice che Primo Levi fa un discorso universale perche' affronta temi che ci riguardano tutti, va aggiunto che ci riguardano perche' il suo racconto parte da una verita' incardinata in una situazione, una verita' "situata". Nel linguaggio degli anni Sessanta e poi nel femminismo, c'era la buona abitudine di chiedere a docenti, intellettuali, scienziati che prendevano la parola di chiarire da che luogo parlavano, e il luogo era l'istituzione, l'ideologia, il rapporto con l'oggetto studiato, con i media, con il mercato, e naturalmente con il proprio genere sessuale. A un docente, per esempio, si diceva: "tu sostieni di essere dalla nostra parte, ma sei anche uno che sta dentro l'universita' con un ruolo e un potere, da che punto di vista ti metti per dire questa cosa?". Sono domande utili per svelare la manipolazione messa in atto dai media, ma soprattutto i nostri stessi limiti di autoconsapevolezza. Sono convinta che l'onesta' (e l'oggettivita') di un autore (e di chiunque) non stiano in una equidistanza impossibile, stiano nel palesare il proprio punto di vista; presentandoci come fossimo staccati da idee, interessi, situazioni, quasi puri spiriti, si finisce per ingannare chi ci ascolta.

Levi ci insegna che il racconto e' il frutto di un'operazione soggettiva, un'operazione che, contrariamente all'uso odierno del termine "soggettivita'", non si presenta affatto come insindacabile: anzi, sa di essere parziale, e proprio di questa consapevolezza fa la sua promessa di verita'.

Etica della testimonianza vuol anche dire una testimonianza che si traduce per noi in spinta alla riflessione. La cosa che diceva Domenico Scarpa prima, il processo con cui si crea l'"obbediente", e' qualcosa su cui Levi insiste e che riguarda tutti noi. Quindi la tensione etica non e' soltanto nel tema, non e' soltanto nella capacita' di dire il vero esperito direttamente, sta anche nel fatto che ci chiama continuamente a rendere conto della nostra responsabilita', che magari puo' essere minima, pero' non si puo' fingere di non averla. Noi siamo ormai abituati a uno spreco di parole, buttate li', ritrattate, rispiegate, insomma neppure di quello che diciamo ci prendiamo la responsabilita'. Allora credo che l'etica di Levi, che comporta tante cose, tra cui il giudizio sui comportamenti, voglia per noi dire questo: che dobbiamo farci carico di quello che diciamo, di quello che facciamo e accettare di pagarne le conseguenze. E' quel che lui ha sempre fatto, detto, insegnato; e credo che in questo sia stato capito - non so quanto seguito, ma capito si', perche' lo diceva in un modo talmente chiaro che non si poteva fraintendere.

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- Domenico Scarpa: Anna, tu a un certo punto fai un discorso che vorrei ripetessimo qui; con una premessa. Quando, all'inizio, ho parlato di com'e' fatto questo libro, ho detto soltanto come e' suddiviso il tuo saggio, la tua Lezione: Raccontare per la storia, saggio organizzato in tre parti. Ma la seconda meta' del libro, dopo la conclusione del saggio, e' un'appendice costruita con testi di Levi e di altri autori, testi che aiutano a leggere non solo il saggio di Anna Bravo, ma aiutano a leggere Primo Levi. In particolare, siamo stati piuttosto generosi nel mettere in appendice pagine da I sommersi e i salvati. E' quasi una sintesi, un'antologia del libro: volevamo che - soprattutto quando Anna affronta categorie, concetti, situazioni scivolose, molto facili da fraintendere, come "zona grigia" e "vergogna" - ci fosse immediatamente per il lettore, nel libro stesso che legge, il riscontro del testo di Primo Levi. Abbiamo fatto in modo che il lettore possa, mentre legge il tuo libro, fermarsi per andare a vedere come precisamente Levi si sia espresso, che cosa abbia scritto su questi argomenti.

Anche come strumento scolastico, come strumento di controllo dei testi, questo libro mi sembra particolarmente efficace; e' uno strumento maneggevole. Abbiamo voluto, noi e Anna, costruirlo cosi' perche' nel saggio che lei ha scritto ci sono, lo avete capito, svariate provocazioni per l'intelligenza, cose che in un primo momento potranno lasciare un po' interdetti ma che poi vengono argomentate. Ne scelgo una: quando tu dici che forse negli anni Quaranta, o Cinquanta, o Sessanta, se Levi avesse proposto un Se questo e' un uomo un po' piu' retorico, un po' piu' "col petto gonfio", un po' piu' eroico, un po' piu' guerresco, manesco, aggressivo, magari avrebbe trovato piu' ascolto. Si', se Primo Levi si fosse presentato in panni piu' combattenti...

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- Anna Bravo: Si', mi e' venuto in mente... ho fatto un lavoro sulla memorialistica scritta della deportazione e mi sono accorta di una caratteristica che ha colpito me e altri. Tutti gli uomini ex deportati, anche uomini ebrei, si raccontavano come partigiani, e i loro libri seguivano un modello forte e suggestivo: incominciavano con la famiglia, l'antifascismo, la Resistenza, gli scontri, la cattura; e, alla fine o quasi, arrivavano al Lager. L'identita' principale con cui queste persone si presentavano era quella di partigiani, di combattenti che avevano impugnato le armi, che avevano rischiato la vita e se necessario ucciso. L'unico a distaccarsi da questo modello narrativo "resistenziale" e' Primo Levi, che minimizza la sua esperienza in montagna e mette in primo piano l'identita' ebraica; che si racconta come un giovane che non sa bene cosa fare, e cosi' i suoi compagni di partigianato.

Probabilmente nel primo dopoguerra i redattori delle case editrici sono rimasti interdetti di fronte a un Se questo e' un uomo in cui c'era la denuncia del dolore, del male, dell'abisso, mentre l'epica era assente. E credo che in quel periodo, in cui dominava il modello resistenziale, Se questo e' un uomo non sia stato capito. Fra l'altro i motivi addotti da Einaudi per rifiutare la pubblicazione - "se esce adesso finirebbe in una gran marea di libri sulla deportazione" - erano pretestuosi: dal '45 al '48 escono una ventina di testi sulla deportazione scritti da uomini, non di piu'. Sono convinta che se Levi si fosse allineato a quel modello, magari eroicizzando la sua breve esperienza partigiana, magari usando un tono piu' "muscolare", piu' "combattente", quei redattori avrebbero guardato al testo con maggiore attenzione. Invece lui arriva subito al Lager, e il suo e' un racconto di Lager, dichiaratamente. Con gli anni ne arriveranno altri con questo taglio, ma all'epoca e' il solo.

Pensate, ci voleva molto coraggio per questa scelta, e per le altre tappe del pensiero di Levi. Oggi non abbiamo parlato del coraggio, a mio avviso la sua caratteristica basilare. Credo che l'abbia pagata, questa capacita' di attenersi alla propria gerarchia del vero, anche a costo di esporsi a critiche di compagni deportati, di toccare terreni brucianti, scansati dai suoi affini politici e intellettuali. E a costo di non potersi mai "accasare" del tutto in un gruppo, una cerchia, un luogo politico - altra cosa sono stati gli amici e amiche di una vita. Con questo suo modo di essere, Levi ci regala una verita' niente affatto scontata: che la liberta' intellettuale e morale (espressione piu' utile di "anticonformismo", che, come molte parole che iniziano con "anti", mette l'accento piu' sulla reazione alle idee altrui che sulle idee di chi dissente) quella liberta' non si misura sul rifiuto di adeguarsi all'opinione della maggioranza - del cui giudizio non e' detto che ci importi molto e delle cui ragioni possiamo diffidare. Si misura sulla fedelta' alle proprie convinzioni anche quando sono in contrasto con quelle di amici e compagni al cui affetto e stima teniamo davvero; oppure con le idee e le pratiche di un gruppo da cui vogliamo essere accolti, perche' ci attira, perche' non vogliamo piu' essere soli, perche' ce ne sentiamo minacciati. Questa liberta', che ci protegge dalla tentazione di adattarci alle opinioni dei piu' cari e vicini, dal rischio del servilismo mascherato da coesione solidale, e' la piu' difficile, e Levi ci aiuta a averne cura.

 

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

 

Riletture

- La Bible traduite et presentee par Andre' Chouraqui, Desclee de Brouwer, Paris 1974-1979, 2003, 2007, pp. 2432.

 

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

 

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

 

6. PER SAPERNE DI PIU'

 

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2025 del 25 giugno 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

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