Voci e volti della nonviolenza. 381



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 381 del 19 ottobre 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "La citta' degli untori" di Corrado Stajano

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA CITTA' DEGLI UNTORI" DI CORRADO STAJANO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Corrado Stajano, La citta' degli untori, Garzanti, Milano 2009]

Da pagina 24
Nelle sue inchieste Guido Galli scopre un'altra Milano, non piu' la capitale
morale dell'apologia, ma la citta' dove la corruzione si e' stesa come una
rete da pesca messa ad asciugare al sole e dove i protagonisti sono spesso
gli stessi di quel tempo di euforia collettiva. Corruzione non diffusa come
trent'anni dopo ai tempi dell'inchiesta "Mani pulite", ma gia' ramificata
tra finanza e politica.
Gli capita in sorte la causa della societa' Sfi, la Societa' finanziaria
italiana, andata a rotoli, di cui il ministro del Tesoro Emilio Colombo
ordina, su proposta del governatore della Banca d'Italia Guido Carli, la
liquidazione coatta amministrativa. La Sfi e' una societa' atipica, ha
operato come se fosse una banca, contro la legge, raccogliendo il credito,
manovrando i depositi.
"Nata come societa' finanziaria degli industriali tessili biellesi, si e'
poi smisuratamente ingrandita anche in altri settori e il boom della Borsa
ha moltiplicato appetiti, velleita', megalomanie. [...] Controlla anche un
centinaio di societa' immobiliari, industriali e finanziarie, possiede
piantagioni di caffe' in Costarica, e' stata proprietaria dell'Agenzia
giornalistica Italia ceduta poi a prezzo di favore a una corrente della
Democrazia cristiana. Il denaro e' stato raccolto soprattutto nelle province
di Pavia e di Vercelli, tra migliaia di piccoli risparmiatori allettati da
interessi piu' alti di quelli normalmente concessi dalle banche".
Gli amministratori sono legati alla DC, il protettore politico e' Giuseppe
Pella, amico dei lanieri di Biella, che tenta il salvataggio della societa',
infruttuoso perche' la situazione e' ormai compromessa. Le parti lese sono
quarantamila piccoli risparmiatori, il crac e' di 70 miliardi. I dirigenti
della Sfi vengono arrestati, qualcuno riesce a scappare. C'e' subbuglio in
citta' perche' sono persone che fanno parte dell'establishment. Vengono
nominati commissari liquidatori un professore universitario, Tancredi
Bianchi, il ragionier Ferdinando Tesi e Vincenzo Storoni, vicepresidente
dell'Iri.
Molto impegnati nelle loro professioni, chiedono l'assistenza di un
collaboratore in grado di fare da consulente giuridico. Viene scelto un
giovane avvocato, Giorgio Ambrosoli, che per dieci anni, fin quando nel 1974
diventera' commissario liquidatore della banca mandata in rovina da Michele
Sindona, la Banca privata finanziaria, sara' la vera mente di quella
intricata questione culminata in un processo penale a carico di 29 imputati,
i responsabili della societa'.
Il giovane avvocato lavora in piazza Pio XI, di fronte alla Biblioteca
Ambrosiana, dove abito' Antonio Sciesa, il patriota milanese, un
tappezziere, condannato a morte nel 1851. Sulla sua casa e' murata la lapide
con la famosa scritta: "All'austriaco gendarme che vita e denaro gli offriva
a patto di delazione, sprezzante rispondeva 'Tiremm innanz'". Soltanto.
Un incrociarsi di destini, quello di Giorgio Ambrosoli e di Guido Galli, che
si conobbero in quegli anni in occasione della bancarotta della Sfi: il
magistrato fu pubblico ministero al processo che inizio' nel 1969. Coetanei,
l'uno mori' nel 1979, in nome dei principi di onesta', assassinato da un
killer venuto dagli Stati Uniti su ordine di Michele Sindona: l'altro mori'
neppure un anno dopo in nome dei principi dello Stato di diritto,
assassinato da un killer che scambio' quell'efferato delitto comune con
l'idea di rivoluzione.
Guido Galli si trova a dover lavorare su un terreno di illegalita' melmosa.
La faccia meno visibile della citta' offre a chi sa andare oltre l'apparenza
una cognizione del futuro. Gli anni Sessanta-Settanta e i primi anni Ottanta
del Novecento piu' che fervidi sono torbidi. Segnati a Milano dall'ombra
sinistra di due personaggi finiti tragicamente. Il primo, Sindona, in un
carcere della pianura padana, a Voghera, ucciso nel 1986 dal cianuro
contenuto in una tazzina di caffe', lo stesso destino toccato a Gaspare
Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, all'Ucciardone di Palermo
piu' di trent'anni prima. Il secondo, Roberto Calvi, trovato impiccato a
Londra, nel 1982, sotto il Blackfriars Bridge.
Michele Sindona, il maestro, si muove tra la mafia italo-americana, la
massoneria, la Democrazia cristiana, i servizi segreti, l'Istituto opere di
religione, lo Ior - la banca sporca del Vaticano manovrata dal vescovo
Marcinkus -, immobiliarista, consulente di aziende di cui denunziava le
magagne a uomini corrotti della Guardia di finanza per dividere con loro il
prezzo dei ricatti, speculatore di aree fabbricabili, venditore di villaggi
turistici costruiti in Sicilia con la sabbia del mare, mediatore di traffici
finanziari, banchiere in proprio, la Franklin National Bank negli Stati
Uniti, la Banca privata finanziaria a Milano, al servizio della mafia e
della politica. E' il "salvatore della lira", come lo definisce Giulio
Andreotti.
Roberto Calvi, l'allievo, si muove anche lui tra affari criminali, mafia,
massoneria, il Partito socialista, i segreti del Vaticano, i potentati
dell'economia e della politica. Diventa proprietario del "Corriere della
Sera" attraverso la Loggia massonica P2 alla quale e' affiliato insieme con
il maestro. E' il banchiere della banca dei preti, il Banco Ambrosiano, dove
viene raccolto il denaro dei piccoli risparmiatori che, senza sospetti,
seguono i consigli dei parroci.
Poi verranno gli intrighi finanziari dell'ultimo decennio del secolo e degli
inizi del Duemila, il proliferare della corruzione in tutti gli strati
sociali, il groviglio del capitalismo irriformabile delle "scatole cinesi",
lo spionaggio d'azienda collegato ai servizi segreti, i pataccari travestiti
da grandi imprenditori, come ai tempi di Sindona, senza la sua cupa
intelligenza, le societa' di gran nome svanite nel nulla o comprate dagli
americani, dagli arabi, dai cinesi, dai giapponesi, gli scandali casalinghi,
le tangenti diventate pratica abituale tra politici e aziende, i tavoli
comuni in cui tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione, si
spartiscono gli illeciti proventi secondo il peso del potere. E poi le
catene societarie, i patti di sindacato, i capitali irrisori che controllano
enormi imprese come in un gioco beffardo. La finanza vince la sua partita
con l'imprenditoria, si inabissa o quasi il mondo fondato soltanto
sull'industria lasciando dietro di se' vuoti materiali e psicologici
inimmaginabili.
A far da nuovi padroni sono le cordate degli speculatori immobiliari:
promettono ai creduli cittadini quartieri "a misura d'uomo", palazzi in
giardini incantati, condomini con piscine e campi gioco da sogno, pulendo
cosi', con l'avallo di architetti famosi, il denaro della mafia. L'altezzosa
fama di "capitale morale" di cui Milano gratifico' generosamente se stessa,
e' irrimediabilmente finita in fondo a un pozzo.
Come diversa e persino affettuosa, al confronto, la lingera della Milano di
Gadda: "L'Olocati Ermenegildo detto 'el Gildogratta' o anche 'el Biscella',
gia' una volta rincorso, per quanto invano, dal brigadiere Veronesi della
squadra mobile; Carlo Moriggi detto 'el Pistola'; Tantardini Agatocle detto
'el Sciresa'; Galbiati Pier Domenico detto 'el Bauscia'; e Freguglia
Vitaliano detto 'el Casciavit'".
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Da pagina 61
Piazza Fontana e' a un centinaio di passi dall'Universita'. Ci torno per
l'ennesima volta, ma la rivisitazione, in questa ricerca del corpo della
citta' e della sua anima, assume un significato particolare: "Io certifico
il reale / Io sto attento alle parole / Non voglio sbagliarmi voglio /
sapere".
Passo da piazza Santo Stefano, lascio sulla destra la chiesa dedicata al
protomartire della cristianita' e, a far da quinta, piu' piccola, San
Bernardino alle ossa, una cripta domestica dei cappuccini che raggela il
sangue se si pensa alle pareti di teschi accumulati la' dentro, biglie
nerastre dagli occhi bucati, vittime della peste, condannati a morte,
ergastolani, impiccati, ghigliottinati nei secoli passati.
L'assurdo e' di voler rompere il tempo infinito trascorso da allora,
quarant'anni quasi, due generazioni una volta, adesso forse quattro. La
scritta Banca nazionale dell'agricoltura rimasta sulla facciata del
palazzone squadrato, vista e rivista sui giornali, alla tv, sembra un
relitto abbandonato. La banca ha cambiato nome e proprieta', si chiama
Antonveneta Abn Amro, e' diventata olandese, in attesa di cambiar di nuovo
padronato e ragione sociale. Davanti alla piazza e dalla parte di via San
Clemente dove una volta aveva sede il Consorzio Agrario e dove, in occasione
del mercato del venerdi', si riunivano gli agricoltori, i fittavoli, i
mediatori del contado venuti in citta' per le loro contrattazioni, si
inseguono le vetrine della banca tappezzate di suadenti promesse: "Concediti
il gusto. Prova il sapore di vantaggi concreti". "Making more possible" (una
ragazza, un po' allusiva, mangia una tavoletta di cioccolato). "Conto
Sistema Dinamico". Dedicato a chi lavora, mantiene le promesse e aiuta a
raggiungere i propri obiettivi (un giovanotto con la testa rasata, piccolo
manager di moda, con la cartella nera e il soprabito sul braccio, trascina
una valigetta con le ruote). "Conto Sistema Bellavista". Dedicato a chi e'
in pensione (un vecchio felice innaffia girasoli e margherite). "L'abbiamo
creato per lei che vuole di piu' dalla pensione, che ha esperienza della
vita e sa come passare delle giornate splendide, magari in compagnia dei
nipotini". E poi benefici per tutti, per il tempo libero, il benessere, una
settimana alle Maldive, una settimana a Sharm-al-Sheikh, un weekend a
Parigi, i regali di Natale, il "Conto Piu' Brio e Conto Clubba", per bambini
e ragazzi.
Davanti all'ingresso c'e' la fermata dello scalcinato tram numero 23, color
arancio, e su un altro binario quella del jumbo tram numero 15, panciuto e
potente, color verde e grigio. La fermata, una volta, non c'era, quella sera
avrebbe reso ancor piu' opprimente la ressa delle ambulanze, delle barelle,
dei carri dei pompieri.
Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969 ero tornato da Roma e alla stazione
centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, e'
appena successo qualcosa di grave, e' scoppiata una caldaia alla Banca
dell'agricoltura e si parla di molti morti. Gli dissi di portarmi alla
banca, non piu' a casa. In piazza Fontana c'era solo qualche ambulanza,
qualche macchina della polizia e dei carabinieri, si sentiva che da via
Larga stavano arrivando i pompieri. Non c'erano ancora curiosi. I
sopravvissuti, informi ossessi, uscivano barcollando dal portone della banca
e si scontravano, nell'aria nerastra, con i barellieri che correvano in
senso contrario.
"Macche' caldaia, e' una bomba, ci saranno trenta morti", disse qualcuno.
Anche dopo la strage della stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, fu diffusa
la falsa notizia che era scoppiata una caldaia. Ma undici anni dopo tutti
erano diventati esperti delle tecniche della polizia, che nei momenti di
emergenza ha bisogno di guadagnar tempo per tentare di saperne di piu', per
ricevere ordini, per decidere il da farsi.
Non c'erano cordoni polizieschi e senza difficolta' entrai nella grande sala
a pianterreno. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e poi una testa
rotolare sul pavimento tra detriti, carte, cadaveri, travi, seggiole rotte.
Girai intorno al bancone dalla forma di ferro di cavallo. Il sangue colorava
il vetro polverizzato e il legno dei mobili ridotto in briciole. Brandelli
di corpi umani - una macelleria dell'orrore - spuntavano da ogni parte,
qualche cadavere era finito dietro il bancone dove gli impiegati, una parte
di loro, almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in una
trincea.
I salvati venivano condotti fuori a braccia, infilati nelle ambulanze.
Qualcuno - un infermiere, un poliziotto? - gettava in un mucchio informe
gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno
gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la
tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande,
mi sentivo confusamente prigioniero di un'atonia paralizzante. Non mi veniva
in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se il cervello si
fosse azzerato. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza.
Ero invece smisuratamente attento ai particolari. Non smettevo di guardare i
resti straziati dei corpi tutt'uno con l'intonaco, un tavolo rotto, una mano
recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Ma mentre
camminavo sui calcinacci non sapevo ancora collegare i tasselli di quel che
era accaduto in quell'ambulacro di morte.
Tra le macerie captavo qualche parola. Sembravano voci recitanti, dialetti
mescolati di tonalita' diverse. A esprimersi, con mozziconi di frasi, tra i
lamenti, erano gli ultimi sopravvissuti, impiegati, commessi, agricoltori.
La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore. La borsa che
conteneva l'esplosivo - si sapra' dopo che era un misto di polvere e di
plastico di provenienza militare - era stata messa sotto il tavolo di legno
in mezzo al salone e aveva creato un buco profondo dalla forma di un
rettangolo. L'epicentro della strage. I frammenti della bomba erano
schizzati soprattutto dalla parte dei banchi degli impiegati seminando
cadaveri, smembrandoli - diciassette morti e un centinaio di feriti -, ma
questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni successivi
dopo un macabro alternarsi di voci. Non riuscivo a spostarmi dall'orlo del
buco. Cominciavo lentamente a capire l'enormita' di quanto era successo ma
senza la percezione di trovarmi dentro una storia di cui si sarebbe discusso
per anni.
A un certo momento vidi sul muro dietro i banconi l'orologio della banca che
non avevo notato prima. Paralizzato come da una sincope. Si era fermato alle
16,37. Quasi un notaio della strage. Fara' il giro del mondo.
Fino a quell'ora il salone della Banca nazionale dell'agricoltura era stato
popolato piu' del solito dai clienti del mercato del venerdi', di antica
tradizione, estate e inverno. Per offrire ai clienti maggiori opportunita',
gli sportelli, nel pomeriggio di quel giorno, restavano aperti piu' a lungo
dell'orario abituale.
Compratori e venditori di bestiame, di terreni, di fieno, di grano, di
sementi, usavano da sempre la Banca dell'agricoltura e il tavolo di legno
massiccio, ottagonale, era il posto dove, dopo gli interminabili tira e
molla e le rotture, vere o finte, dopo la stretta di mano dei contraenti,
tagliata dai mediatori, come usava un tempo, si arrivava all'atto finale. Si
sedevano proprio li' gli agricoltori per firmare l'assegno, il bonifico, la
distinta di versamento, la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di
scrittura, era diviso a spicchi e capitava che i clienti appoggiassero la
loro borsa sul pavimento accanto ai divisori di legno.
Anche l'assassino aveva lasciato li' sotto la borsa fabbricata da
un'industria tedesca, la Mosbach e Gruber, con dentro la bomba. Venduta con
altre tre borse simili - si sapra' dopo - dalla valigeria Al Duomo di
Padova.
Restai ancora un po' di tempo, non misurabile, in una gran polvere di
relitti davanti a quel poligono di morte. Poi cominciarono ad arrivare le
autorita', il prefetto, il cardinale, il questore, il sindaco e si misero in
moto i meccanismi dell'ufficialita'. Si formarono blocchi, cordoni,
barriere, cominciarono a sentirsi urla stizzite, gli ordini gutturali delle
guardie. Le autorita' interessavano piu' dei morti e dei sopravvissuti.
Uscii dalla banca o fui fatto uscire.
Non avrei mai immaginato, allora, quanto quel fatto atroce sarebbe stato
importante nelle scelte della vita di molti. Significo' il rifiuto di tutto
quanto viene dato per scontato, la necessita' di una continua riconquista
dei diritti acquisiti e poi cancellati, il dovere di mettere perennemente in
discussione le "verita'" del potere politico e istituzionale e le certezze
di chi, in nome della ragion di Stato, ritiene oro colato anche le bugie
piu' impudiche.
Quante volte avrei sentito, dopo, le parole piazza Fontana, Banca nazionale
dell'agricoltura.
Quella notte andarono a dormire in pochi. Si temeva il colpo di Stato. Dopo
averne parlato per mesi i ragazzi del Movimento studentesco cercavano ora un
tetto fuori di casa per nascondersi. Fino a tardi ci fu quasi una
processione nella piazza, uomini e donne di ogni condizione sociale
sostavano in piccoli gruppi davanti alla banca e nelle strade li' intorno,
via Santa Tecla, via Larga, via Festa del Perdono, piazza Santo Stefano, il
Verziere. A discutere, a far congetture, a darsi torto o ragione mentre le
notizie delle bombe di Roma all'Altare della patria e alla Banca nazionale
del lavoro e del fallito attentato di Milano alla Banca commerciale
italiana, in piazza della Scala, aprivano nuovi scenari e alimentavano nuovi
incubi.
*
Da pagina 70
Indro Montanelli, il giornalista principe della nazione, stella polare della
citta' - Milano gli ha dedicato nel 2006 una statua dorata, seduto in un
tempietto ai giardini pubblici con la sua Lettera 22 sulle ginocchia - e' il
nume della borghesia conservatrice che un quarto di secolo dopo lo tradira'.
Forcaiolo anarcoide, modello del fascista che in un fantasioso domino di
date apocrife cancella il suo passato, reazionario travestito da vecchio
saggio, abile nell'apparire controcorrente, italiano selvaggio e acuto,
giornalista di arcani istinti, e' riuscito a render credibile la favola di
essere uno che gliele canta chiare ai potenti dei quali e' al servizio.
Venerato dal suo pubblico, capace di dar di se' un'immagine di uomo libero,
ha saputo mascherare con la sua abilissima verve e con un uso sapiente e
spregiudicato delle bugie, la verita' dei fatti secondo i desideri
padronali. Conservando la sua fama di anticonformista naturale.
Sulla terza pagina del "Corriere della Sera" il 21 marzo 1972 scrive un
elzeviro, Lettera a Camilla, dedicato a Camilla Cederna, giornalista che
sull'"Espresso" ha condotto, negli anni di piazza Fontana, una battaglia
appassionata in nome della giustizia. E' un articolo violento, nutrito di
maschilismo impudico dove la volgarita' si sposa all'insulto della piu'
becera camerata di caserma.
"C'e' chi parla di un retour d'age, ma questo lo escludo senz'altro, visti i
tuoi giovanissimi quarant'anni portati in modo che sembrano trenta. C'e' chi
dice che, piu' delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo,
conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla
parola 'amore' si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...].
Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche
salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi
armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il
gergo dei comizi e non sappia piu' respirare che l'aria del Circo. Ti
capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanita',
ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto
patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia
optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli,
facendo anche del povero Pinelli un personaggio della cafe' society, non mi
stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d'uomo anche se forse un po'
troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore,
il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una
droga. [...]".
Camilla Cederna risponde con severita' sull'"Espresso" senza indulgere alla
polemica: "Pubblicando la Lettera a Camilla [hai fatto] un vero connubio
linguistico da destra nazionale, col suo linguaggio, la sua delicatezza
cultural-sessuale (hai letto l'Eros e Priapo di Gadda?). Hai anche l'aria di
voler fissare un limite d'eta' per la scoperta dell'impegno ideologico, per
il mestiere di 'sentinella', ma cosa mai ti fa pensare che per questo ci
voglia un'eta' acerba? Il problema e' di essere coerenti con le proprie
convinzioni e di difendere i valori morali in cui si crede, cercando di dare
alla giustizia un contenuto diverso da quello a cui siamo abituati, cioe' la
continua incarcerazione degli innocenti. Puo' darsi che rispetto a te abbia
perso credibilita', ma l'importante e' combattere una battaglia giusta e non
avere la stima dei soliti benpensanti".
*
Da pagina 101
Nasce cosi' il ballo macabro della "Colonna infame". E' il primo giorno
d'estate, piove. Sembra una storia di quartiere a ripensarla oggi, dentro un
isolato di dimensioni non ampie, popolato di sbirri, di bargelli, di
monatti, di gente da bettola e da lupanare, di stregoni, esorcisti,
crocesegnati, inquisitori, diavoli, draghi, boia, spie e anche, dentro e
fuori da quel pantano immondo, frati, preti, monsignori, madri badesse,
capitani di giustizia, ufficiali di Sanita', medici, giuristi, il cardinale,
il governatore, il gran cancelliere, il presidente del Senato.
Da quel puntino di Porta Ticinese dove il silenzio di prima dell'alba viene
rotto dalle chiacchiere tremebonde delle donnicciole della Vetra alle grida
mortali del Senato al Lazzaretto al Castello alla guerra combattuta
nell'assedio di Casale Monferrato ai ministri fino al re di Spagna, terra
lontana e domina; si consuma qui la misera vita del barbiere Giangiacomo
Mora.
La struttura dei luoghi non e' mutata. Fanno da sfondo le colonne di San
Lorenzo dove passano le notti i giovani tristi di oggi che lasciano il segno
della loro presenza con le lattine, le bottigliette di birra, le siringhe,
le cartacce gettate per terra, il piscio che cola nella piazza della
basilica e le botteghe - il cuoiaio, il venditore di stoffe, il tintore, il
maestro pellettiere, il farmacista e i bar, Todos a Cuba, Al Battirolo,
Exploit. Quattro secoli fa levavano le insegne qui intorno l'Hostaria della
Rosa d'oro, l'Hostaria del Gambero, l'Hostaria di San Paolo, l'Hostaria dei
sei ladri, l'Hostaria delli Brugnoni, l'Hostaria dell'Agnello, l'Hostaria
del Paiazza, l'Hostaria della Parazana, posti, spesso, di loschi traffici.
C'era un tempo anche l'Offellaria delle sei dita, il batidor de oro, il
candelaio, il menescalco e un po' piu' in la', andando verso il cuore della
citta', "il fruttaruolo che vende gambari in Carrobio" e il gran bar color
arancione dove la ragazza della banda di terroristi aspettera', nel 1980, il
buon esito dell'azione degli amici, l'assassinio del giudice Guido Galli, in
fuga dall'Universita' statale.
Furono i lanzichenecchi, "ventiduemila pedoni e 3.500 cavalli" o "forse
trentacinquemila tra cavalleria e fanteria", a scendere dai Grigioni e a
portar la peste a Milano.
L'orda passo' nel settembre 1629 lasciando guasti e rovine, ma fu un
soldato, di nome Pietro Paolo Locato, il corriere del contagio. Di
guarnigione a Chiavenna, il 22 novembre ebbe una licenza per far visita a
Milano alla zia Elisabetta - i cognati, le zie e i nipoti popolano la storia
sociale d'Italia oltre, s'intende, alle trepide madri mediterranee in
adorazione dei figli fino a tarda eta'.
"Ammalo' e, peggiorando, venne trasportato all'ospedale grande non avendo
mezzi per farsi curare in quella piccola casa. Dopo due giorni mori' e,
fatta l'autopsia del cadavere, si trovarono i bubboni, indizio sicuro di
peste, non mai prima riscontrati in citta' benche' il volgo molto ne
mormorasse. In breve morirono quanti abitavano in quella casa, togliendo
ogni dubbio che la peste fosse introdotta in Milano. Denunziato il caso al
magistrato di Sanita', venne posta sotto sequestro la casa di cui era
proprietario un Colonna, il quale mori' egli pure insieme con la moglie e i
figli".
*
Da pagina 127
La storia non insegna mai nulla, come predicano invece i manuali scolastici.
E' una palla di neve che rotola, si ingrossa e poi si sfalda sotto la
pioggia. Nel Novecento, e poi nel Duemila, quattro secoli dopo il 1630, la
tortura resta indenne nel corpo di non pochi Stati e nell'agire degli
uomini.
1944. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea. Franc
Mernik, contadino iugoslavo, fucilato dai nazisti il 16 giugno 1944 a
Maribor.
"Cara moglie, tu sai come ci torturano. Ci spengono sul petto nudo le
sigarette accese, e, di giorno in giorno, quando ci sono gli interrogatori,
ci tirano la pelle con tenaglie arroventate, ci mettono le dita sui ferri
arroventati o ci estraggono le unghie dalle dita. Sono sofferenze terribili.
Rimani coraggiosa e in buona salute; educa bene nostro figlio e nostra
figlia, se ormai il destino ha deciso che non ci incontreremo piu' nella
vita. [...] Il tuo addolorato marito, Francek Mernik".
1957. La guerra d'Algeria. Henry Alleg, giornalista di "Alger republicain",
catturato dai paracadutisti francesi.
"Sempre sorridendo mi agito' dinanzi agli occhi le pinze cui erano fissati
gli elettrodi. Piccole pinze d'acciaio brillante, lunghe e dentellate. Pinze
'coccodrilli', dicono gli operai delle linee telefoniche che le adoperano.
Me ne fisso' una al lobo dell'orecchio destro, l'altra a un dito della mano
destra. Improvvisamente sobbalzai e urlai a squarciagola. Cha... mi aveva
cacciato in corpo la prima scarica elettrica. Vicino all'orecchio era
scoccata una lunga scintilla. Sentii il cuore balzarmi nel petto. Mi torcevo
urlando e mi irrigidivo sino a ferirmi, mentre le scocche trasmesse da
Cha..., magnete in mano, si succedevano senza soste. Con il loro stesso
ritmo Cha... scandiva una sola domanda, martellando le sillabe: 'Dove sei
stato ospitato?'.
Mi tolsero í pantaloni, abbassarono lo slip e mi fissarono gli elettrodi
agli inguini. Cominciarono a girare la manovella del magnete. Ormai non
gridavo che all'inizio della scossa e a ogni nuova immissione di corrente; i
miei movimenti erano assai meno violenti che durante le prime sedute [...].
Mentre il supplizio proseguiva, sentivo una radio urlare canzonette di
moda".
1967. La Grecia dei colonnelli. Durante il 1967, i rapporti sulle torture
cominciavano ad apparire sulle pagine del "Guardian", di "Le Monde", del
"Times", del "New York Times". Amnesty International invio' due missioni: i
rapporti, redatti da un avvocato inglese e da uno americano, citavano i
luoghi della tortura, le tecniche impiegate, e anche i nomi dei torturati e
degli aguzzini.
"A un anno dal putsch, all'estero si poteva avere un'idea chiara di cio' che
accadeva in vari posti di polizia e nei campi militari greci. Nessuno
ignorava piu' la sede di via Bouboulinas e il suo capo Lambru. Il campo
militare di Dionisos, alla periferia di Atene, era conosciuto per la
brutalita' e per il comportamento del maggiore Theofilojannacos. Il corpo
degli aguzzini comprendeva membri della polizia militare (Esa) e del Kyp (la
Cia greca) e anche medici, il piu' celebre dei quali, il dottor Karagunakis,
si dedicava alla tortura elettrica nell'ospedale militare 401".
1982. L'Iran di Khomeini. Marina Nemat, 16 anni, ritenuta una sovversiva dal
governo islamico, condannata a morte, poi graziata.
"'Ti frustero' le piante dei piedi con questo tubo', disse dondolandomi
davanti alla faccia un pezzo di tubo nero, di piu' di due centimetri di
diametro. 'Ali', secondo te quanti colpi ci vorranno per farla parlare?'.
'Non molti'. 'Io dico dieci'. Il tubo fendette l'aria con un sibilo secco e
minaccioso, atterrando sulle piante dei miei piedi. Dolore. Non avevo mai
provato niente di simile. Non avrei nemmeno potuto immaginarlo. Mi esplose
dentro come la scarica di un fulmine. Secondo colpo: il respiro mi si fermo'
in gola. Com'era possibile soffrire in quel modo? Cercai di pensare a
qualcosa che mi aiutasse a resistere. Non potevo gridare perche' non mi era
rimasta abbastanza aria nei polmoni".
2003. Sul cittadino egiziano Abu Ornar rapito dalla Cia in Italia. "Il
Parlamento europeo [...], considerando che la proibizione della tortura e'
una norma imperativa del diritto internazionale jus cogens, a cui non e'
possibile derogare, e l'obbligo di proteggere dalla tortura, di indagare in
proposito e di condannarla e' un obbligo di tutti gli Stati erga omnes, come
sancito dall'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo, dall'articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali dell'Unione europea e dalle
costituzioni e legislazioni nazionali degli Stati membri; considerando che
convenzioni e protocolli specifici concernenti la tortura e i meccanismi di
controllo adottati a livello europeo e internazionale dimostrano
l'importanza attribuita dalla comunita' internazionale a questa norma
inviolabile; considerando che l'uso di garanzie diplomatiche e'
incompatibile con tale obbligo, [...] condanna la consegna straordinaria da
parte della Cia del funzionario egiziano Abu Omar, al quale era stato
concesso asilo in Italia e che e' stato rapito a Milano il 17 febbraio 2003,
trasferito in macchina da Milano alla base militare Nato di Ramstein in
Germania, verso l'Egitto, dov'e' stato tenuto in incommunicado e torturato;
condanna il ruolo attivo svolto da un maresciallo dei carabinieri e da
taluni funzionari dei servizi segreti e di sicurezza militari italiani
(Sismi) nel rapimento di Abu Omar, come risulta dall'indagine giudiziaria e
dalle prove raccolte dal Pubblico ministero di Milano Armando Spataro;
conclude e deplora il fatto che il generale Nicolo' Pollari, gia' direttore
del Sismi, abbia nascosto la verita' il 6 marzo 2006, quando e' comparso di
fronte alla commissione temporanea, affermando che gli agenti italiani non
avevano partecipato a nessun rapimento perpetrato dalla Cia e che il Sismi
non era a conoscenza del piano per il rapimento di Abu Omar".
2004. Le torture nella prigione di Abu Ghraib dopo l'aggressione Usa
dell'Iraq avvenuta nel 2003. Le immagini di quel che accadeva nella prigione
sono state trasmesse per la prima volta dalla rete televisiva americana Cbs
nel programma 60 minutes II, il 28 aprile 2004.
"Cio' che le immagini di Abu Ghraib hanno chiaramente mostrato e' il volto
sorridente dei soldati americani impegnati a tormentare i detenuti. Le pose
che assumono sono di chi e' felice di apparire in una foto ricordo, sempre
pronta in tasca per essere mostrata con orgoglio ad amici e parenti.
"Questo dimostra come le torture siano state perpetrate in un contesto
assolutamente libero, senza che vi fosse da parte degli aguzzini la minima
preoccupazione rispetto al rischio di essere scoperti dai superiori, forse
anzi con la consapevolezza che tali crimini potessero essere commessi non
solo con la loro acquiescenza, ma addirittura con il tacito consenso. Non e'
un mistero, del resto, che torturatori non ci si improvvisi da un giorno
all'altro: occorre un soldato inesperto e poco preparato sugli standard
internazionali del diritto umanitario, meglio se adeguatamente indottrinato
sulla cattiveria assoluta e bestiale del nemico da punire; servono superiori
pronti a chiudere un occhio sul rispetto della disciplina e un'intera catena
di comando propensa ad accettare esuberanze che spesso arrivano a
configurarsi come veri e propri crimini di guerra; e' necessaria anche una
certa atmosfera generale, quella del tutto ci e' permesso, siamo dalla parte
del giusto, che spinge le autorita' politiche a ridurre il controllo sul
rispetto delle regole e sconsiglia invece l'adozione di provvedimenti
efficaci per colpire i responsabili degli abusi. Il 'sistema della tortura'
e' costituito da tutti questi elementi messi insieme e, da quello che
sappiamo, ad Abu Ghraib non ne mancava nessuno".
Possono andar fieri i milanesi di quel che e' stato scritto tre secoli e
mezzo dopo la colonna infame (il 13 agosto 2006) in un editoriale di prima
pagina del "Corriere della Sera", firmato da Angelo Panebianco, che ha fatto
ricordare, in gloriam, il cittadino illustre Cesare Beccaria, pubblicando un
elogio della tortura: "Facciamo un'ipotesi di fantasia, ma non proprio del
tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che
l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli
attacchi dell'undici settembre [2001], con migliaia e migliaia di vittime
innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione estorta dai
servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto
nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato illegalmente). [...] Fra
coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi e tentennamenti ci
sarebbero anche tante brave persone di buona fede che hanno orrore del
terrorismo ma che credono che cose come la legalita', i diritti umani e
quello che chiamano (in genere, senza sapere cosa sia) lo "stato di diritto"
debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di
migliaia di vite umane [...]".
Jean-Paul Sartre: "Felici quelli che sono morti senza aver mai dovuto
domandarsi: 'Se mi strappano le unghie, parlero'?'. Ma piu' felici quelli
che non sono stati costretti, usciti appena dall'infanzia, a porsi l'altra
domanda: 'Se i miei amici, i miei compagni d'armi, i miei capi strappano le
unghie a un nemico dinanzi ai miei occhi, che cosa faro'?'".
*
Da pagina 151
La citta' e' incenerita. Le bombe hanno distrutto interi quartieri, strade,
chiese, palazzi. Non soltanto la Scala. Santa Maria delle Grazie,
Sant'Ambrogio, San Fedele, il Teatro Manzoni, il Teatro Dal Verme, la Ca'
Granda, l'Universita', corso Vittorio Emanuele. Fra il 7 e il 15 agosto
1943, nei 45 giorni del governo del maresciallo Badoglio, 916 quadrimotori
della Raf radono al suolo 12.000 edifici, ne danneggiano altri 15.000. Resta
fortunosamente in piedi il Duomo. I morti sono migliaia.
I fuochi degli incendi, la notte, si vedono da lontano. Vanno in fumo gli
archi, le colonne, i monumenti mirabili e le povere case, le vie del centro
storico e quelle di periferia. I repubblichini stampano sui francobolli le
immagini delle opere d'arte sbriciolate, con la scritta "Hostium rabies
diruit". La paura e' il sentimento comune. Sotto quei bombardamenti
terroristici, 250.000 persone restano senza tetto. Ogni sera i sopravvissuti
abbandonano l'abitato e con ogni mezzo fuggono in lunghe file verso la
campagna. Piange la citta', piangono i poeti: "Non toccate i morti, cosi'
rossi, cosi' gonfi: / lasciateli nella terra delle loro case: / la citta' e'
morta, e' morta".
Milano e' una gigantesca prigione. Gli atti del processo celebrato dalla
Corte d'Assise nel maggio 1947 contro gli uomini della Legione autonoma
Ettore Muti riempiono ancora oggi di angoscia. L'elenco dei delitti commessi
e' lungo: oltre al collaborazionismo con il tedesco invasore, sequestri,
arresti arbitrari a scopo di lucro personale, furti, rapine ai danni di
antifascisti e di ebrei, consegna ai nazisti di prigionieri politici oppure
di "cittadini che non aderissero alle richieste criminose mascherate col
movente politico", rastrellamenti antipartigiani o di persone estranee
eseguiti con saccheggi, incendi, massacri, sevizie, minacce sulle persone
dei famigliari, lesioni gravi o gravissime con "vari tipi di bastone
foderati di cuoio ingrossati ad una estremita' [le cosiddette V1, V2, V3],
col calcio del fucile, con sedie e assi di legno, con sacchetti di sabbia,
con bastoni animati, con scarpe calzate, mediante strappamento delle unghie
delle mani, con lampade a luce violenta, con altoparlanti funzionanti giorno
e notte". E poi: "Omicidi a scopo di lucro e per occultare altri reati,
inscenando finte fughe delle vittime, occultandone il cadavere, gettandolo
in aperta campagna o in corsi d'acqua, inscenando simulate scarcerazioni che
formalmente apparivano registrate negli incartamenti degli uffici della
'legione' e a cui seguivano invece le uccisioni mediante il cosiddetto
'viaggetto notturno' attribuendo il delitto, a volte, anche ai tedeschi
occupanti e sempre agendo con particolare crudelta' dopo aver seviziato le
vittime".
Il comandante della legione, Francesco Colombo, era un sergente che dopo l'8
settembre si cuci' sulla giubba i gradi di colonnello; il vicecomandante,
Ampelio Spadoni, era un caporale che, piu' modesto, si cuci' sulla giubba i
gradi di tenente colonnello. Colombo fu fucilato dai partigiani dopo la
Liberazione, Spadoni, nel 1972, ebbe nel centro di Milano un funerale
solenne vegliato da statuari personaggi con baschi da para', gagliardetti e
bandiere.
Le vittime della Muti non erano state poche negli anni di Salo'. Un tenente
della legione si era vantato di avere ucciso da solo 210 persone; un
maggiore, nella sua macabra contabilita', era arrivato a 82 omicidi.
Qualcuno pago' con la vita per quei delitti. Con il comandante Colombo
furono "giustiziati dal popolo", come scrisse nella sua sentenza la Corte
d'Assise di Milano, il maggiore Bruno De Stefani, Celestino Carrella - il
legionario che si faceva chiamare "conte di Toledo" - i capitani Azeglio
Beltramini e Geminiano Venturini. Ma passati i giorni infuocati della
Liberazione, la Corte di Cassazione, l'amnistia Togliatti, l'anticomunismo
che mandava assolto anche il fascismo piu' nero, addolcirono le pene, le
commutarono, le cancellarono.
La Muti, 2.700 fanatici, non era una qualsiasi formazione di briganti, ma
l'incarnazione della Repubblica di Salo', la "pupilla del duce", che se ne
serviva per i bassi servizi criminali. Il 28 ottobre 1944 fece dono ai
camerati di via Rovello di una sua fotografia: "Agli arditi che sono
veramente tali della legione 'Muti', degni di portare il nome dell'eroe,
dedica Mussolini".
Le bande fasciste hanno preso quartiere in tutta la citta', simili a quei
puntini colorati delle centrali di controllo del traffico che si accendono a
comando sugli schermi, bianchi, rossi, verdini.
La banda Bossi in via Moscova, nella caserma dei carabinieri; la brigata
nera Resega in via Fiamma; la Gnr in via Lamarmora e in via Abbondio
Sangiorgio; la X Mas in piazza Fiume, un palazzone all'angolo del viale
Monte Santo. Il generale Karl Wolff, comandante delle SS in Italia, di
passaggio da Milano alloggia in una villetta di viale Zara; il colonnello
Eugenio Dollmann in un pied-a'-terre all'Hotel Principe di Savoia.
In appartamenti requisiti, magazzini, case fuori mano o anche in palazzi
dove l'andirivieni non da' sospetti, nazisti e fascisti hanno allestito le
loro centrali di spionaggio, mascherate spesso dall'attivita' di imprese
commerciali. Piccoli capi si sono messi in proprio o lavorano al servizio di
figuri usciti da sordide tane.
Gli innumerevoli uffici dei servizi di informazione dei reparti tedeschi e
delle bande italiane sono disseminati tra le strade, le piazze, il parco, la
ferrovia, in centro e in periferia. Da quelle stanze dipendono spesso i
destini di uomini e di donne fucilati contro una muraglia o finiti nei forni
di Auschwitz.
La banda Koch, poi. Villa Triste. Cosi' chiamata dalle vittime di efferate
torture, prese il nome da una malinconica canzone. Via Paolo Uccello 19, tra
la vecchia Fiera Campionaria e San Siro.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 381 del 19 ottobre 2009

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