Nonviolenza. Femminile plurale. 276



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 276 del 18 settembre 2009

In questo numero:
1. Alcuni estratti da "Cecenia. Il disonore russo" di Anna Politkovskaja
(parte seconda e conclusiva)
2. Gabriella Gallozzi: Un film-denuncia di Hana Makhmalbaf
3. Anna Maria Pasetti: Scrittrici e registe iraniane per la liberta'
4. Cristina Piccino: Il film di Shirin Neshat
5. Natalia Tornesello presenta "Figlie di Shahrazad" di Anna Vanzan

1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CECENIA IL DISONORE RUSSO" DI ANNA
POLITKOVSKAJA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Anna
Politkovskaja, Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006, 2009]

Da pagina 164
Perche' non amo Putin
Chi ha scolpito la societa' russa nella sua forma attuale?
Lo scultore capo della Federazione russa, in questo inizio di ventunesimo
secolo, e' senza dubbio Vladimir Putin. E per quanto mi riguarda, non lo amo
proprio per come ha scolpito questa Russia.
Vorrei essere capita bene: voglio cercare di spiegare perche' io, normale
cittadina, contribuente e giornalista, non amo il presidente del mio paese,
visto che nel 2000 e' stato eletto dalla schiacciante maggioranza dei miei
concittadini e gode ancora oggi di un margine di popolarita' molto elevato.
Non ho niente di personale contro di lui, ne' lo conosco direttamente. Per
me Putin e' una funzione, non una persona. Riguardo a questa funzione ho
delle esigenze molto semplici: un presidente deve operare per far diventare
il suo paese migliore e piu' prospero. Ma da noi non e' successo niente del
genere. Moralmente, la Russia di Putin e' ancora piu' sporca di quella di
Eltsin, e' una discarica di immondizia coperta di rovi.
I motivi sono molti, ma il principale e' sicuramente la seconda guerra
cecena in cui e' invischiata tutta la societa', Putin compreso. Dalle
elezioni del 2000 a oggi, la guerra rimane la sua grande causa. In Russia,
Putin e il suo popolo hanno dato la loro benedizione a qualcosa che nessun
paese, che non sia totalitario, puo' approvare: una corruzione fondata sul
sangue, migliaia di vittime che non suscitano stupore ne' protesta, un
esercito corroso dall'anarchia militare, uno spirito sciovinista in seno
all'apparato di governo spacciato per patriottismo, una retorica sfrenata
dello stato forte, un razzismo anticeceno ufficiale e popolare con metastasi
che si estendono ad altri popoli della Russia.
Non amo Putin perche' per sedersi sul trono e regnare da padrone (e
continuare ad avere buoni sondaggi d'opinione) ha incoraggiato la cancrena
morale della Russia.
*
Pericolosi giochi ideologici
Tutte le mattine, al giornale, ricevo della posta. Talvolta, come un attacco
di tachicardia o aritmia, queste lettere mi fanno dimenticare le
preoccupazioni o cambiano il corso dei miei pensieri.
La lettera di cui voglio parlare porta il timbro postale di Mosca, 15 aprile
2002:
"Buongiorno, le scrivo perche' sono un suo fedele lettore e non so a chi
altro rivolgermi. Il mio problema e' che sono ceceno. Me l'ha spiegato un
miliziano 'tutore dell'ordine pubblico'. Immagino che anche lei abbia i suoi
problemi, spero tuttavia che possa aiutarmi.
Il 23 marzo scorso rientravo a casa alle dieci e mezzo di sera. Durante il
tragitto, sono stato fermato da una pattuglia della milizia. Mi hanno
chiesto i documenti. Erano in regola. Allora mi hanno perquisito, poi hanno
preteso che mostrassi loro le mani perche', a quanto mi dissero, ero molto
pallido (e' il modo in cui molto spesso, per strada, la polizia diagnostica
il consumo di droghe). Ma addosso non avevo niente.
A quel punto e' cominciato tutto. Mi e' stato ingiunto di spogliarmi.
Naturalmente ho rifiutato, oltre tutto la temperatura era gelida. Allora due
membri della pattuglia si sono messi a colpirmi sui reni con i manganelli
gridando che bisognava fare fuori tutti i ceceni. A ogni colpo che mi dava,
uno di loro diceva che era per vendicare i soldati russi morti in Cecenia.
Avrebbero finito per uccidermi, ma per fortuna e' intervenuto un terzo
miliziano, che a differenza degli altri due non era ubriaco. Ha detto
qualcosa agli altri: mi hanno assestato ancora qualche colpo, poi hanno
preso tutti i soldi che avevo e mi hanno mandato via con la minaccia che
avrebbero di nuovo incrociato la mia strada.
Non posso neanche permettermi di aver paura di loro, perche' le autorita'
sono tutte dalla loro parte. Dovunque mi rivolgo non trovo aiuto ne'
consiglio.
Non posso darle il mio nome ne' il mio indirizzo. Pubblichi questa lettera,
se possibile, e mi dia dei consigli su cosa fare: I milizíani hanno
affermato di avere mille maniere per sbattermi in prigione. Mi aiuti!
A. Aslan, Mosca".
Questa lettera, emblematica, mi aiuta a spiegare perche' non amo Putin. In
redazione, lettere del genere arrivano tutti i giorni.
Non amo il presidente del mio paese perche' ha giocato (e continua a
giocare) giochi ideologici pericolosi con il mio paese.
Il primo gioco, probabilmente il piu' pericoloso, porta il vecchio nome di
razzismo. L'anonimo che si fa chiamare A. Aslan ne e' la vittima. Non c'e'
dubbio che in Russia, paese perennemente occupato a trovare nemici interni
responsabili di tutte le sue disgrazie, il gioco sia molto redditizio in
termini di popolarita'. E' lo stesso meccanismo che spiega il recente picco
di popolarita' di Jean-Marie Le Pen in Francia. Sia qui che in Francia, si
fa appello ai bassi istinti della folla.
Ma attenzione, non bisogna assolutamente pensare che Putin faccia discorsi
razzisti. Niente del genere. Putin e' furbo e abile, e ha un ricco bagaglio
di esperienza maturata nel Kgb. E' difficile coglierlo in flagrante e
accusarlo di razzismo. Un'abilita', questa, che consente a numerosi
intellettuali russi di trovargli delle scusanti: non bisogna demonizzarlo,
dicono.
In effetti Putin, in pubblico, ha un comportamento riservato e corretto,
come si conviene a un uomo di Stato. Ma malgrado le sue parole compite, si
comporta male. Questa combinazione di ipocrisia e menzogna spacciate per il
loro contrario e' tipicamente sovietica.
Il razzismo di Putin si manifesta per gradi in tutta la sua politica reale,
e prima di tutto nella sua politica del genocidio, perpetrata in Cecenia.
Poi nella sua politica sul resto del territorio russo al di fuori della
Cecenia, dove ceceni e caucasici in genere vengono perseguitati, per strada,
perche' hanno la faccia sbagliata. Esattamente come racconta A. Aslan.
Quindi a queste persone e' molto difficile trovare un impiego e non hanno
altra possibilita' che lavorare in nero. Hanno difficolta' anche a
iscriversi a scuola o all'universita'. Incontrano complicazioni enormi per
affittare o comprare un appartamento fuori dalla Cecenia o dal Caucaso.
Nessuno infatti ha voglia di affittare o vendere un appartamento a una
famiglia cecena o caucasica, per timore di essere sospettato dalle autorita'
di "fornire appoggio ai terroristi", con le immaginabili conseguenze.
Sebbene siano cittadini russi, A. Aslan e i suoi simili sono dei paria.
Questa messa al bando dalla societa' risulta dalla volonta' delle autorita',
locali e superiori. E le autorita' agiscono in totale impunita': se Putin
non considerasse questi soprusi come la norma, molte teste sarebbero gia'
cadute e molte poltrone si sarebbero liberate.
Ma niente del genere e' successo. Dall'inizio della seconda guerra cecena,
nessun funzionario o militare si e' trovato a dover rispondere di azioni
razziste o di mancato rispetto della Costituzione.
Cio' dimostra che la pratica razzista e' autorizzata dai massimi vertici
dello stato. Cosi' la pensa il presidente russo, pertanto non c'e' modo di
punire nessuno. Altrimenti come spiegare che nessun tribunale prenda in
esame le denunce delle vittime del razzismo? La Russia e' fatta cosi': da
noi dipende tutto dallo zar, dal capo, dal segretario generale,
dall'autorita' suprema.
*
Da pagina 170
Come tutti i dittatori del ventesimo secolo, Putin gioca con i sentimenti
piu' bassi del popolo. Non lo amo, perche' immagino facilmente quale sara'
la reazione di un adolescente russo dopo aver visto quel telefilm e sentito
il discorso del presidente: si alzera' dal divano, pronto ad andare a
combattere contro "loro". Ma cosa provera' l'adolescente ceceno?
Un'intransigenza e un odio feroce verso di noi, non ha altra scelta se non
e' un infame. La stessa reazione si applica agli adulti. Ne concludo che
Putin sponsorizza la guerra civile nel suo paese. E' un crimine di stato
mettere una contro l'altra le differenti componenti etniche di una stessa
nazione, generando necessariamente separatismo, terrorismo ed estremismo,
nonche' violenza della peggior specie. La cosa e' tanto piu' criminale in
quanto Putin non agisce per stupidita' ma per calcolo, con l'unico obiettivo
di mantenere intatta la sua reputazione. In Europa il razzismo trova terreno
fertile nelle categorie svantaggiate. In Russia, dove la maggiorarza della
popolazione ha perso i suoi punti di riferimento ed e' immersa nella
miseria, il razzismo ha un'eco fantastica e cio' fa magnificamente al caso
di Putin, aiutandolo a mantenersi su un trono al quale e' giunto quasi per
caso.
Questo gioco, questo sfruttamento del sentimento razzista, e' cominciato con
la guerra in Cecenia. A voler essere precisi, la guerra non sarebbe
cominciata se l'ancora poco conosciuto tenente colonnello Putin non avesse
avuto bisogno di ampliare la sua quota di popolarita' in vista delle
elezioni presidenziali. Continuando questa guerra vergognosa dopo essere
stato eletto, il presidente ha rinforzato la "fede" dei suoi partigiani,
subito convinti che i ceceni, se non sterminati, dovevano almeno essere
confinati in un ghetto circondato dall'esercito. Ma le conseguenze non si
sono fermate li'. Il razzismo si e' allargato a macchia d'olio tra coloro
che erano in dubbio. Oggi la Russia di Putin produce ogni giorno nuovi
appassionati di pogrom. Le aggressioni ai caucasici nei mercati della
maggior parte delle nostre citta' fanno parte della routine quotidiana, e la
televisione non parla che delle piu' sanguinose. Ma Putin non ferma ne'
rallenta la macchina infernale che ha messo in moto, per la semplice ragione
che deve ancora aggiudicarsi le elezioni presidenziali del 2004.
Il risultato di tutto cio'? La Russia conta oggi milioni e milioni di
cittadini con opinioni razziste ben sedimentate. E' una catastrofe
planetaria, se consideriamo le dimensioni del nostro paese.
*
Da pagina 178
Cosa siamo diventati dopo aver vissuto due anni interi sotto Putin? Che
trasformazione abbiamo subito? E in che misura Putin stesso e' cambiato,
contemplando la docilita' servile del suo paese dove di nuovo, come
all'epoca sovietica, neanche gli istinti biologici resistono al dovere
civico imposto dallo Stato? Alludo alle migliaia di madri di soldati che
hanno perduto i figli in guerra e non osano, non si sognano nemmeno di
levare la loro voce contro l'incessante ecatombe nel Caucaso del Nord. E che
per giunta sono pronte a baciare la mano del responsabile dell'omicidio dei
figli e ad assicurargli la loro perenne devozione.
Da nome proprio, Putin e' diventato un nome comune. E' diventato il simbolo
della restaurazione di un regime neosovietico in Russia.
E noi? Noi siamo il suo popolo. Assicuriamo questa restaurazione. Siamo un
popolo di tovarich, di "compagni" che per un certo periodo si sono
considerati gospoda, "signori", e che ora desiderano tornare alla situazione
di prima. Non abbiamo cambiato, mettendoci sotto la bandiera di Putin, siamo
solo tornati a casa. Questa e' la cosa principale. Non c'e' stata alcuna
metamorfosi, abbiamo semplicemente fatto marcia indietro verso il nostro
recente passato sovietico. Putin si e' limitato a sfiorare il nostro punto
sensibile e noi, come tante rane di laboratorio, abbiamo reagito alla lieve
scossa elettrica con un brivido collettivo.
Ma qual e' questo "punto sensibile"?
E' il nostro servilismo, uno stato che ci e' caro. Come e' noto, alla fine
del periodo eltsiniano la maggior parte dei cittadini russi ripensava
all'epoca sovietica come a un periodo felice. Ricordavano l'Urss come un
gigantesco impero che faceva paura a tutto il mondo, dove la popolazione era
sicura del domani. Non sapendo come gestire il nuovo corso economico, la
maggioranza della gente, invece di rimboccarsi le maniche e mettersi a
costruire una societa' democratica, era divenuta nostalgica di quella comoda
epoca dove non eravamo responsabili di quasi niente, dove quasi non
lavoravamo ma avevamo comunque pane e salame assicurato: una nostalgia
battezzata "salame da due rubli e venti", dal nome dell'indigesto prodotto
dell'epoca sovietica alla portata di tutti.
Se pensate che Putin abbia genialmente percepito i desideri della folla e vi
si sia appoggiato per costruire la sua politica sciovinista dello stato
forte, vi sbagliate di grosso. Non e' un genio, e' fatto della stessa pasta
della nostra folla, che e' insieme filosovietica e postsovietica, ed e'
proprio da qui che nascono i nostri problemi attuali. Anzi, la folla lo
apprezza proprio perche' fa corpo con lei. E' lui stesso un "salame da due
rubli e venti", sinceramente convinto che l'epoca sovietica sia stata la
migliore e che bisognerebbe restaurarla. Era l'epoca in cui il Kgb era
all'apogeo del suo potere, tutti ne avevano paura senza precisamente sapere
perche'. L'epoca in cui si aveva una doppia vita e una tripla morale.
L'epoca in cui il capo aveva una faccia per l'Occidente e una per il suo
popolo. L'epoca in cui la potentissima macchina per il lavaggio dei cervelli
funzionava giorno e notte sotto la direzione del partito. L'epoca in cui
solo i cinici avevano una probabilita' di successo.
A dire il vero, ho fatto un ritratto della Russia di oggi, di questo inizio
di ventunesimo secolo. Il passato e' tornato.

2. IRAN. GABRIELLA GALLOZZI: UN FILM-DENUNCIA DI HANA MAKHMALBAF
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 12 settembre 2009 col titolo "Immagini sul
regime rubate col telefono" e il sommario "Lo scioccante film-denuncia di
Hana Makhmalbaf mostra la repressione e le torture dellla dittatura di
Ahmadinejad"]

"Le donne in Iran sono come le molle: piu' le costringi e piu' salteranno in
alto". Col capo coperto dal velo, ma verde, colore della protesta iraniana,
e' arrivata ieri alla Mostra del cinema di Venezia Hana Makhmalbaf, la piu'
giovane della celebre famiglia di cineasti capeggiata dal papa' Mohsen.
Fuori concorso ha presentato Green Day, scioccante documentario sulla
repressione del regime di Teheran all'indomani del golpe che ha riportato al
potere Ahmadinejad, nonostante i voti schiaccianti in favore del suo
oppositore Mousavi. Girato in clandestinita' e con molti video "rubati" col
telefonino, il film ci porta attraverso l'entusiasmo della campagna
elettorale, le strade ingorgate di auto, come da noi dopo le partite, con i
sostenitori di Mousavi e poi attraverso l'orrore della repressione. Il corpo
di Neda sanguinante, le bastonate dei poliziotti, le torture. "Sono 11.000
le persone imprigionate e violentate nelle carceri del mio paese", denuncia
Hana. Gli stupri sono l'aspetto meno noto all'Occidente della violenza del
regime. "Negli ultimi quattro anni - prosegue la regista ventenne - la vita
di tutti noi e' peggiorata. Siamo costretti ai sotterranei: l'arte, il
cinema, la musica, tutto e' sotterraneo perche' la censura non permette piu'
nulla. Il mio popolo e' in ostaggio. Io sono in ostaggio".
Eppure, proprio come l'altro giorno ha testimoniato Shirin Neshat, la voglia
di lottare degli iraniani e' inarrestabile. Come dimostra la massiccia
presenza di registi iraniani a questa Mostra. Ultimi, un gruppo di
giovanissimi filmaker di Teheran che hanno presentato i loro corti di
denuncia alle Giornate degli autori. "Ogni uomo e' un esercito, ognuno di
noi e' ambasciatore - spiega la combattiva Hana -. Ed io col mio cinema sono
testimone. Io sono lo specchio del mio paese che non smette di lottare.
Cosi' com'e' stato per Hitler e Saddam, il destino di ogni fascismo e'
segnato, non durera' in eterno". E anche per le donne sara' lo stesso. "Noi
abbiamo subito tanto, il doppio degli uomini, ed e' per questo che oggi la
protesta e' donna. Col nostro manifestare vogliamo portare pace e
democrazia". Per questo, conclude, "vogliamo che l'Occidente non appoggi
Ahmadinejad. Al resto pensiamo noi: il nostro destino e' nelle nostre mani,
siamo un popolo che combatte da trent'anni per la liberta'".

3. IRAN. ANNA MARIA PASETTI: SCRITTRICI E REGISTE IRANIANE PER LA LIBERTA'
[Dal quotidiano "Il Riformista" del 12 settembre 2009 col titolo "I Green
Days di Hana" e il sommario "Nuova onda verde al Lido fuori concorso.
Applausi per la figlia piu' giovane della factory del regista Makhmalbaf. Un
documento audiovisivo girato in digitale, in pochi giorni, dal valore
politico importante. Per la causa questa e altre iniziative"]

"L'ottanta per cento degli iraniani vuole cambiare. E a tutti i costi. Per
questo il movimento verde sta rafforzandosi come linfa vitale per portare
liberta' e democrazia nel nostro Paese. Abbiamo bisogno della costante
attenzione da parte di tutto il mondo. Ben vengano i social network e ogni
mezzo possibile". Siba Shakib, scrittrice e attivista iraniana che vive tra
New York, Italia e Dubai, poliglotta, possiede la calma di una che sa
perfettamente di cosa sta parlando. "Non e' un'utopia, ma il cambiamento
puo' realmente avvenire. E avverra'".
Lei e' al Lido in qualita' di migliore amica della regista Shirin Neshat,
qui in corsa con Donne senza uomini, ma anche per cercare coproduttori al
suo film d'esordio. "E' tratto - spiega - dal mio ultimo libro Samira &
Samir (uscito in Italia per Piemme, La bambina che non esiste, ndr). Per ora
abbiamo ricevuto i fondi per la sceneggiatura, trovato le location in
Marocco, dove ha girato anche Shirin non potendo girare a Teheran, e il
produttore principale, la societa' tedesca Gemini".
La signora Shakib, incontro fortunato durante gli ultimi giorni della Mostra
del cinema di Venezia, rappresenta un'ulteriore conferma di quanto l'Onda
Verde abbia utilmente invaso la 66ma edizione.
Accanto a Donne senza uomini, diversi i film iraniani in cartellone: Tehroun
di Takmil Homayoun Nader, Chaleh di Alim Karim - entrambi in "Settimana
della critica" -, Sokoote beine do fekr (Silenzio tra due pensieri) di Babak
Payami inserito nel palinsesto di "Cinema e diritti umani", ma soprattutto,
applauditissimo ieri fuori concorso, il nuovo lavoro di Hana Makhmalbaf,
Green Days. La piu' giovane della prodigiosa factory di papa' Mohsen (e' del
1988 e ha girato il suo primo film a soli 9 anni) non poteva scegliere
titolo piu' pertinente per il suo appassionato racconto.
Girato in agile digitale e pochi giorni, e' piu' un documento audiovisivo
che un reportage, facendosi portavoce di un evento che raccolse allo stadio
della capitale decine di migliaia di persone durante le ultime settimane di
campagna elettorale per Mir-Hussein Moussavi. Hana, mostra la sua
protagonista alter ego Ava in tre situazioni che alterna durante l'intero
film: nella veste di intervistatrice presso la folla mentre si reca a o
ritorna dall'evento, nel ruolo di regista teatrale in cui dirige tre ragazze
avvolte di nero e con la bocca sigillata da nastro adesivo, e infine nella
rappresentazione di un se' solitario in preda alla depressione e alla
delusione. La sua voce narrante e' di dolore e si volge alla citta' come se
fosse un amante: "Teheran tu sei le mie lacrime. Teheran tu eri la mia
speranza, oggi tu sei sofferenza. Teheran pero' io ti amo".
La Makhmalbaf si chiede in continuazione se e fino a che punto anche il voto
a Moussavi - prima dello scandalo elettorale perpetrato da Ahmadinejad -
puo' cambiare la situazione del suo Paese. E lo chiede a giovani dipinti e
abbigliati di verde, tifo da stadio, volti illuminati. "Lui ci fara'
cambiare, Ahmadinejad e' un assassino", rispondono alcuni. Ma altri, meno
fiduciosi di lei, temono che "alla fine si tratta solo di votare il meno
peggio. Perche' e' sempre un regime che ci fa scegliere relativamente, non
in maniera assoluta". Non di grandissimo valore artistico, il filmato di
Hana esprime il dovere e il sentire di una giovane iraniana costretta a
vivere fuori confine (a Londra) come tutti gli artisti iraniani "criminali"
secondo il regime.
E "per la causa" - come amano chiamarla qui al Lido - oltre ai film numerose
sono state le iniziative organizzate. L'Ente dello spettacolo, per volonta'
del presidente Dario E. Vigano', insieme all'Ass. Interfilm e all'Ass.
Protestante Cinema di Roberto Sbaffi hanno dato vita al focus sull'Iran
"Storie di dignita' umana e cinema", presenti alcuni registi qui in Mostra.
Presso lo spazio delle Giornate degli autori si e' tenuta una serata
dedicata ai corti iraniani intitolata "Where is my vote?" voluta dal
giornalista Camillo De Marco. Cinque i cortometraggi presentati: brevi ma
sostanziali contributi cinematografici contro chi vuole mettere gli artisti
a tacere. E ieri sera, per chiudere in bellezza, lo splendido concerto di
Mohsen Namjoo, Echoes of Iran, ideato da Fabrica e Cinecitta' Luce. Applausi
per una speranza che resistendo si fa sempre piu' azione.

4. IRAN. CRISTINA PICCINO: IL FILM DI SHIRIN NESHAT
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 settembre 2009 col titolo "Iran,
quattro donne in cerca di futuro nel paese che le nega"]

Shirin Neshat e' una magnifica artista, conosce e ama la potenza delle
immagini, la grana di luce, spazio, orizzonte, i corpi che le abitano e
tutto questo compone l'intensita' violenta di ogni fotogramma del suo primo
film da regista cinematografica, Women Whitout Men, presentato in gara. Il
punto di partenza e' il romanzo di Shahmush Parsipur, scrittrice molto
conosciuta in Iran che la regista ha cominciato ad amare appena scoperta, da
ragazza, quando viveva ancora nel suo paese lasciato per gli Stati Uniti,
New York, dove adesso vive. Donne senza uomini intreccia le vite di quattro
donne molto diverse in un'estate di rivolta e di repressione. Siamo nel
1953, quando l'Iran elegge democraticamente Mohammad Mossadegh, il primo
presidente iraniano che sfida il colonialismo occidentale, nazionalizza il
petrolio iraniano sottraendolo al controllo inglese. Lo scia' lascia il
paese ma ovviamente gli americani e gli inglesi non tollerano questa
dichiarazione di indipendenza, senza contare che l'Iran forniva piu' del 60%
del petrolio utilizzato dai paese occidentali. I governi inglese e americano
(Churchill e Truman), sbandierando il pericolo comunista, organizzarono un
colpo di stato con una serie di attacchi destabilizzanti dall'interno che
facevano passare Mossadegh e i suoi sostenitori per nemici del paese
permettendo il ritorno al potere dello scia'. Sembra l'Iran del movimento
verde, con Ahmadinejad che accusa i suoi oppositori di tramare contro il
paese per arrestarli, torturali, ucciderli.
Le donne sono Fakhri, cinquantenne che vive nell'amarezza di un pessimo
matrimonio con un militare di alta carica che la tratta con disprezzo. E
quando rivede la vecchia fiamma che ha lasciato il paese per gli Stati
Uniti, la donna abbandona il marito e si rifugia in una strana tenuta di sua
proprieta' in cui il tempo sembra sospeso. Munis e' una ragazza che vuole
vivere il suo tempo, ma il fratello integralista la chiude in casa,
impedendole anche di ascoltare la radio. L'unico modo per uscire nel mondo
e' volare giu' dal tetto... La sua amica Faezeh e' innamorata del fratello e
non comprende quanto l'uomo sia brutale e egoista. Zarin e' chiusa in un
bordello, il corpo scarnificato, che sfrega nell'hammam fino a farlo
sanguinare, ci dice del suo dolore e del desiderio di distruggersi.
Donne senza uomini parla dell'Iran e lo fa confrontando due momenti, gli
anni Cinquanta e il presente che sono anche diversi nell'esperienza dei suoi
protagonisti e in una sorta di circolarita' annulla le distanze temporali.
Allora le donne potevano scegliere tra la moda occidentale e il velo ma non
sembra la questione piu' importante: cio' che conta e' la trama soffocante
che costituisce un intero sistema sociale e culturale, nel quale anche la
differenza di classe si annulla negli abusi sulla sua componente femminile
privata dei diritti piu' semplici, del rispetto, di una dignita'. Costretta
a vivere nella paura, aggredita, uccisa, calpestata. Un terrore che scivola
sui corpi di queste donne prima ancora che nei loro sentimenti, nel
conflitto tra accettazione e desiderio di rivolta, quello spazio aperto di
sogni e voci interiori a cui segretamente si abbandonano e dove tutto e'
possibile.
Potremmo dire che Women Without Men e' un viaggio di "formazione" in cui il
femminile - l'universo che narrano le quattro donne - traccia una
cartografia di conflitti universali. Le quattro donne vanno verso una nuova
consapevolezza di se' che passa attrraverso le epoche, la morte, il
disincanto, la sofferenza e anche in una diversa e strana dolcezza di
complicita'. Quasi che alla fine divenissero una sola, fragile e fortissima
insieme, tanto da lottare per la liberta' senza perdere i desideri.
La cifra visiva di Neshat e' quella delle sue opere, col ritmo sospeso in un
intreccio di simboli e sovrimpressioni narrative. Non e' un film
"realistico" Donne senza uomini anche se parla della realta', e' fortemente
politico, quasi "didattico" nel suo rapporto col presente che non esclude
dalla storia e dalla metafora. Neshat cerca una diversa sostanza
dell'immagine che vuole comunicare. La sua realta' e' una sospensione
fantastica (molti cinefili si sono irritati gridando che non e' cinema),
nutrita di associazioni personali, che conduce lo spettatore, nel difficile
rapporto di associazioni arte-schermo cinematografico, a un diverso sguardo
non banalmente "preordinato".
*
Postilla. Shirin Neshat: Non e' piu' possibile essere artisti non politici
Shirin Neshat e' piccolina, occhi scurissimi, eleganza in nero. Arriva a
Venezia per il suo esordio da regista. Neshat con le sue immagini da
fotografa - o in quelle dei video - continua a cercare la sostanza profonda
del suo paese, l'Iran, abbandonato anni fa per New York dove vive. E lo fa
concentrandosi sui corpi delle donne, su quel territorio dove piu' di ogni
altro spazio sociale e culturale si esercita la tensione tra desiderio di
liberta' e pratica dell'oppressione. Le sue opere in Iran sono vietate. "Non
credo che nel mio paese sia possibile essere artisti senza impegnarsi
politicamente. Soprattutto dopo quanto e' accaduto negli ultimi mesi, e'
chiaro a tutto il mondo come stanno le cose e quali atrocita' sta
continuando a commettere il governo di Ahmadinejad. Hanno chiuso i giornali,
tagliato le comunicazioni, migliaia di persone sono in carcere dove si
pratica sistematicamente lo stupro, la sodomia e ogni altra forma di
tortura. Dobbiamo dare voce a chi lotta". Shirin Neshat porta la fascetta
verde, il colore simbolo del movimento iraniano. "E' un modo per comunicare,
tutti adesso dicono che il verde e' il simbolo della nostra protesta.
Dobbiamo farci sentire con ogni mezzo. Abbiamo internet che e' uno strumento
potente, anche se cercano di oscurarlo. A New York abbiamo organizzato molte
manifestazioni di supporto alla lotta in Iran. E' la prima volta, da quando
ho lasciato il paese, che sento tanta unita' tra noi iraniani, sia dentro
che fuori".

5. LIBRI. NATALIA TORNESELLO PRESENTA "FIGLIE DI SHAHRAZAD" DI ANNA VANZAN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 settembre 2009 col titolo "Dall'Iran
un'esplosione di nuove scrittrici"]

La presenza di una donna nell'esecutivo del neo-eletto presidente iraniano
Mahmud Ahmadinejad ha fatto notizia su molti media occidentali dove si e'
sottolineato che per la prima volta nella storia della Repubblica Islamica
c'e' una donna ministro. Se si fruga nelle passate vicende dell'Iran, pero',
si constata come la presenza e il ruolo femminile siano stati importanti in
varie sfere della vita sociale del paese fin da epoche remote. Se Marziyeh
Vahid Dastgerdi e' la prima donna ministro della Repubblica Islamica, non lo
e' in assoluto nella storia dell'Iran dove gia' nel 1968 (prima che cio'
avvenisse in Italia, dove la prima donna ministro, Tina Anselmi, fu nominata
nel '76), ai tempi dello shah Mohammad Reza Pahlavi, Farrokhru Parsa,
medico, fisico e promotrice del suffragio universale fu nominata ministro
dell'istruzione. All'indomani della rivoluzione, nel 1980, Parsa fu
destituita, imprigionata e giustiziata.
La presenza delle donne iraniane nel mondo del lavoro, della cultura,
dell'arte e, in misura piu' limitata, della politica e dello sport e' oggi
in continuo crescendo. Le abbiamo viste in prima fila nelle immagini delle
proteste, coraggiose, determinate, forti, pronte a rivendicare i propri
diritti e a lottare per la liberta' del paese. Simbolo dei dimostranti delle
manifestazioni di protesta post-elettorale e' del resto proprio una donna,
la giovane Neda Agha Soltan, la cui uccisione ha attirato ancor di piu'
l'attenzione sulla partecipazione femminile alla vita politica e sociale del
paese.
Vale la pena osservarle le donne persiane, e prestare orecchio alla loro
voce, quella che e' "l'altra voce" dell'Iran, ormai dilagante nel panorama
culturale. Sono infatti le voci femminili, soprattutto in letteratura, a
restituire meglio le insolute contraddizioni che percorrono il paese a
partire dagli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione islamica. La
letteratura, che da sempre rappresenta in Iran un'arena privilegiata per il
dibattito culturale e sociale, ha visto nell'epoca post-rivoluzionaria
un'esplosione della scrittura femminile, tanto che se il XIX secolo veniva
considerato il "secolo della prosa", quello successivo e il nostro
potrebbero essere definiti i "secoli della prosa femminile". L'affermazione
di scrittrici e intellettuali nell'epoca post-rivoluzionaria e' un fenomeno
non piu' limitato, come era avvenuto in passato, alle elite: oggi infatti si
contano oltre quattrocento autrici attive in Iran, un numero che supera di
gran lunga quello degli scrittori.
Proprio questo panorama letterario fa da timone a un recente volume di Anna
Vanzan, Figlie di Shahrazad. Scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi,
edito da Bruno Mondadori (pp. 213, euro 18), che sara' oggi al centro di un
dibattito del Festivaletteratura cui prenderanno parte, oltre all'autrice,
anche Anna Maria Crispino e Rosella Prezzo che ha da poco pubblicato (sempre
per Bruno Mondadori) un libro intitolato Veli d'Occidente. Nel suo saggio
Vanzan si propone di analizzare la storia della letteratura persiana
contemporanea femminile non dimenticandone le radici anche molto antiche
(una delle prime letterate persiane, Rabe'e Qozdari di Balkh visse nel X
secolo) e illustrandola con brani, liriche ed estratti in traduzione
italiana, in modo da offrire al lettore una prospettiva inedita "su un
modello di societa' islamica post-moderna in cui si intersecano modelli
culturali secolari e moderni".
E' alla meta' degli anni '50, pero', che "l'anonimato di genere", come lo
definisce Vanzan, viene rotto da Forugh Farrokhzad, che impone "una poesia
fortemente connotata al femminile" e che "nella sua breve esistenza riesce a
comporre versi significativi destinati a segnare in modo indelebile la
storia della letteratura contemporanea". Nel campo della prosa era stata
Simin Daneshvar, che aveva iniziato la sua attivita' nella seconda meta'
degli anni '40, a porsi come pioniera della moderna narrativa. Cosi', dai
toni nostalgici nelle opere di Goli Taraqqi al "realismo e allucinazione" in
quelle di Shahrnush Parsipur, al "realismo magico" di Moniru Ravanipur,
Figlie di Shahrazad segue il delinearsi di temi e tendenze della scrittura
femminile prima e dopo la rivoluzione islamica. Il conflitto Iran-Iraq ha
offerto non pochi spunti narrativi alle autrici iraniane, tra cui spicca
Farkhondeh Aqa'i che si caratterizza per una scrittura a meta' strada tra
allegoria e realismo. Altri temi affrontati sono quelli relativi
all'attivita' di traduzione, all'editoria, alla censura, all'impegno
politico. Anche il campo cinematografico e teatrale vede la partecipazione
di alcune scrittrici contemporanee che contribuiscono a realizzare opere di
qualita', consolidando il connubio tra letteratura e arti cinematografiche e
teatrali.
Dal volume appare dunque evidente come la letteratura femminile iraniana non
sia solo un "rifugio consolatorio", ne' una produzione meramente femminista,
bensi' l'"altra voce" di un paese culturalmente dinamico, tanto fiero delle
proprie origini quanto aperto al confronto con l'altro da se'. La natura
divulgativa del saggio costringe la trattazione degli argomenti, articolati
in percorsi tematici, nei limiti di una rassegna generale illustrata
attraverso nomi e temi che, come scrive l'autrice a conclusione del volume,
"vogliono ripercorrere la ricca e complessa scena letteraria iraniana di cui
sono protagoniste le donne". La traslitterazione dei titoli delle opere
menzionate non e' sempre rigorosamente scientifica, e cio' trova
giustificazione proprio nella natura divulgativa del testo ma non inficia il
valore di un'opera che contribuisce a ridurre il diaframma che ancora separa
la cultura occidentale da quella iraniana.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 276 del 18 settembre 2009

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