Nonviolenza. Femminile plurale. 275



==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 275 del 17 settembre 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Cecenia. Il disonore russo" di Anna Politkovskaja (parte
prima)

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CECENIA IL DISONORE RUSSO" DI ANNA POLITKOVSKAJA
(PARTE PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Anna
Politkovskaja, Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006, 2009]

Indice del volume
Prefazione di Roberto Saviano: Chi scrive, muore; Prefazione di Andre'
Glucksmann: La sindrome del "cardo ceceno"; Introduzione: Noi; 1. La zona di
residenza; 2. I paraocchi dell'odio; 3. I combattenti ceceni; 4. La tragedia
di Shatoi; 5. I frutti della disperazione; Perché non amo Putin; Post
scriptum; Note.
*
Da pagina 25
Introduzione: Noi
Sul tavolo un orologio meccanico scandisce il suo tic-tac. E' carico, conta
solo le ore a venire. L'uomo, comprendendo le regole che governano
l'orologio, lo carica ogni mattina, in modo che il tempo non si fermi mai.
Ma l'uomo e' un essere strano. Si preoccupa molto delle lancette che gli
indicano l'ora, ma riflette poco sul tempo.
Nel settembre del 1999 Vladimir Putin, dopo aver "ricaricato" un po'
l'orologio e aver recitato con la gente la parte dell'antiterrorista,
scatena in Russia la seconda guerra cecena.
E' cosi' che Putin e' riuscito a mandare indietro il tempo. Ben presto,
insieme alla seconda guerra cecena, si e' scatenata in Russia una nuova
guerra, questa volta intestina.
Oggi le nostre lancette girano solo all'indietro. La nuova guerra civile non
e' stata dichiarata contro un unico popolo del territorio russo, ma contro
tutti. Ognuno ci mette un po' del suo. La guerra lascia la sua impronta in
ogni citta', ogni regione, ogni repubblica. Ha invaso tutto e tutti vi
partecipano, neanche l'autrice di questo libro sfugge alla regola.
In che epoca viviamo? Cos'e' questa nuova guerra? Quale ritmo imprime alla
nostra societa'? Chi siamo noi, cittadini russi dell'inizio del ventunesimo
secolo?
Noi? Noi siamo pronti a scannarci per ogni parola che non ci piace. Siamo
intolleranti e intransigenti.
Noi? Noi, molto semplicemente, abbiamo ricominciato a mettere in
circolazione concetti gravi come quello di "nemico del popolo", e affibbiamo
questa etichetta a tutti quelli che non la pensano come la maggioranza,
senza alcuna distinzione.
Noi? Noi abbiamo riconosciuto che una pallottola in testa e' il mezzo piu'
semplice e piu' naturale per risolvere qualunque conflitto, per minimo che
sia.
Noi? Noi, inariditi dalla guerra, odiamo piu' spesso di quanto non amiamo.
L'odio e' la nostra preghiera. Stringiamo i pugni volentieri, ma abbiamo
difficolta' a riaprire le mani. E ancora una volta, invece di respirare
l'aria a pieni polmoni, ci nutriamo del sangue dei nostri compatrioti senza
battere ciglio.
Non e' forse guerra civile, questa?
Il testo che segue raccoglie le impressioni dell'autrice sul mondo che la
circonda, sulla guerra che divampa in Russia, su quello che sta succedendo
alla nostra societa'.
*
Da pagina 27
La zona di residenza
"- Perche' l'hai ucciso?
- Non lo so.
- Perche' gli hai tagliato le orecchie?
- Non lo so.
- Perche' gli hai fatto lo scalpo?
- Ma e' un ceceno!
- Capisco".
(Tratto dall'interrogatorio di un soldato di 19 anni della 22ma brigata del
ministero dell'Interno russo, di stanza in Cecenia nel corso dell'estate
2001. Interrogatorio eseguito da un ufficiale inquirente del tribunale di
Grozny. I loro nomi? Che sprofondino nell'oblio!)
*
Contrariamente a quanto affermano medici, neurologi e psichiatri sulle
nostre infinite possibilita', ogni uomo dispone di una resistenza morale
limitata al di la' della quale si apre il suo abisso personale. Non e'
necessariamente la morte. Ci possono essere situazioni peggiori, ad esempio
la perdita totale della propria umanita', come unica risposta alle
innumerevoli nefandezze della vita. Nessuno puo' sapere cio' di cui sarebbe
capace in guerra.
La Grozny di oggi fornisce all'uomo tutte le buone ragioni per cadere in
questo abisso. Qui, e' stato creato un mondo di totale irrazionalita'
militare, e anche se la guerra finisse domani, chissa', esso durerebbe
ancora a lungo, per forza d'inerzia. Ne sono certa.
In che cosa consiste questa irrazionalita' cecena?
Un uomo sensato, abituato sin dall'infanzia ai riferimenti della vita
normale, non puo' capire l'origine degli eventi che straziano la Cecenia.
Non importa che quest'uomo sia ceceno o russo. Che sia un soldato, un
militante della resistenza o un semplice cittadino che cerca di rimanere al
di fuori di tutto per salvare la pelle... Dopo un certo periodo, in mancanza
di risposte ragionevoli, la sua coscienza comincia a disgregarsi come un
fungo marcio e la sua mente finisce in un vicolo cieco.
Tuttavia non e' follia, e' un fenomeno diverso. E come se tutti i pilastri
che hanno sostenuto la tua vita fino a quel momento fossero crollati.
Comincia con l'impressione che anche tu potresti permetterti qualcosa in
piu' di prima, che la morale non e' altro che una stupidaggine inventata da
ignoranti, mentre tu, ormai, sei portatore di una conoscenza particolare.
All'inizio pensi ancora a quel "qualcosa in piu'". Poi, poco a poco, il
meccanismo che ti trattiene si allenta e sprofondi ogni giorno di piu'. E'
raro che qualcuno vi resista.
Non sono parole. Io stessa ne ho fatto l'esperienza. Nonostante conosca
questa realta' e sia abituata all'irrazionalita' che mi circonda, nonostante
abbia, al contrario dei ceceni, la possibilita' di respirare ogni tanto
l'aria di Mosca dopo quella di Grozny, eppure...
A volte passeggio tra le rovine della capitale cecena. Parlo con i suoi
abitanti, li guardo negli occhi, ripenso alle loro storie e mi rendo conto
che la mia mente rifiuta di credergli, contesta, respinge i loro racconti.
Semplicemente per proteggersi. Ci credo e non ci credo, vorrei non farmi
contaminare. Sono realmente qui, ma allo stesso tempo e' come se fossi in un
film...
Non e' possibile, urla la mia coscienza, che le nostre autorita' si ostinino
in modo cosi' imbecille a opprimere quelli che vivono qui! Perche'
continuare a perseguitare abitanti che hanno gia' sopportato fardelli
disumani per il solo fatto di essere rimasti in questa orribile citta'?
Perche' far sentire loro ogni giorno - anzi, ogni minuto - che non sono
altro che feccia, neanche feccia umana, feccia animale? E i soldati? Mandano
qui ragazzi di diciotto o diciannove anni completamente ignoranti, grazie
allo sfacelo totale del sistema scolastico degli anni Novanta. A cosa
serviranno queste lezioni impartite nella primavera della loro vita? E gli
ufficiali? Come potranno, dopo, tornare alle proprie famiglie e crescere i
loro figli?
Non ci sono risposte. Come trovarle? Qual e' l'origine "razionale" del caos
in atto in Cecenia che sta distruggendo l'intero paese?
*
Solo per una birra
Sultan Khajev, il giovane primario zoppo dell'ospedale n. 9 di Grozny,
l'unico che funzioni dall'inizio della guerra, si appoggia pesantemente al
bastone per riuscire a muoversi e scostare la coperta dal paziente del letto
sotto la finestra, nella stanza n. 1.
Li' giace un corpo di donna, creatura divina celebrata da pittori e poeti di
tutte le epoche e di tutti i paesi. Ma quel corpo sembra essere stato
svuotato come un pollo e poi ricucito.
E' una visione insostenibile. I chirurghi hanno aperto questa donna dal
petto al pube. Le linee tracciate dal bisturi non sono dritte: si ramificano
come un albero genealogico reale. A tratti, i punti di sutura hanno ceduto
lasciando emergere piaghe purulente...
Al suo fianco sta un'infermiera. E' abituata ai pazienti degli ospedali
militari, non prende alcuna precauzione particolare: con l'aiuto di una
lunga pinza metallica, spinge compresse di garza nelle piaghe lacerate come
fossero cavita' insensibili, come se intervenisse su un pezzo di legno
anziche' su un corpo umano.
"Devo farlo", borbotta l'infermiera. "E' solo garza imbevuta di medicamento.
Ti fara' bene".
La donna martoriata si chiama Aisha. Non piange nemmeno quando l'infermiera
le spinge la pinza nel corpo. Gli occhi di Aisha sono pieni d'indifferenza
per se stessa e per il mondo.
"Non sento niente". Muove le labbra grigie cercando di parlare e, allo
stesso tempo, tenta di fermare le gocce di sudore che le rigano il volto
scivolando giu' dai capelli rosso scuro. Ha enormi difficolta'. I movimenti
delle labbra non corrispondono alle parole che vorrebbe pronunciare.
L'impressione e' quella di vedere un film straniero doppiato da un'attrice
che non rispetta i ritmi del parlato.
"Mi hanno sparato", prova a spiegare Aisha con estremo sforzo, dopo aver
perso brevemente conoscenza. "A bruciapelo".
"Dio mio! Ma perche'?".
Ancora una volta, cerco di capire. Di nuovo, l'irrazionale prende il
sopravvento.
"Per una birra!".
Due settimane prima, un giovane soldato russo originario di un villaggio
della regione di Riazan, Oleg Kuzmin, in servizio da nove mesi, aveva fatto
sedere davanti a se', sul letto, una donna di Grozny di sessantadue anni,
Aisha Suleimanov, e le aveva sparato a bruciapelo cinque pallottole calibro
5.45, vietate da tutte le convenzioni internazionali. Si tratta di
pallottole dal baricentro decentrato, assolutamente disumane: attraversano
il corpo con traiettorie bizzarre facendo esplodere gli organi al loro
passaggio. Ecco cos'e' successo ad Aisha, a casa sua, in un sobborgo di
Grozny chiamato Michurin.
Suo figlio, adulto, le sta accanto all'ospedale. Non si e' rasato da alcuni
giorni. Significa che recentemente c'e' stato un funerale in famiglia. Mi
guarda freddamente, come da una grande distanza. Mi odia e non lo nasconde.
Di quando in quando sembra che abbia voglia di parlare. Ma, con una smorfia
di disgusto, si ferma alla prima mezza parola:
"Non tocca a voi avere pieta' di noi... Non a voi!". Un urlo muto e
disperato che sembra inghiottire tutta la stanza in una specie di vortice:
"Non a voi! Non a voi!".
Noi siamo noi, i russi.
Il figlio di Aisha stringe cosi' forte la sbarra di ferro opaco del letto
d'ospedale che le ossa sporgenti delle sue falangi diventano bianche. "Non a
voi!".
"E a chi, allora?".
Non sente la mia domanda muta... Non vuole? Piuttosto, non puo'.
La guerra mette alla prova le persone senza chiedere loro il permesso:
affina l'udito degli uni e rende sordi gli altri.
Ma, grazie a Dio, Aisha ha voglia di parlare: ha bisogno di condividere la
sua sofferenza, e cosi' facendo di alleggerirla un po', questa sofferenza
immeritata, incomprensibile e quindi ancora piu' pesante da sopportare.
"Eravamo gia' coricati... A un tratto, alle due del mattino, credo, bussano
alla porta. Qualcuno che bussa alla porta, a quell'ora, con il coprifuoco,
non significa niente di buono. Ma siamo costretti ad aprire, senno' si
rischia grosso. Percio' mio marito e io abbiamo aperto. Sulla porta ci sono
due soldati. Dicono: 'Dateci una birra!'. Gli rispondo: 'Non vendiamo
birra'. Insistono: 'Vai, portaci un po' di birra!'. Allora dico: 'Da noi non
c'e' birra, le nostre leggi lo proibiscono'. Rispondono: 'Bene, nonna', e se
ne vanno. Noi siamo tornati a letto".
Aisha si sente male. Le sue labbra non sono piu' grigie ma blu, rigate di
nero. Si tormenta il collo, come se avesse una crisi di asma. Ma e'
un'ondata di lacrime che la sommerge.
Dietro di me risuona la voce del dottor Khajev:
"Non sarebbe meglio smettere? Andiamo nella stanza accanto".
"Per favore, no...", Aisha alza la testa dal cuscino e ci chiede di
rimanere; Ha bisogno di parlare e spiega perche': "I russi non vengono mai
qui e io voglio che sappiano... Che abbiano pieta' di noi. Perche' ci fanno
questo? Perche'?".
Aisha ha sessantadue anni. Ha vissuto quasi tutta la sua vita in Unione
Sovietica e, nonostante la deportazione sotto Stalin e gli anni duri che
erano seguiti, si considerava ormai una cittadina di quello stesso stato che
ha scatenato una guerra contro di lei e i suoi cari. Cerca senza riuscirci,
come tanti altri anziani ceceni, di capire perche' un soldato del suo stesso
paese abbia tentato di uccidere lei e la sua famiglia.
"Perche'?", ripete trattenendo i singhiozzi. Le ferite infette le fanno
troppo male. Aisha afferra la spalla di suo figlio per appoggiarsi e
prosegue:
"Poi siamo tornati a letto... Piu' o meno un'ora dopo, mi sono svegliata con
quei due soldati che andavano da una stanza all'altra. Frugavano ovunque.
Perquisivano. Ci hanno detto: 'Stavolta siamo venuti per una zaciska'. Ho
subito capito che ci volevano punire perche' avevamo rifiutato di dar loro
la birra e mi sono pentita di non aver loro proposto dei soldi in cambio. I
soldati hanno frugato la piccola farmacia - mio marito era asmatico -
pensando forse di trovarvi qualche droga. Invano... Poi uno di loro e'
andato nella stanza dove dormivano i nostri nipotini: quattro mesi, un anno
e mezzo e cinque anni. Ho avuto paura che violentassero mia nuora davanti ai
bambini, perche' li ho sentiti urlare. L'altro soldato ha ordinato a mio
marito di seguirlo in cucina. Abas aveva ottantasei anni. Sento che gli
propone dei soldi perche' se ne vadano tutti e due. E poi, a un tratto, un
urlo. Il soldato aveva ammazzato mio marito con una coltellata. Uscito dalla
cucina, mi ha portato in camera, ero pietrificata. Capisco tutto ma non
riesco a opporre resistenza. Con un tono dolce e indicandomi il letto con la
mano, mi dice: 'Siediti li', nonnina, chiacchieriamo un po''. E si e' seduto
di fronte a me. 'Non siamo degli scellerati, siamo Omon, e' il nostro
lavoro', e i bambini continuavano a piangere dall'altra parte del muro...
Gli ho detto: 'Non fare paura ai bambini'. 'Non si preoccupi', mi ha
risposto con voce soave. E con queste parole, senza alzarsi dalla sedia, mi
spara addosso. Mia nuora mi ha raccontato che, dopo, hanno chiuso la porta
piano piano e sono andati via".
*
Da pagina 40
Ma torniamo alla storia di Malika, vittima dell'orgia sanguinaria
organizzata da quei banditi a Grozny. Malika giace immobile sul letto, al
pronto soccorso dell'ospedale n. 9. L'oltraggio alle donne del palazzo era
durato fino alle cinque del mattino; a Grozny, chiunque sa che i predatori
lasciano il luogo del delitto all'alba, appena prima della fine del
coprifuoco, per non incontrare testimoni.
"Guardi le cifre", dicono i medici, "e capira' qual e' il livello di
delinquenza a Grozny. Le basti questo! In quattro mesi, abbiamo ricevuto in
ospedale 267 persone ferite da spari ed esplosioni, di cui la maggior parte
vittime della delinquenza notturna".
Una visita in questo ospedale permette di capire e di sapere quello che
succede a Grozny. E' qui che finiscono tutti i drammi della capitale cecena.
Mentre le autorita' parlano di "costruire la pace" in Cecenia (cosa che
permette loro di riempirsi le tasche), militari associati a banditi
continuano ad ammazzare e a martirizzare la popolazione. Ma cerchiamo di
essere concreti. Chi e' che terrorizza i cittadini con la copertura del
coprifuoco?
Giunta al suo terzo anno, la guerra ha partorito un'idra mostruosa: le
brigate criminali russo-cecene. Queste brigate riuniscono militari, o ex
militari russi, e ceceni, ex della resistenza o altro, quasi a dimostrare
che il conflitto non ha alcun fondamento morale. Queste bande, che
saccheggiano e uccidono, violentano e torturano, se ne fregano altamente
delle controversie ideologiche, religiose e nazionali tra Russia e Cecenia
di cui, invece, si nutrono politici e politologi di Mosca. In questo
"ambiente" davvero internazionale (che non ha niente a che vedere con il
presunto terrorismo internazionale), conta solo il saccheggio e la razzia.
Questo "ambiente" e' molto piu' potente degli stati maggiori dell'esercito o
della milizia, incapaci di fermare il sanguinario rullo compressore. E'
chiaro che gli appetiti di queste formazioni di delinquenti di nuovo genere
non si limitano alla popolazione esangue, sarebbe ridicolo per gente cosi'
"seria". Altre attivita' sono molto piu' fruttuose. Queste brigate
garantiscono la "sicurezza" dei distributori illegali di petrolio, fanno la
guardia ai derricks e ai punti in cui gli oleodotti sono stati perforati per
rubare l'oro nero, eseguono omicidi su commissione, azioni di intimidazione,
infine controllano il racket dei mercati laddove quello esercitato dai
militari non sia abbastanza efficace, sempre che non se ne occupino insieme.
Anche il controllo delle piazze sul mercato petrolifero illegale, vicino al
centro del distretto Kurchaloi (che esisteva gia' prima dell'inizio di
questa guerra), e' una fonte di guadagno particolarmente curata.
Naturalmente queste bande ne controllano solo una parte, l'altra e' in mano
ai militari di stanza nella zona.
Tutte le persone coinvolte in questo business militar-criminale ceceno si
intendono a meraviglia: ognuno vi trova il proprio tornaconto: Anche se il
conflitto si concludesse (cosi' come annunciato da Mosca per motivi di
opportunita'), queste brigate non metterebbero fine alla loro guerra
"commerciale" e troverebbero il modo di dimostrare la necessita' che le
"azioni militari" proseguano. Del resto, perche' dovrebbero cercare altri
modi di guadagnare soldi quando gli affari stanno andando cosi' bene?
I membri russi di queste brigate non sono reclutati solo tra coloro che
hanno gia' finito il servizio militare in Cecenia e sono ormai riservisti.
Tra loro ho personalmente incontrato soldati e ufficiali delle forze
federali di stanza in Cecenia, doppiolavoristi e sono contemporaneamente (o
di volta in volta) guardiani dell'ordine costituito e saccheggiatori. Gente
che non smette di voler dimostrare che la situazione in Cecenia e' instabile
e che e' indispensabile proseguire con l'"operazione antiterrorismo".
*
Da pagina 48
Una nazione di paria
Saluto Khajev, il medico zoppo. Hanno gia' trasportato Malika in sala
operatoria e Khajev mi accompagna verso l'uscita. Mi sento vuota e triste.
Anche il dottore sembra vuoto e triste. In Cecenia ci si abitua alla
depressione che regna sovrana, raramente si sente qualcuno ridere e si e'
persa, ormai, l'abitudine di ridere di se stessi.
"Siamo una nazione di paria. E anche chi ci appoggia diventa un paria". Il
medico dice ad alta voce quello che sto pensando. Sembra volersi
giustificare, anche questo e' un comportamento nuovo. I ceceni si sentono in
dovere di giustificarsi per qualsiasi cosa. "Non si preoccupi, non e'
niente. C'e' di peggio", aggiunge saggiamente Khajev.
"Certo. Ma ho dimenticato di chiederle: cosa le e' successo? Come mai
zoppica? Una vecchia ferita?".
"No", sorride il dottore. "E' per lo stesso motivo che le ho accennato
prima. Perche' sono un paria".
Mi racconta che a mezzogiorno del 12 giugno 2001, giorno di festa nazionale,
la sua macchina e' stata investita da un blindato russo assegnato al comando
militare del distretto "Lenin" di Grozny.
"Intralciava la circolazione? Si era rifiutato di lasciare passare il
blindato?".
"Niente affatto. E' il blindato che ha attraversato l'incrocio a tutta
velocita'... Forse dovevo stare piu' attento... Ma in realta', non ho
neanche avuto il tempo di vederlo. La mia piccola Jiguli e' stata ridotta in
polvere, non e' rimasto altro che la targa posteriore e il cofano del
portabagagli. E' un miracolo che io sia vivo. Sono stato operato qui, dai
nostri medici".
"Conosce il numero di targa di quel blindato? E' stata aperta
un'inchiesta?".
"Si', conosco il numero e l'inchiesta e' stata aperta. Ma e' solo una
formalita'. Nessuno ha intenzione di denunciare l'autista".
"Perche'?".
"Perche' sono ceceno. E la Cecenia e' una zona in cui alcuni hanno tutti i
diritti e gli altri si devono rassegnare".
Ecco la risposta alla domanda piu' importante: quali sono gli obiettivi
della Russia in Cecenia? E cosa si aspetta dai ceceni e dagi altri abitanti
della Cecenia?
La Russia neosovietica plasmata dalla macchina statale putiniana ha deciso
di creare sul proprio territorio un'enclave di assenza di diritti civili.
Possiamo anche chiamarla zona di residenza, o ghetto per ceceni.
E' fondamentale capire questo punto. Il paese, che ha vissuto settant'anni
sotto il socialismo e ballato il valzer democratico per una decina d'anni,
e' pronto a ritornare, per una nuova tappa della sua storia, alla brutta
tradizione dell'epoca zarista.
*
Da pagina 52
In realta' l'Occidente non si prende la briga di riflettere sul prezzo del
"fenomeno Putin": sui diritti dell'uomo in Cecenia, che fanno parte di
questo prezzo, sulla giustizia sommaria diventata la norma, sulla
possibilita' dell'esistenza di un ghetto nell'Europa del ventunesimo secolo.
Perche'? Non lo so davvero. Per decenni il mondo occidentale si e'
proclamato difensore dei diritti umani. A un tratto, dalla fine del
ventesimo secolo, l'Occidente ha adottato un doppio standard: esistono i
diritti dell'uomo canonici e inalienabili per un utilizzo interno,
occidentale, e altri diritti piu' labili, quasi inesistenti, per gli ex
sovietici, ivi compresi i ceceni oppressi dal pesante arbitrio dei militari.
Come faccio a dirlo? E' semplice. Non vedo ancora tra i leader del G7 un
presidente o un primo ministro che cerchi di cambiare la situazione! Non
vedo nessuno uscire dai ranghi e dire: "Diamo un ultimatum a Putin: o mette
ordine in Cecenia e riprende il controllo del suo esercito, o non possiamo
piu' essere amici!".
Non lo fa nessuno. E cio' va benissimo al capo di stato russo, lo aiuta a
preservare il suo potere personale. Ma attenzione, non bisogna confondere
quel potere con tutta la Russia. Mentre l'America, l'Europa e il nostro
presidente sono cosi' contenti gli uni degli altri, la Russia bella,
intellettuale, potente, paga anch'essa il prezzo del "fenomeno Putin".
Ognuno ha il diritto di pensare cio' che vuole della globalizzazione, dove
gli interessi generali trionfano sugli interessi privati. E' in questi
termini che vedo l'amore tra Europa, Stati Uniti e Putin. Ma mi si drizzano
i capelli sulla testa quando penso che questo "amore" non ha un
controvalore. Perche' io ricordo le facce di persone che ho conosciuto e che
sono morte da martiri in Cecenia. Morti in nome di quest'intesa globale
fondata sul sangue degli altri. Ricordo Aisha crivellata di pallottole
vietate, le ciocche di capelli strappati dalla testa di Malika e la tomba di
Vakha che aveva provato a proteggere gli abitanti del suo villaggio di
Tovzeni.
E mi sento come un animale braccato.
*
Da pagina 151
Consigli di sopravvivenza
Poco a poco, verso meta' novembre, ritrovai la capacita' di percepire la
realta'. In quel periodo incontrai un "vecchio" amico dei miei figli, Il'ja
Lyssak, musicista nell'orchestra del Nord-Ost che era stato uno degli
ostaggi. Avevamo deciso di incontrarci per una conversazione in tutta
franchezza. A dire il vero, quando il 25 ottobre 2002 avevo accettato di
entrare nel teatro occupato dai terroristi, avevo pensato soprattutto a
Lyssak, che conoscevo fin da piccolo. Speravo che avrei potuto essergli
d'aiuto. Ma alla luce di quanto succedeva in quel posto, mi ero rapidamente
resa conto che era impossibile salvare qualcuno per amicizia, privando
magari gli altri di una possibilita'.
Riporto il nostro dialogo:
- In seguito a questa azione terroristica, la Duma ha votato una legge che
limita le possibilita' della societa' civile di influenzare i terroristi
durante un sequestro. E' impossibile, ormai, condurre una trattativa con i
terroristi. E' vietato scambiare gli ostaggi. E naturalmente e' vietato
riottenerli pagando un riscatto. Che ne pensi tu che hai vissuto gli ultimi
avvenimenti; quelli dal 23 al 26 ottobre, non su una poltrona da deputato
della Duma ma nel ruolo di ostaggio?
- Non avere contatti con gli ostaggi, non poter parlare loro, e' una pessima
soluzione. I momenti piu' duri per noi erano quelli in cui eravamo tagliati
fuori dal mondo esterno. Invece avevamo un bisogno folle di sentire della
solidarieta'. Credo che le autorita' abbiano scelto la via facile. Hanno
dimostrato che erano incapaci di condurre trattative, e ora dimostrano che
non vogliono neanche imparare. Fabbricano i terroristi della Cecenia con le
loro stesse mani, la Duma non vota per protestare contro questo stato di
cose e nello stesso tempo il potere non ha voglia di imparare a
padroneggiare situazioni di sequestro. Un gioco magnifico, dove l'unico
bersaglio e' la popolazione civile!
- Forse è meglio che impariamo a sbrogliarcela da soli. Che lezione hai
tratto tu personalmente da questa tragedia? Come ci si deve comportare se si
viene presi in ostaggio?
- La cosa essenziale e' controllare tutti i movimenti e mantenere la calma.
Io cercavo di analizzare tutte le varianti possibili. Seduto al mio posto,
studiavo le varie eventualita': quanto tempo ci vuole per correre fino alla
porta, qual e' il posto piu' sicuro in caso di attacco. Dovevo tenere
presente le possibili reazioni di quelli seduti vicino a me. Con un mio
vicino, analizzavamo la psicologia dei terroristi: quello si sarebbe fatto
esplodere subito, quell'altro era un po' piu' lento, e la terrorista che ci
controllava avrebbe potuto avere una reazione sconsiderata. Per me
personalmente l'importante era controllarmi, vista la mia indole rissosa.
Certe volte i boieviki si distraevano, e teoricamente avremmo potuto dar
loro una botta in testa e impadronirci delle armi. Ma le conseguenze
avrebbero potuto essere drammatiche, cosi' tenevo a bada i miei impulsi.
- Quanto tempo avreste sopportato ancora di rimanere seduti in quel teatro
ad aspettare non si sa che?
- Credo un paio di giorni al massimo. Poi la gente avrebbe detto: "Sparateci
e andate al diavolo!", e avrebbe cominciato ad alzarsi senza osservare piu'
nessuna precauzione. Io avrei certamente cercato di approfittare della
situazione per impadronirmi di un'arma e tentare una sortita...
- E' bene che gli ostaggi parlino ai terroristi, o assolutamente no?
- E' meglio parlargli. Quando ti rivolgi alla persona che ha intenzione di
nuocerti, hai una chance di cambiare qualcosa. Nella nostra zona di sala
avevamo parlato con i ceceni. Avevo l'impressione che, almeno durante la
conversazione, arrivassimo a calmare la loro aggressivita'. Mi chiedevo se
queste persone cosi' risolute a commettere un crimine fossero altrettanto
capaci di fare marcia indietro. Del resto ci sono stati casi in cui i
terroristi, dopo lunghe e difficili trattative, si sono arresi... Succede.
Non bisogna assolutamente impedire i contatti, in nessun caso!
- Pero' hanno sparato alla prima vittima, una giovane donna, proprio perche'
lei si era rivolta ai terroristi! Era un'esecuzione dimostrativa, per dare
un esempio agli altri ostaggi?
- No, l'hanno semplicemente portata fuori e fucilata. Le porte erano tutte
chiuse tranne una, vicino a dove ero seduto io. Ho visto tutto cio' che il
resto della sala non ha visto. La ragazza aveva un comportamento
impossibile, cercava la morte, l'hanno visto tutti. Era totalmente ubriaca e
umiliava i terroristi: "Cos'e' questa pagliacciata? Cosa vai farneticando
tu? Pensi di farmi paura con quel fucile e quella maschera?". Allora uno di
loro ha detto: "Fucilatela". L'ho sentito. Lei ha detto: "Avanti, portami
fuori. Forza!". La gente intorno supplicava: "No, vi prego...", ma loro
l'hanno spinta avanti, le hanno fatto superare la porta e le hanno sparato
con un kalashnikov. Era la prima esecuzione che vedevo in vita mia.
Ovviamente, a partire da quel momento abbiamo capito con chi avevamo a che
fare. Prima di questo episodio pensavamo che ci potesse essere una via
d'uscita pacifica.
- Era possibile scappare, in quella situazione?
- Non credo che sarebbe stato giusto farlo. Due ragazze sono riuscite a
scappare dalla toilette, ma la cosa ha causato agli altri parecchi problemi.
Sasa, il nostro tecnico, ha avuto piu' volte l'occasione di fuggire, ma ha
evitato di farlo perche' sapeva le ripercussioni che la sua fuga avrebbe
avuto sugli altri.
- Come mai ha avuto queste possibilita' di fuga?
- I terroristi non riuscivano assolutamente a orientarsi all'interno del
teatro. E' un errore credere che la loro azione fosse stata preparata con
cura: non avevano neanche la pianta dell'edificio! Non sapevano, per
esempio, dove si trovassero i pannelli di controllo dell'illuminazione e
come azionarli. Hanno preso Sasa perche' li accompagnasse. Li ha condotti in
certi punti dove gli sarebbe bastato fare due passi nell'oscurita' per
riacquistare la liberta', ma la gente rimasta in sala ne avrebbe potuto
soffrire.
- Vuoi dire che la salvezza individuale e' egoista, che bisogna fare gioco
di squadra?
- Bisogna sopravvivere insieme. La cosa piu' orribile in questa situazione
e' restare soli. La prima mattina un uomo ha tirato fuori un panino da un
tovagliolino e l'ha mangiato, e una terrorista ha detto ad alta voce:
"Guardate, si e' mangiato il panino senza spartirlo...". Allora un'altra
donna ha tirato fuori dalla borsa una tavoletta di cioccolato e l'ha divisa
in pezzetti per i suoi vicini, avevano tutti fame. Se le persone si trovano
in una stessa situazione, devono condividerla.
- C'e' qualcuno che ha cercato di mettersi d'accordo con i terroristi a
titolo individuale?
- Si'. Posso parlare solo di quelli che si trovavano nel mio campo visivo.
Non potevamo guardare la sala; non potevamo girare la testa. Un uzbeko si e'
avvicinato a un terrorista e gli ha detto: "Siamo musulmani tutti e due,
siamo fratelli". Il terrorista gli ha puntato l'arma contro e gli ha detto:
"Siediti al tuo posto, fratello". Si e' avvicinato un altro: "Lasciami
andare via. Sono musulmano, ho una famiglia, dei bambini". E il terrorista
gli ha risposto: "Se sei musulmano, recita una preghiera". Ora, questo tipo
viveva a Mosca e non conosceva nessuna preghiera. Quindi respinto anche lui.
In seguito l'ho rincontrato in ospedale e mi ha detto: "Se l'avessi saputo,
avrei imparato due o tre preghiere". C'era anche un uomo, molto chic, catena
d'oro e anelli alle dita. Propose loro del denaro, e una terrorista gli
disse: "Accanto a te c'e' una donna, e non ha denaro. Perche' dovrei
rilasciare te e non lei?". E non e' stato liberato.
- E le donne? Non hanno chiesto di lasciarle andare via?
- Le donne piangevano e supplicavano di lasciar andare via i bambini, ma non
hanno chiesto niente per loro stesse.
- Qual e' stato il momento piu' difficile?
- All'inizio. Poi ho cominciato ad adattarmi e a osservare chi era chi, ad
analizzare il comportamento dei boieviki.
- Gli altri facevano lo stesso?
- Non tutti. Ero seduto vicino a uno dei nostri tecnici: ha dormito quasi
tutto il tempo durante questi tre giorni. Era la sua reazione. E' lo stesso
tipo a cui i ceceni hanno reso mille dollari. L'hanno arrestato in un
piccolo locale al di sopra delle scene, da dove controllava l'illuminazione.
Prima gli hanno levato soldi e telefonino, poi glieli hanno resi.
- Perche' rendere tutto se avevano l'intenzione di morire?
- Non lo so. E perche' portare le maschere per tre giorni di seguito, se
avevano l'intenzione di morire? Una terrorista ci ha detto che a casa aveva
lasciato un bambino di un anno e che non era venuta qui per morire, ma per
ottenere "la liberazione della sua terra". Molte cose sono poco chiare...
Guardando la sala, la gente elegante, la scena, quella donna ha detto: "Vi
divertite, qui. Da noi e' otto anni che non abbiamo cose del genere". Il
secondo giorno, il capo e' andato in balconata e vi ha trovato un generale
del Mvd. Si e' messo a gridare, allora, facendosi sentire da tutta la sala:
"Guardate un po' chi c'e'! Un generale di stato maggiore! Ho sognato tutta
la vita di catturare un generale". Era euforico, era una gioia enorme per
lui. I ceceni hanno messo il generale e la sua famiglia da un'altra parte,
sotto sorveglianza speciale.
- E' sopravvissuto, questo generale?
- Si'. E anche sua moglie e suo figlio, mentre la figlia e' morta. Erano in
quattro a vedere lo spettacolo. Uno dei miei amici si e' ritrovato con il
generale all'ospedale n. 13. Della nostra orchestra e' morta una persona su
tre. Due clarinettiste, una violinista, un trombettista, due violoncellisti,
un flautista e un tamburo. Tutti morti a causa del gas. Erano tutti bravi
musicisti. E' talmente difficile formare un bravo musicista... Bisogna
vivere in un ambiente che ti sostiene, e poi studiare molto e lavorare
enormemente, fin dall'infanzia.
- Erano tutti giovani?
- No. Fedor Ivanovic, il trombettista, aveva una certa eta'. E uno dei
clarinettisti, Sergej Pavlovic, anche. Il trombone, Misa, e' uscito
dall'ospedale e il giorno dopo ha avuto un attacco cardiaco.
- Lo capisci perche' questa gente e' stata sacrificata?
- No. Li ha uccisi il gas. Non sono morti in sala, ma dopo. Non avevano
alcun rapporto con la guerra in Cecenia, non hanno mai avuto armi tra le
mani. Io, per esempio, detesto qualsiasi arma, da fuoco o meno. Le armi non
sono una soluzione. Chissa' se uno diventa musicista perche' e' incapace di
fare la guerra...
*
Da pagina 162
Che vergogna! Sono tutti una manica di ipocriti. L'idea secondo cui al
processo l'avvocato Trunov non dovrebbe difendere gli interessi dei suoi
clienti ma quelli delle autorita', obbedendo alla loro volonta', viene
evocata pubblicamente. La societa' commette di nuovo un errore tragico e
totalmente immorale rifiutando, una volta di piu', di riflettere. Ha gia'
fatto lo stesso errore in Cecenia, ignorando la situazione reale che vi
regna dall'inizio della seconda guerra. La maggior parte degli abitanti
della Cecenia si sente in un vicolo cieco. Quando dei figli, dei padri, dei
fratelli vengono portati verso una destinazione sconosciuta senza che si
sappia perche', le autorita' militari e civili dicono alle loro famiglie:
"Basta. Smettetela. Non li cercate piu'. Sono in gioco gli interessi supremi
della lotta antiterrorista". E questi funzionari e militari scoppiano di
rabbia quando le madri affrante esigono di sapere perche' i loro figli sono
stati uccisi.
Ma la nostra societa' e' stata zitta. La schiacciante maggioranza guardava
con indifferenza alla Cecenia, fino a che non e' successo il fatto del
Nord-Ost. Il potere ha applicato la stessa logica alle vittime dell'azione
terrorista e alle loro famiglie. E' come se avessero detto loro:
"Smettetela. Dimenticate. Bisognava farlo. Gli interessi superiori hanno la
precedenza sulle vostre vite individuali". Con le vittime del Nord-Ost, le
autorita' si sono comportale alla stessa maniera che nei confronti della
popolazione cecena durante questi tre anni e mezzo di guerra, anche se qui,
alla fine, hanno dovuto pagare delle indennita' seppur irrisorie, dai
cinquantamila ai centomila rubli. In Cecenia, ovviamente, di indennizzi non
se ne parla.
E la societa'? E il popolo? In linea generale non ci sono slanci di
compassione ne' proteste sociali che le autorita' si sentano in dovere di
prendere in considerazione. Al contrario, la societa' perversa reclama
ancora una volta benessere e tranquillita' al prezzo della vita altrui. Ed
elude la tragedia del Nord-Ost preferendo credere al lavaggio del cervello
di stato anziche' alla parola di un vicino che e' stato tenuto in ostaggio.
"Abbiamo paura. Ci hanno gia' fatto capire che puo' succederci di tutto, se
insistiamo troppo. Abbiamo paura... Non per noi, per i nostri figli minori",
mi dice Tatjana salutandomi.
Tutta la verita' sta qua. E' un condensato della nostra storia
contemporanea. Eccola la nostra "democrazia", dove e' vietato richiedere
trenta milioni di rubli per la scomparsa di un essere umano. Ancora una
volta nella storia russa, la nostra vita non vale niente.
(Parte prima - segue)

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 275 del 17 settembre 2009

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it