Voci e volti della nonviolenza. 353



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 353 del 28 luglio 2009

In questo numero:
1. Si e' svolto a Viterbo il 27 luglio 2009 un incontro di studio contro la
guerra e contro il razzismo
2. Giampaolo Calchi Novati presenta "Il turbante e la corona" di Alberto
Negri
3. Stefano Catucci presenta "Classe" di Andrea Cavalletti
4. Vanni Codeluppi presenta alcuni recenti saggi sulla televisione
5. Franca D'Agostini presenta "Addio alla verita'" di Gianni Vattimo
6. Stefano Garzonio presenta "Ottanta poesie" di Osip Mandel'stam
7. Riedizioni: Donya al-Nahi, Nessuno avra' i miei figli
8. Riedizioni: Xinran, La meta' dimenticata

1. INCONTRI. SI E' SVOLTO A VITERBO IL 27 LUGLIO 2009 UN INCONTRO DI STUDIO
CONTRO LA GUERRA E CONTRO IL RAZZISMO

Presso la sede del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo si e' svolto
il 27 luglio 2009 un incontro di studio contro la guerra e contro il
razzismo.
Nel corso dell'incontro si e' espressa ed argomentata una netta opposizione
alla guerra, e si e' formulata la richiesta che l'Italia cessi
immediatamente di partecipare alla guerra afgana, partecipazione illegale
alla luce dell'art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Si e' poi esaminato il cosiddetto "pacchetto sicurezza" e si e' espressa ed
argomentata una netta opposizione alle misure razziste e squadriste che esso
contiene, e si e' formulata la richiesta al Parlamento di riesaminare quelle
misure anticostituzionali ed antigiuridiche e cassarle immediatamente, anche
alla luce delle considerazioni contenute nella lettera del Presidente della
Repubblica del 15 luglio 2009.

2. LIBRI. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI PRESENTA "IL TURBANTE E LA CORONA" DI
ALBERTO NEGRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 luglio 2009 col titolo "Iran, una
modernita' conquistata a fatica" e il sottotitolo "Saggi. Un 'paese
difficile' nella lettura di Alberto Negri"]

Alberto Negri, Il turbante e la corona, Tropea, pp. 288, euro 16,90.
*
Ricostruendo la storia dell'ultimo secolo emerge con estrema chiarezza
l'importanza della posta al fondo del rapporto fra Iran e Stati Uniti.
L'Iran non e' stato colonizzato e il suo ingresso nella modernita' e'
avvenuto seguendo un percorso che assomiglia a quello conosciuto dalla
Turchia: a un certo punto, scaduti i mezzi di cui si era sempre servita
l'Inghilterra per condizionare l'impero e divenuti antagonistici i rapporti
con la Russia, la scena e' stata occupata dall'America. Un incontro fervido,
con molte contraddizioni ma con grandi opportunita' per l'una parte e per
l'altra, non una dominazione e una soggezione. L'epitome di quella
reciprocita', e la rivelazione dei rischi che vi erano sottesi, fu la
decisione di Carter di recarsi a Teheran per festeggiare con Reza Pahlevi il
Capodanno del 1978. A furia di insistere con lo scia', impegnato in un
programma di modernizzazione, perche' accelerasse le riforme, il presidente
dei diritti umani aveva messo in difficolta' il regime minacciando cosi' gli
interessi americani. C'era bisogno di un gesto a effetto per uscire
dall'impasse. Ma il brindisi di quella notte fatale assesto' l'ultima
"martellata" alla gia' traballante legittimita' della monarchia.
La "sindrome americana" non finisce qui. Nel novembre 1979, a circa due anni
dal giorno in cui Carter aveva definito l'Iran "un'isola di stabilita'", la
rivoluzione islamica subi' una sterzata con l'occupazione dell'ambasciata
degli Stati Uniti a Teheran. Per Negri, nel suo Il turbante e la corona, fu
quella la vera svolta. Lo strappo era stato provocato da un altro gesto
compiuto da Carter nei riguardi dello scia', questa volta quasi postumo
perche' Reza Pahlevi, molto malato, aveva lasciato l'Iran per sempre. Fino
ad allora la traiettoria della rivoluzione pareva in grado di contemperare
le diverse istanze che l'avevano ispirata. L'ospitalita' concessa
dall'America allo scia' per curarsi scateno' gli estremisti. Sulle prime, la
bravata degli studenti non era piaciuta a Khomeini: voleva prenderli a calci
e rimandarli a casa. Si convinse quando vide che le masse si muovevano, e
non si lascio' sfuggire l'occasione. Il risultato fu la caduta del governo
semi-liberale che si era insediato alla partenza dello scia', l'isolamento
internazionale e l'avvio della deriva autoritaria che avrebbe divorato via
via in un crescendo delirante gli stessi figli della rivoluzione. E' un
destino che in Iran tutte le trasformazioni siano segnate da una drammatica
sequenza di massacri. Il disastro iraniano costo' la rielezione a Carter.
Adesso, passati Reagan, Clinton e i Bush, tocca a Obama. L'Europa ha qualche
carta da giocare ma e' poco probabile che sia Frattini o lo stesso Sarkozy
l'uomo determinante. L'Iran guarda all'America per essere investito in forma
debita delle sue funzioni di superpotenza del Golfo. L'America fa i conti
con le due guerre che George W. ha intentato per domare i due paesi che
circondano l'Iran e che l'Iran - senza dimenticare il Libano e la Siria -
vuole inserire nella sua sfera d'influenza. Paradossalmente quelle guerre
gli hanno spianato la strada. Per l'America il rapporto con l'Iran conserva
piu' che mai un valore prioritario. Contraddicendo l'ex inquilino della Casa
Bianca e il governo israeliano, la soluzione militare non e' la prima scelta
di Obama e l'Iran potrebbe esserne consapevole. Che gli Stati Uniti siano
l'interlocutore privilegiato dell'Iran lo ha dimostrato anche l'erratico
Ahmadinejad, il primo presidente laico dai tempi di Bani Sadr, che ha detto
di non considerare gli Usa un nemico ma ha chiesto al governo americano di
fare ammenda pubblica delle colpe del passato.
L'intreccio tra la dimensione regionale e quella internazionale e' uno dei
tanti filoni del libro di Alberto Negri, un libro giornalistico per la sua
impostazione ma che trascende il giornalismo nella sua capacita' di scavare
in profondita'. Il suo obiettivo e' di svelare l'essenza della societa' che
ha portato alla rivoluzione islamica e che la rivoluzione islamica ha
rimodellato. Nessun giudizio semplificato su una realta' in cui le durezze e
gli abusi del regime convivono con la ricchezza dei giovani, delle donne, di
un'elite tecnica e intellettuale di alto profilo. Sarebbe troppo facile dire
che per capire l'Iran di oggi basta leggere il libro di Negri, ma
l'informazione e l'analisi del saggio rivelano una grande complessita', che
non e' un alibi per lasciare tutto in sospeso ma la capacita' di mettere a
fuoco i diversi strati in cui si muovono le forze della conservazione e del
cambiamento (e Negri e' bravo a scomporre i piani). Alla fine passa un
messaggio che non e' tenuto sempre presente nel discorso sull'Iran.
Il petrolio pesa piu' dell'islam. La rendita petrolifera, con le sue
implicazioni sull'ordine economico e sociale, ostacola (se non addirittura
impedisce) una riforma democratica dell'islam tradizionale. Una posizione
che Negri attribuisce a uno dei tanti iraniani con cui si confronta in
questo suo attraversamento dei tempi e dei luoghi. E' cosi' che i riformisti
hanno deluso. Khatami, presidente per due termini, si comportava da capo
dell'opposizione piu' che da capo dello Stato in carica. Il potere prevale
sulle richieste del popolo e le elezioni appartengono a una sfera che non
scalfisce la volonta' del leader supremo.

3. LIBRI. STEFANO CATUCCI PRESENTA "CLASSE" DI ANDREA CAVALLETTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 luglio 2009 col titolo "Una genealogia
del concetto di classe" e il sottotitolo "Saggi. Per Bollati Boringhieri un
libro di Andrea Cavalletti]

Andrea Cavalletti, Classe, Bollati Boringhieri, pp. 159, euro 9.
*
Nel confronto con realta' come la folla, la massa, il popolo, la
moltitudine, il concetto di classe emerge come segnale di un'entita'
distinta, non descrivibile con il linguaggio della quantita' ne' riducibile
solo a un soggetto collettivo dotato di una propria identita' biologica e
psicologica. Lo aveva scritto con chiarezza Lukacs nel suo fondamentale
Storia e coscienza di classe (1923): "la coscienza di classe non e' la
coscienza psicologica dei singoli proletari oppure la coscienza della loro
totalita' (intesa in termini di psicologica di massa), ma il senso divenuto
cosciente della situazione storica della classe stessa". Walter Benjamin,
che riprende il testo di Lukacs ma se ne distacca in alcuni snodi decisivi,
individua dal canto suo quel che trasforma la compattezza biologica e
psicologica della folla e della massa nell'unita' politica della classe: la
solidarieta', principio che non rinvia al livello dei buoni sentimenti ma
che struttura il dinamismo di un processo nel quale il monolite della massa
si differenzia, i suoi vincoli "naturali" si allentano, e viene meno
dialetticamente la contrapposizione fra l'individuo e la folla.
Oggi che proprio l'idea di classe sembra storicamente tramontata, in misura
direttamente proporzionale al venir meno di interessi collettivi capaci di
trasformarsi in coscienza politica, un bel libro di Andrea Cavalletti,
Classe, prova a ricostruirne la genealogia e a rintracciarne le persistenze
nel presente, spesso nascoste sotto un modello di aggregazione che ricalca
precisamente gli schemi della biologia e della psicologia: piu' o meno
quello che Foucault riuniva nella parola "biopolitica". L'esempio di
Benjamin e' il motivo che organizza anche da un punto di vista metodologico
un volume apparentemente dispersivo, che alterna analisi sulla sociologia,
la psicologia, le scienze sociali in genere e la teoria politica nel
passaggio tra Otto e Novecento, con riferimenti che non trascurano ne' Marx
ne' Canetti e con momenti di riflessione su una figurazione di tipo
letterario che allinea nomi come quelli di Robert Stevenson, Jules Verne o
Raymond Chandler.
Cavalletti ricapitola per un verso alcune sue ricerche precedenti, come
quelle sulla nascita e lo sviluppo dell'urbanistica o sulla forma
dell'esperienza dei campi di concentramento. Per un altro spinge in avanti
il senso della ricostruzione genealogica fino a gettare una luce
sull'attualita': per esempio sul rapporto fra massa e leader, o sulla
progressiva biologizzazione del politico. Il capo che si erge a guida della
folla, si legge per esempio con riferimento a un libro di Emil Federer
(1940), "non viene propriamente scelto, non supera alcun processo di prova"
ma "diviene inaspettatamente il polo di una cristallizzazione", non esprime
una inesistente "anima collettiva", ma funge da frangiflutti nei confronti
del panico che agita la massa ed e', in questo senso, un semplice
"funzionario" di coloro che guida, secondo l'espressione di Hannah Arendt:
in fondo, chi guida e' anche guidato, come avrebbe osservato Georg Simmel.
Da questo breve excursus sulla figura del leader si nota lo spirito
benjaminano del collage che innerva la forma del libro: l'accostamento di
autori diversi, provenienti da epoche anche lontane fra loro, ma riuniti
dalla volonta' di riflettere su un fenomeno di lunga durata, la cui
estensione storica coincide con quella della contemporaneita', produce
aperture inaspettate e permette di comprendere come proprio l'espansione di
quello strato sociale cui ne' Benjamin ne' Lukacs attribuivano lo statuto di
una classe, la piccola borghesia, abbia provocato l'irrigidimento della
folla e il suo compattamento in una collettivita' che non propone alcunche'
di politico, ma reagisce emotivamente al delinearsi di scenari
terrorizzanti.
Occorre pero' soffermarsi sui passi che Cavalletti dedica alle forme attuali
del "metalavoro", un lavoro prestato nel tentativo di procurarsi un lavoro,
al volontariato, alla conseguente confusione tra i ruoli dell'occupato e del
disoccupato, per vedere come un'idea di classe continui ad agitarsi al fondo
delle strutture sociali senza piu' avere, pero', la nitida riconoscibilita'
di quando poteva essere identificata con il proletariato dell'industria, e
come tale poteva essere anche sindacalizzata. Bisogna allora pensare la
classe come una variabile, e non come un apparato rigidamente codificato,
seguendo in questo un'intuizione di Deleuze e Guattari che compare nel libro
al modo di un Leitmotiv: "sotto la riproduzione delle masse c'e' sempre la
carta variabile della classe". Ed e' appunto questa variabilita' che la
ricostruzione genealogica di Cavalletti ci invita a riconoscere e a
ripensare in un libro eminentemente politico.

4. LIBRI. VANNI CODELUPPI PRESENTA ALCUNI RECENTI SAGGI SULLA TELEVISIONE
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 luglio 2009 col titolo "Schermi
globali" e il sommario "Diversi saggi recenti usciti in Italia e in Francia
provano a indagare quale sara', se ci sara', il futuro della televisione al
tempo di Internet. E ipotizzano per il cinema una rinnovata centralita'"]

Sono in molti oggi a chiedersi se la televisione sia sul punto di morire. In
effetti, il suo apparecchio di trasmissione - il televisore - si e'
progressivamente ridotto e tra qualche anno sara' niente di piu' che una
sottile membrana applicabile ovunque. Ma e' soprattutto nei contenuti
trasmessi che sembra essersi sempre piu' indebolita l'identita' della
televisione e la sua capacita' di influenza sulla societa'. Sembra cioe' che
si siano perse quelle originali caratteristiche che facevano della
televisione un mezzo di comunicazione unico nel panorama mediatico. Al
momento attuale e' difficile dire se effettivamente la televisione stia
morendo, ma alcuni volumi usciti di recente offrono strumenti utili per
riflettere sul radicale processo di cambiamento in corso per il mezzo
televisivo.
*
Tra cornice e flusso
Nel saggio La fine della televisione (Lupetti - Editori di Comunicazione,
pp. 111, euro 13) Jean-Louis Missika ha raccontato con chiarezza che cosa e'
accaduto nella recente storia della tv. All'inizio degli anni Ottanta,
scrive Missika, ha cominciato a svilupparsi quello che Umberto Eco ha
descritto come il passaggio dalla "Paleotelevisione" alla "Neotelevisione",
cioe' il passaggio a una nuova fase nella quale la televisione, parlando
sempre meno del mondo esterno e sempre piu' di se' e del suo rapporto con il
pubblico, tende a inglobare lo spettatore. In sostanza, dunque, la
Neotelevisione si disinteressa della qualita' dei programmi trasmessi
perche' a contare e' soprattutto la sua capacita' di costruire relazioni
sociali.
Ne consegue che anche la struttura dei singoli programmi si disgrega e la
televisione si trasforma in un enorme flusso senza inizio ne' fine. A dire
il vero, la comunicazione di flusso rappresenta una specifica caratteristica
dei media elettronici. In precedenza infatti i messaggi erano definiti da
precisi confini: giornali e manifesti, ad esempio, proponevano una fruizione
concentrata e dotata di limiti temporali. Il modello dominante insomma era
quello della fruizione dell'opera d'arte collocata all'interno di
un'apposita cornice. I media elettronici - prima la radio, poi la
televisione e soprattutto Internet - hanno invece introdotto e
progressivamente sviluppato un modello di comunicazione basato sul flusso.
Un modello, cioe', che prevede una comunicazione attiva senza interruzioni e
alla quale l'individuo ha la possibilita' di accedere in qualsiasi momento.
La televisione della prima fase - la Paleotelevisione - era ancora in grado
di conservare nei suoi programmi una parvenza di struttura, successivamente
disgregata dalla Neotelevisione.
Pochi anni dopo la comparsa della Neotelevisione, il 17 aprile 1989, a Rai 3
e' nato anche Blob, programma di montaggio di immagini provenienti da
trasmissioni televisive gia' trasmesse, che incarnava in maniera esemplare
il nuovo modello neotelevisivo. Mostrava infatti chiaramente che parlare di
se' era divenuto l'obiettivo primario della tv e intensificava inoltre
quella tendenza verso una comunicazione di flusso che e' propria del mezzo
televisivo.
Blob, pero', pur essendo una trasmissione figlia della Neotelevisione,
rappresentava anche un esperimento d'avanguardia, poiche' cercava, portando
all'estremo le caratteristiche della Neotelevisione, di modificarne la
logica. Come ha sostenuto Pier Aldo Rovatti, nel numero monografico dedicato
alla televisione dalla rivista "Aut Aut" (n. 336, ottobre-dicembre 2007), il
motore principale del linguaggio di Blob e' sempre stato la ricerca di
contrasti tra le immagini: "Il gioco molteplice dei contrasti e' la molla
inventiva che mette in vibrazione ogni sequenza dandole una dimensionalita'
composita, mai riducibile al semplice dato (a una immagine semplice,
unidimensionale)". Questo, nell'interpretazione di Rovatti, consente a Blob
di produrre una "distanza", di stabilire cioe' una separazione rispetto al
flusso invasivo delle immagini, che tende soltanto a produrre prossimita' e
vicinanza. Per ottenere questo risultato Blob accetta la logica del
palinsesto, ma si manifesta al suo interno "producendovi cesure e disturbi".
Proprio questo pero' fa di Blob un programma dalla natura strutturalmente
ambigua, a un tempo interna ed esterna alla logica televisiva. Non e' un
caso che Blob possa essere considerato anche un programma morale perche',
attraverso i collegamenti logici che stabilisce tra i contenuti dei
programmi, tende a ricostruire un proprio ordine nel disordine del flusso
televisivo. Nessuna meraviglia allora se da qualche tempo Blob ha visto
ridimensionarsi il suo ruolo. Da che cosa deriva questo fatto? Dalla
politica che ha voluto censurarlo? In parte, ma soprattutto dalla
"blobbizzazione" della televisione, che negli ultimi anni ha man mano
ridotto le differenze tra Blob e il normale flusso televisivo.
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Onnipresenti telecamere
Se le differenze tra Blob e la televisione si sono ridotte, pero', e' anche
perche' negli ultimi anni e' comparsa sulla scena sociale Internet. La
televisione ha dovuto adeguarsi alla concorrenza esercitata dalla Rete ed e'
entrata nella fase della Transtelevisione, una fase nella quale la
televisione tende a caratterizzarsi anch'essa per una diffusione
"reticolare" nella societa', con il risultato di produrre un effetto
"anestetico". Non solo infatti gli schermi si diffondono ovunque, ma si
moltiplicano le telecamere che inquadrano quanto essi trasmettono. E' come
se tutta la realta' sociale fosse entrata dentro gli schermi appunto perche'
inquadrabile dalle telecamere. E la televisione non si presenta soltanto
come reale, come reality tv, ma e' la "vera realta'". Non ci puo' essere una
dimensione differente: la realta' e' quella che gia' esiste e basta
inquadrarla con l'obiettivo di una telecamera per vederla. Cio' avviene
perche' la televisione non si limita oggi a creare nuove forme espressive o
a trasformare in flusso i suoi contenuti, ma assume un'identità autonoma.
Da' vita cioe' a un mondo che sembra vivo e continuamente a portata di mano.
Ed e' questa sensazione di prossimita' del mondo televisivo a coinvolgere
gli spettatori in profondita'. Ne deriva che gli individui vengono
influenzati per quanto riguarda la loro capacita' di attribuire un senso
alle relazioni sociali e all'intera realta' che li circonda.
Insomma, nonostante l'arrivo della Rete e di nuovi modelli televisivi che
sottraggono spazio alla tradizionale tv analogica (digitale satellitare,
digitale terrestre, con protocollo Internet, mobile tv e via dicendo), la
televisione continua attivamente a operare. Anzi, ancora oggi puo' essere
considerata il piu' importante strumento in grado di dettare agli attori
sociali i ritmi e i temi primari della vita collettiva. Negli ultimi anni
l'invadente retorica sui new media ha in parte oscurato questo fondamentale
ruolo sociale esercitato dalla televisione. Ma e' necessario chiedersi se ha
senso continuare a impiegare oggi l'espressione "nuovi media". Nel volume Il
mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali
(Liguori, pp. 257, euro 19) Davide Borrelli ha giustamente proposto di
prendere congedo da tale espressione, in quanto si tratta di "una specie di
termine ombrello dai contorni semantici ormai sempre piu' indeterminati e
generici, usato spesso con obiettivi e punti di vista diversi e per definire
fenomeni e oggetti alquanto eterogenei se non contrastanti".
I media procedono da sempre per integrazione progressiva. Procedono cioe'
sovrapponendosi l'uno con l'altro e spesso ibridandosi tra loro. Cosi', i
vecchi media non sono scomparsi. Di fronte al sopraggiungere di tecnologie
innovative, hanno semplicemente ridimensionato il loro ruolo e inglobato
parte dei loro contenuti e delle loro capacita' comunicative all'interno di
tali tecnologie. E questo sta accadendo anche alla Neotelevisione.
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L'industria del gossip
Sembrerebbe che, nonostante l'attuale moltiplicazione di schermi, non sia
cambiato molto rispetto al rapporto tra spettatore e schermo che vigeva
all'epoca del cinema delle origini. E' questa d'altronde la tesi sostenuta
da Gilles Lipovetsky e Jean Serroy in L'ecran global. Culture-medias et
cinema a' l'age hypermoderne (Seuil, pp. 366, euro 22). Per Lipovetsky e
Serroy, infatti, e' stato il cinema a creare il concetto di schermo, facendo
apparire per la prima volta un grande spazio luminoso rettangolare al cui
interno magicamente si manifesta la vita riprodotta. Oggi quello del cinema
e' pero' solo uno dei tanti schermi della enorme "schermosfera" in cui
viviamo. Ma se il cinema ha progressivamente ridotto la sua centralita',
questo non comporta che si sia indebolito dal punto di vista della capacita'
di esercitare un'influenza culturale. Anzi, la tesi di Lipovetsky e Serroy
e' che tale capacita' nel tempo si sia rafforzata: proprio la perdita di
egemonia sul piano istituzionale ha consentito al cinema di diventare piu'
flessibile, diffondendo il proprio modello agli altri schermi e all'intero
immaginario culturale, addirittura imponendo agli individui di guardare la
realta' sociale come se fossero davanti allo schermo del cinema.
Ma in cosa consiste per Lipovetsky e Serroy questa "cinematografizzazione
del mondo"? Innanzitutto, i contenuti di tutti gli schermi sono sempre piu'
spesso forniti dal cinema, che, lungi dallo scomparire, appare oggi piu' che
mai vitale e capace di rinnovarsi in continuazione: le varie forme
espressive (dai telefilm agli spot pubblicitari, dai videoclip ai
videogiochi) tendono del resto in misura crescente a riprodurre il modello
narrativo del cinema, seppure semplificandolo e accorciandolo. Infine, il
cinema oggi diffonde sempre piu' nei media e nell'intera societa' il suo
modello estetico, basato sulla spettacolarizzazione, sullo star system e
sull'industria del gossip. Sono pero' anche le infinite forme di
riproduzione delle esperienze quotidiane consentite dalle nuove tecnologie
comunicative ad adottare il modello del cinema. Seguendo l'esempio fornito
alle origini dai fratelli Lumiere, la vita umana si ritrova infatti ad
essere sempre piu' spesso sotto l'occhio dell'obiettivo. E addirittura il
suo valore sociale dipende dall'esistenza di tale riproduzione basata sul
modello cinematografico.
Strettamente connaturato all'idea di movimento prodotto attraverso uno
strumento meccanico, il cinema e' nato come arte della modernita'. Ma sin
dall'inizio si e' presentato anche come fascinazione, perche' dotato della
magia suscitata dalle immagini in movimento sullo schermo - quella magia che
gli consente oggi di essere ipermoderno e di rimanere in sintonia con le
nuove tecnologie della comunicazione.
Se la tesi di Lipovetsky e Serroy fosse vera, allora l'avvento della
Transtelevisione non comporterebbe la scomparsa (da molti temuta) del ruolo
svolto sinora dalla televisione come medium di massa in grado di tenere
unita la societa' e di consentire quindi lo sviluppo di quel dibattito
plurale che sta alla base della vita democratica. Infatti il cinema potrebbe
essere un collante capace di attribuire carattere collettivo ai molti e
differenti volti assunti dalla Transtelevisione. Ridimensionato come momento
di spettacolo con una partecipazione di massa, il cinema potrebbe cioe'
continuare a svolgere un ruolo ecumenico collegando attraverso le sue
immagini e i suoi contenuti gli infiniti schermi di oggi.

5. LIBRI. FRANCA D'AGOSTINI PRESENTA "ADDIO ALLA VERITA'" DI GIANNI VATTIMO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2009 col titolo "La rischiosa
impresa di congedarsi dal vero" e il sommario "Saggi. Un pluralismo senza
fatti nell'ultimo libro di Vattimo]

Gianni Vattimo, Addio alla verita', Meltemi, pp. 143, euro 13.
*
Un possibile enigma e' perche' il premier di un paese democratico possa
rifiutarsi di rispondere alle domande che gli vengono poste da un quotidiano
nazionale, ripetutamente, per mesi. Un altro possibile enigma e' perche' lo
stesso premier possa fornire, di fronte agli occhi e alle orecchie di tutti,
versioni contraddittorie (una delle quali dunque evidentemente falsa) su uno
stesso punto. Il vero enigma e': perche' mai la verita' conta cosi' poco?
Ma, e' bene notarlo, e' un enigma che ha una risposta abbastanza facile:
perche' c'e' troppa mezzaverita' in giro. La mezzaverita' e' quel parziale
vero che sta annidato nei discorsi falsi, e che rende irrilevante il vero e
il falso. La mezzaverita' e' l'uso del vero per produrre il falso
inapparente.
Nel suo recente lavoro, Addio alla verita', Gianni Vattimo sostiene che non
c'e' piu' verita' nel mondo mediatizzato in cui ci troviamo a vivere, e che
chi difenda o pretenda di difendere la verita' e' un dogmatico (qualcuno che
vuole imporre la sua verita'), o un ipocrita (qualcuno che sbandiera come
vero cio' che non e' vero affatto, e che sa benissimo non essere tale). Non
sono d'accordo ne' sulla prima tesi, che (cosi' formulata) e' una versione
della vecchia diagnosi situazionista (i media come impostura generalizzata),
ne' sulla seconda. Non sono d'accordo, anche se evidentemente c'e' in quel
che Vattimo dice qualche buona ragione, che il libro si preoccupa di
specificare, combinando Heidegger e Popper, Rorty, Schuermann e Gadamer.
Diro' subito che la mia parziale condivisione comporterebbe una modifica
radicale del titolo. A mio avviso, infatti, Vattimo avrebbe dovuto scrivere
piuttosto Addio alla mezza verita', e con cio' avrebbe evitato una serie di
equivoci e sarebbe stato piu' fedele alle sue stesse intenzioni. La prima
tesi e' largamente condivisa. Ne troviamo traccia un po' ovunque, dalle tesi
del sociologo Zygmunt Bauman sulla natura liquida e pertanto inafferrabile
dell'identita' nel mondo ultramediatizzato, al piu' recente film di Jim
Jarmush, The Limits of Control, i cui personaggi vanno in giro ripetendo le
formule nichiliste: "non c'e' realta'", "tutto e' immaginato". In realta' e'
vero che l'operare dei media e' falsificante, e' vero che il cosiddetto
spinning, il voltare il vero in falso e viceversa, e' una procedura comune
nel dibattito pubblico, ma se questo e' vero, come sappiamo che lo e'? Come
mai il potere falsificante dei media non arriva fino al punto di nascondere
la propria stessa evidenza? Allo stesso modo, Vattimo ha trovato il vero:
che non c'e' verita', che la verita' e' finita. Ma se questo e' vero, non si
vede per quali speciali ragioni possa esserlo, visto che non c'e' verita'.
Insomma, se vogliamo-dobbiamo dire addio alla verita' deve pur essere vero
che dobbiamo-vogliamo farlo, cosi' non si scappa: quando prendiamo congedo
dalla verita' ce la ritroviamo davanti. Questo e' un vecchio argomento, ma
non bisogna sottovalutarlo, perche' ci ricorda qialcosa che Nietzsche e
Heidegger volevano dimenticare: che parole come verita', identita', realta'
sono parole speciali, fragili e ubique nello stesso tempo: potrebbero non
esserci ne' esserci mai state, spesso sembra che non abbiano alcun senso, ma
una volta pensate e pronunciate e' impossibile sbarazzarsene.
Invece ecco una proposta per la revisione della prima tesi: se c'e' un
problema con la verita' i media non c'entrano affatto, o meglio determinano
forse l'intensita' e la vastita' del problema, non la sua natura. In Grecia
non c'erano i mass media, e tuttavia c'era gia' il nichilismo come deriva
della democrazia. Inoltre, oggi come nell'antica Grecia, la verita' fa
problema non perche' non c'e', ma perche' ce n'e' troppa. E' l'eccesso di
verita' e non la sua scarsezza a ispirare il nichilista, da sempre, dal
giorno stesso in cui la parola verita' e' stata inventata. La situazione per
noi non e' molto diversa, salvo che e' piu' evidente: basta considerare il
piu' vasto serbatoio di informazioni vere quasivere quasifalse mezzefalse
false e falsissime di cui disponiamo, e che e' Internet.
Quanto alla seconda tesi, l'obiezione naturale e' che se diciamo addio alla
verita' allora tutte le volte che siamo di fronte a un falso palese dovremmo
vietarci di denunciarlo, e accettarlo come vero: se qualcuno vuol farci
salire su un aereo dopo aver falsificato le quote di rischio dovremmo
comunque partire e precipitare; se una casa farmaceutica nasconde gli
effetti collaterali di un farmaco dovremmo morire senza un fiato. "Verita'"
infatti non e' soltanto o propriamente la sigla dell'"organizzazione
totale", come Vattimo ripete, ma anche una potente arma scettica, nelle mani
della critica.
Eppure, molte delle cose che Vattimo dice nel libro portano verso tutt'altre
conclusioni, che lui stesso non trae esplicitamente, perche' troppo legato a
Nietzsche, a Heidegger, soprattutto a Rorty, che con le migliori intenzioni
e' stato un grande equivocatore del concetto di verita'. C'e' in particolare
un'interessante idea di fondo, difesa in molti luoghi del libro. Il problema
e' che quando parliamo diciamo spesso, se non per lo piu', verita'
incomplete e i furbi funzionari della falsita' istituita si accampano nel
margine di quel che non viene detto per generare il mezzovero spacciato per
vero. Provate a guardare da vicino un sistematico falsificatore. Vi
accorgerete che bizzarramente, non dice mai il falso, ma sempre e
sistematicamente mezziveri. Lavora anzi con il vero parziale per costruire
globali, formidabili, oltreche' intoccabili, falsita'.
La filosofia e la teoria dell'argomentazione sanno tutto delle procedure di
combinazione del vero lacunoso e incompleto per produrre l'effetto-falso.
L'analisi di Vattimo si muove a partire da queste consapevolezze e
suggerisce la cautela fondamentale: in molti casi, e specie nella sfera
pubblica, state attenti perche' quel che appare e vi sembra vero e' un
mezzovero, che vi sta nascondendo qualcosa, e il qualcosa che vi nasconde e'
la parte piu' importante. Naturalmente, tutto questo non e' affatto un addio
alla verita', ma l'inizio di una teoria della verita', che viene sviluppata
nel libro con componenti coerentiste e scettiche (nichilistiche), una base
heideggeriana (la verita' come apertura), e uno sbocco
cristiano-pragmatistico (il vero e' l'opportuno, e cio' che e' sommamente
opportuno e' la carita'). Ma perche' mai allora Addio alla verita'? Ci
troviamo di fronte a quel che in retorica si chiama antifrasi: cio' che il
libro contiene e' l'opposto di quel che il titolo dichiara.

6. LIBRI. STEFANO GARZONIO PRESENTA "OTTANTA POESIE" DI OSIP MANDEL'STAM
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 luglio 2009 col titolo "Mandel'stam,
dettagli intarsiati di segni" e il sottotitolo "Ottanta liriche tradotte da
Remo Faccani"]

Osip Mandel'stam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Einaudi, pp. 277,
euro 15,50.
*
Mandel'stam e' poeta "difficile". La sua lirica si costruisce sulla trama
delle reminiscenze e sulla compresenza di molteplici maschere autoriali, su
un rapporto "estremamente fluido" tra le je de la chanson e le moi du poete
(per dirla con Zumthor), rapporto che tragicamente si complica negli ultimi
versi, specie quelli dell'esilio, frutto della sensibilissima memoria
poetica dell'autore. Al piano letterario si combina la rete di rimandi
biografici e spirituali, la congerie dei dettagli della quotidianita', la
trama delle emozioni. Il verso di Mandel'stam, elastico e pregnante, unico
nella sua laconica varieta', dopo una sofferta ricerca della compiutezza
espressiva, raggiunge la sua incarnazione in un ideale, unico "libro
poetico". Scorrendo i suoi testi si rimane affascinati dalla varieta' dei
legami infratestuali e intertestuali, dall'insistenza di reconditi cenni
autobiografici. Ne e' derivata una tradizione interpretativa, le cui lezioni
risultano talvolta vere e proprie prove di funambolismo esegetico. Questo si
riferisce tanto ai primi versi ancora legati al simbolismo, quanto alla
stagione acmeista, da Kamen' a Tristia, fino ai nuovi versi apparsi agli
inizi degli anni '30, dopo un lungo silenzio, e che trovano definitiva
realizzazione nel frammentario e poderoso affresco dei Quaderni di Voronezh.
A tutte e tre queste stagioni si volge con una ricca e variegata cernita
Remo Faccani nella sua nuova antologia mandel'stamiana che segue una
precedente silloge di cinquanta poesie (Einaudi 1998). Una scelta per certi
versi impervia che si scontra con la difficolta' di dover render comunque
conto di molti dei testi esclusi che vivono e si rifrangono in quelli
tradotti.
Faccani opera su due piani, quello della resa verbale in italiano e quello
del commento esplicativo e della disamina dei collegamenti ipostestuali, un
commento che, fondato sulle note di Nadezhda Mandel'stam e di tanti
studiosi, da Omry Ronen a Michail Gasparov, svolge il ruolo di trasposizione
culturale, di esplicitazione delle numerose stratificazioni semantiche e
culturali proprie del linguaggio poetico mandel'stamiano. Particolare
attenzione e' rivolta da Faccani, che apre la silloge con una fine
introduzione e un'esaustiva presentazione bio-bibliografica, alla resa
metrico-ritmica degli originali mandel'stamiani, alla ricerca di consonanze
ed equivalenze nella poesia italiana, sia quella antica, anche per la
frequentazione che ebbe della nostra letteratura Mandel'stam (si pensi al
suo Conversazione su Dante del 1933), sia quella moderna, anche per gli
evidenti richiami alla coeva poesia europea.
Nella traduzione, che Faccani definisce "sperimentale" in quanto "vorrebbe
anche presentarsi come un tentativo di ricreare, reinventare in italiano,
per quanto e' possibile, la forma del testo russo", troviamo molteplici
riferimenti legati all'intero arco della metrica italiana, dalla rima
pseudosiciliana al verso martelliano, a singoli modelli di Dante, Leopardi,
Pavese, Montale... Certo in alcuni casi il lettore potra' essere indirizzato
verso reminiscenze metriche e testuali difficilmente riscontrabili
nell'originale e che si sono materializzate piuttosto nella sensibilita'
poetica del traduttore. Rimarra' comunque affascinato dalla complicita'
poetica adottata da Faccani nella sua traduzione-riscrittura. Sul piano
sintagmatico la resa e' pienamente condivisibile, anche se talvolta si
dissolve la lapidaria intransigenza dell'originale; sul piano paradigmatico
le annotazioni riescono quasi sempre a seguire l'organicita' del messaggio
di Mandel'stam che si costruisce sull'indivisibilita' del ciclo testuale e
sull'irrinunciabile individualita' del libro poetico ricercata dal poeta con
sofferenza, come mostrano le continue modifiche apportate alla composizione
dei suoi libri poetici.
La complicita', quasi coautorialita' del traduttore, si manifesta nella
circolarita' compositiva della raccolta. La prima breve lirica e' un
frammento che sembra riproporre con il fragore del cadere di un frutto il
quadro di uno stagno di un haiku del poeta giapponese Basho, la poesia di
chiusura, Io mi porto questo verde alle labbra, si realizza con una analoga
quartina che riecheggia le voci delle rane in uno stagno i cui vapori paiono
mutarsi nella via lattea. Tra questi due quadri impersonali, in un coerente
itinerario interpretativo, si snoda l'esperienza lirica di Mandel'stam nella
ricezione di Faccani. Il lettore vi trovera' i primi esempi, testimonianza
della nascita della voce del poeta e dell'universo, e poi tutta la fase di
concreto approccio alla parola come oggetto, strumento, per l'edificazione
quasi architettonica del testo poetico.
La scelta proposta da Faccani comprende la maggior parte dei versi
filosofeggianti, molti dei testi di chiara ispirazione classica, quelli del
"ciclo greco", legati alla mitopoietica ricezione dei segni del mondo antico
nella morente Pietroburgo e nella Tauride, terra dell'esilio. I grandi
sconvolgimenti, la guerra mondiale, le rivoluzioni, la guerra civile,
costituiscono lo sfondo di questo affresco che caratterizza l'esperienza
creativa del Mandel'stam acmeista nelle varie redazioni di Pietra e poi
nella struggente nostalgia universale di Tristia.
Profondamente estraneo alla nuova realta' sovietica, Mandel'stam raccolse
tra tante difficolta' i suoi testi poetici in una raccolta, Poesie, del
1928. Poi seguirono i tentativi dei Nuovi versi fino alle fatidiche strofe
contro Stalin che nel 1934 ne segnarono il destino (curioso che Faccani
nella traduzione del brano riferito a Stalin presenti una variante diversa
da quella riportata nel testo russo a fronte: "Se la ridono i suoi occhiacci
da blatta" e "se la ridono i suoi mustacchi da scarafaggio"). Poi l'esilio a
Cerdyn' e Voronezh e infine la morte in un campo di transito verso l'inferno
della Kolyma. Faccani propone un proprio punto di osservazione di questo
percorso, sceglie con tutte le difficolta' e i rischi singole tappe e nel
commento approfondisce le implicazioni biografiche e l'aura delle consonanze
letterarie e culturali (anche a posteriori con i riferimenti alle traduzioni
tedesche di Celan e le rifrazioni di Venclova!), il sostrato biblico ed
evangelico, i classici antichi, la poesia tedesca, quella italiana, la
profonda russita' del respiro puskiniano, la dipendenza dai compagni di
cammino, Blok, Belyj, Cvetaeva, Achmatova, gli altri modernisti russi. Il
lettore e' chiamato a un continuo approfondimento, a una partecipazione
empatica, a una vera e propria affannata ricerca che e' quella del poeta e
del suo traduttore. Un'esperienza irripetibile, che si impossessa del
lettore fin dai primi versi.

7. RIEDIZIONI. DONYA AL-NAHI: NESSUNO AVRA' I MIEI FIGLI
Donya al-Nahi con Eugene Costello, Nessuno avra' i miei figli, Piemme,
Casale Monferrato 2007, Rba Italia, Milano 2009, pp. XVIII + 182, euro 7.99.
Nata nel 1965 in Gran Bretagna da genitori scozzesi col nome di Donna Topen,
convertitasi giovanissima all'islam e mutato il nome in Donya al-Nahi,
l'autrice del libro vi descrive il suo impegno per ricongiungere alle madri
i bambini dai padri ad esse rapiti, e la sua personale drammatica vicenda.
Una viva testimonianza e un appello all'impegno contro la violenza
patriarcale.

8. RIEDIZIONI. XINRAN: LA META' DIMENTICATA
Xinran, La meta' dimenticata, Sperling & Kupfer, Milano 2002, Rba Italia,
Milano 2009, pp. XXII + 248, euro 7,99. Una giornalista e scrittrice cinese,
autrice e conduttrice di una trasmissione radiofonica molto seguita,
raccoglie e racconta molte storie di vita di donne nella Cina di oggi.
Vittime di una violenta, persistente, crescente oppressione maschilista. Con
una prefazione di Renata Pisu.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 353 del 28 luglio 2009

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