Minime. 832



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 832 del 26 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani
2. Giobbe Santabarbara: Umoristi
3. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
4. Jolanda Insana: Sono molte
5. Alcuni estratti da "La pensabilita' del mondo" di Sebastiano Maffettone
(parte prima)
6. Vanna Vannuccini presenta alcune opere di scrittrici iraniane
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. TUTTI I DIRITTI UMANI PER TUTTI GLI ESSERI UMANI

Occorre opporsi al regime dell'apartheid.
Occorre opporsi alle deportazioni.
Occorre opporsi ai campi di concentramento.
Occorre opporsi allo squadrismo.
Occorre opporsi al razzismo.
Occorre opporsi alla guerra.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni.
*
La vita e' una cosa meravigliosa, se a tutti gli esseri umani si riconoscono
tutti i diritti umani.
La nonviolenza e' la via.

2. LE ULTIME COSE. GIOBBE SANTABARBARA: UMORISTI

Mentre l'Italia partecipa alla guerra afgana ci vuole un bel senso
dell'umorismo per pretendere di spacciare per "candidati pacifisti"
personaggi che, tradendo il loro stesso passato, si sono prestati durante
gli anni del governo Prodi-Bertinotti a votare e a propagandare la guerra.
Corruptio optimi pessima.
*
Mentre l'Italia partecipa alla guerra afgana ci vuole un bel senso
dell'umorismo per certi partiti e partitini che quando erano al governo si
prostituirono alla guerra per un piatto di lenticchie e violarono la
Costituzione votando all'unisono e in combutta con tutta la destra
dell'eversione berlusconiana, a pretendere oggi di spacciarsi per "impegnati
per la pace".
*
Ogni voto ai guerrafondai nostrani e' un aiuto ad assassinare gli afgani, e'
un aiuto al terrorismo internazionale tanto dei potenti quanto dei miseri
dai potenti sopraffatti e travolti e alienati all'estrema disperazione.
Noi non votiamo per gli assassini.
Noi siamo ancora dell'idea della Prima Internazionale.

3. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

4. POESIA E VERITA'. JOLANDA INSANA: SONO MOLTE
[Da Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti, Milano 2007, p.
415]

Sono molte
le cose che la notte fanno lume
ma ci vuole piu' chiaro lume
perche' si possa vedere la notte.

5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA PENSABILITA' DEL MONDO" DI SEBASTIANO
MAFFETTONE (PARTE PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Sebastiano Maffettone, La pensabilita' del mondo. Filosofia e governanza
globale, il Saggiatore, Milano 2006]

Indice del volume
Prefazione; 1. La pensabilita' del mondo: 1. La situazione storica; 2.
Riconoscimento identitario e principi normativi; 3. Liberalismo critico e
multiculturalismo; 4. Il problema e il metodo; 5. Liberta', eguaglianza,
identita'; 6. Globalizzazione, governanza, etica pubblica; 7. Sovranita' e
basic structure; II. La fragile trama della ragione pubblica: 1. "11
settembre"; 2. La perdita del senso; 3. La trama della ragione pubblica; 4.
Violenza identitaria e pluralismo culturale: l'integrazione pluralistica; 5.
Excursus 1: Cultura islamica e ragione pubblica; 6. Excursus 2: L'argomento
filosofico-politico; 7. Tramonto della sovranita' e dispersione della
ragione; III. Psiche e polis: 1. Identita' e identificazione; 2. L'identita'
del soggetto; 3. L'identita' culturale; IV. Diritti umani e diversita'
culturale: una visione filosofica: 1. Diritti umani e relativismo culturale;
2. Questione empirica e questione filosofica; 3. Il problema della
diversita' culturale e l'integrazione pluralistica; V. Guerra giusta e
intervento armato in Iraq: 1. I movimenti per la pace nel 2003 e l'idea di
guerra giusta; 2. In equilibrio riflessivo; 3. La teoria classica della
guerra giusta; 4. La teoria moderna e contemporanea; 5. Guerra giusta come
guerra difensiva (in senso stretto o lato); 6. Giustificazione,
legittimazione, legalita'; 7. Perche' la guerra in Iraq e' una guerra
ingiusta; VI. Sviluppo sostenibile e filosofia politica: 1. Sviluppo
sostenibile: alle origini di un'idea; 2. Una filosofia politica per lo
sviluppo sostenibile; 3. Una visione compatibilista dello sviluppo
sostenibile; 4. In prospettiva globale; 5. Lo sviluppo sostenibile come
politica economica; VII. E' il capitalismo moralmente accettabile? 1.
Capitalismo e morale; 2. Business ethics; 3. Benchmarking; 4. Giustificare o
legittimare il capitalismo? 5. Etica e analisi degli stakeholder; 6. Il
cambiamento delle preferenze; VIII. La rivoluzione genetica: 1. Premessa; 2.
Gen-etica? 3. La responsabilita' della scienza; 4. Problemi per una
giustificazione bioetica; 5. Positivo-negativo e somatico-germinale; 6.
Addendum: il caso del referendum del 2005 in Italia; IX. In che modo il
futuro ha bisogno di noi? 1. Evoluzione naturale e Intelligenza Artificiale;
2. Impossibilita' logica e problema morale; 3. A proposito di Unabomber; 4.
La posizione dell'etica pubblica; Note; Indice analitico.
*
Da pagina 11
Prefazione
"Pensabilita'" allude a cio' che puo' essere pensato. La pensabilita' del
mondo, come recita il titolo di questo libro, ha come oggetto i modi e le
categorie di pensare il mondo come si presenta oggi ai nostri occhi. Questo
compito immodesto puo' essere svolto, a mio avviso, cercando di concepire
mentalmente un ordine mondiale che non esiste ancora in re. E' come se
dietro i movimenti spesso caotici di cose e persone si potesse intravedere
una trama sottile e talvolta interrotta. La lanterna che dirada il buio da
cui siamo circondati e', nel mio caso, l'esercizio della filosofia politica.
Che da molti anni ormai applico ai problemi della convivenza globale. Lo
faccio con una convinzione che aiuta ad affrontare le difficolta'
dell'impresa: noi filosofi politici siamo abituati a partire dal centro di
imputazione della responsabilita' politica. Questo era per Aristotele la
polis e per Hobbes lo Stato. E, oggi, dovrebbe essere la comunita' globale.
Anticipare nel pensiero le forme della comunita' globale in una struttura
per ora in parte assente puo' costituire cosi' l'unico modo per venire a
capo dei problemi che essa pone.
Se il compito che il libro si pone e' immodesto, il modo in cui esso e'
svolto lo e', invece, molto meno. E non dico solo nei risultati
intellettuali, che lascio giudicare al lettore, ma anche nella maniera di
affrontare i problemi teorici lungo il percorso del libro. Dal primo
capitolo introduttivo in poi, ho cercato di farlo presentando una visione
teorica che procede per accumulazioni successive. Questa visione e'
caratterizzata da un metodo e da una tesi sostanziale. Il metodo e' basato
sulla convinzione che liberta', eguaglianza e identita' siano nozioni chiave
irriducibili l'una all'altra nello studio di una filosofia delle relazioni
internazionali. L'etica pubblica globale e' la teoria normativa della
politica che consente di trattare queste nozioni congiuntamente e in maniera
non puramente eclettica, ma teoricamente orientata. La tesi sostanziale,
all'interno dell'etica pubblica cosi' concepita, e' imperniata attorno
all'idea di "integrazione pluralistica". L'integrazione pluralistica prevede
una dialettica di locale e globale. Il quasi-ordine del mondo non esiste in
un luogo centrale, e quindi non puo' essere esportato e tanto meno imposto,
ma si afferma in modi diversi in luoghi differenti. Diritti umani, pace,
sostenibilita' e giustizia sociale ne sono elementi fondamentali. Ma bisogna
ricondurli nell'alveo di tradizioni e culture parzialmente incommensurabili.
Nel gergo della filosofia politica contemporanea, sosterro' nelle pagine che
seguono che qualcosa del genere avviene attraverso un connubio di
legittimazione e giustificazione. La legittimazione proviene dal basso e dal
locale. La giustificazione, invece, e' piu' tipicamente universale e
normativa. Entrambe devono essere presenti in un processo politico ben
riuscito. In questo modo, cerco anche di applicare strumenti tipici delle
teorie politiche liberali a problemi che invece tipici non sono. Con
l'ulteriore consapevolezza che il mutamento di oggetto teorico - non piu' la
comunita' nazionale ma quella globale - imponga anche un mutamento teorico
coerente.
Queste tesi teoriche sono difese nei nove capitoli del libro. Il primo
capitolo, che serve anche da introduzione a tutto il libro, presenta in
maniera unitaria l'argomento che poi sara' svolto analiticamente nel corso
del volume. Il secondo capitolo parte dall'11 settembre per proporre, in
termini di ragione pubblica, una ricostruzione del dialogo tra culture
drammaticamente interrottosi in quella data. Il concetto di ragione pubblica
trae sicuramente ispirazione da Kant prima, e da Rawls poi, ma viene qui
riformulato nell'ottica di un pluralismo culturale coerente con la teoria
dell'integrazione pluralistica dal basso. Il secondo capitolo, strettamente
collegato al primo, approfondisce la questione del metodo che, a mio avviso,
e' indispensabile fare proprio per discutere la tesi principale. Tale metodo
viene legato a un'etica pubblica liberale ed egualitarista, alla luce della
nozione di identita'. Quest'ultima viene, oserei dire imprevedibilmente,
trattata nel capitolo terzo in un'ottica ispirata a Freud e alla
psicoanalisi. La ragione di questo detour, solo apparente, consiste, oltre
che nell'interesse intrinseco della psicoanalisi per chi discute questi
temi, nel fatto che Freud, come chi scrive, non e' essenzialista
sull'identita', non la vede cioe' come un aspetto immutabile e definitivo
dell'essere che in effetti siamo. Proprio per cio', Freud adopera
prevalentemente "identificazione" piuttosto che "identita'", dove il primo
termine lascia spazio maggiore alla possibilita' di essere diversi l'uno
dall'altro, pur essendo dotati all'origine delle medesime caratteristiche
ascrittive. Questo stesso capitolo finisce con il proporre una rilettura di
Hegel, come del filosofo che piu' di ogni altro ha cercato di coniugare il
dizionario dell'identita' in termini di una riconciliazione possibile tra
ragione e storia.
Il quarto capitolo cerca di discutere sistematicamente il tema dei diritti
umani in una prospettiva filosofico-politica. Il che vuol dire riconoscere
che in alcune aree i diritti umani sono diritto positivo e in altre no, ma
al tempo stesso vuol dire che non ci si deve accontentare di questo livello
iniziale. Concedere ampio spazio all'interpretazione basata su principi alla
luce di un approccio etico-politico rappresenta il modo migliore per fare
qualcosa del genere. Ma, cosi' facendo, insorge il problema del pluralismo
culturale, che viene affrontato nella seconda parte del capitolo. A mio
avviso, il multiculturalismo, rettamente inteso, non e' antindividualista e
comunitarista. Presuppone al contrario il liberalismo e, in qualche modo, lo
invera. Il quinto capitolo verte sul tema della guerra, centrale per ogni
teoria delle relazioni internazionali. Questo capitolo parte dalla guerra in
Iraq, per condannare moralmente l'intervento americano. Il suo intento e'
pero' piu' generale, e consiste principalmente nell'applicare la teoria
generale presentata nella prima parte del volume alla questione della
guerra.
Sesto e settimo capitolo trattano questioni di base della comunita'
internazionale, a cominciare dallo statuto del capitalismo e dalla
possibilita' di darne una valutazione etica coerente con la teoria della
giustizia preferita. In particolare, il capitolo sesto tratta - in termini
di giustizia sociale - il tema ormai divenuto essenziale della
sostenibilita', che riguarda sia l'impresa singola sia il sistema economico
nel suo complesso. Il capitolo settimo si interroga sulla moralita' del
capitalismo a livello macro - partendo dai teoremi a livello micro -
dell'etica degli affari. La tesi di fondo che vi si sostiene e' che il
capitalismo non e' eticamente giustificabile in quest'ottica, anche se e'
legittimabile alla luce di una prospettiva di business ethics.
Gli ultimi due capitoli sono, a mio parere, solo apparentemente extravaganti
rispetto al tema principale. L'ottavo e il nono affrontano infatti questioni
inerenti ai diritti umani dell'ultima generazione, come qualcuno li chiama.
Il capitolo ottavo, in particolare, ritorna sul leitmotiv
legittimazione-giustificazione, per vedere come questo prenda senso, nel
dominio della genetica, nella sua prospettiva etico-politica. Il capitolo
nono discute, invece, i limiti e i problemi etici e sociali
dell'Intelligenza Artificiale.
*
Da pagina 22
La pensabilita' del mondo
"Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno,
il Duca D'Auge sali' in cima al torrione del suo castello per considerare la
situazione storica. La trovo' poco chiara" (da I fiori blu di Raymond
Queneau, traduzione italiana di Italo Calvino)
La situazione storica
Il mondo parzialmente globalizzato in cui viviamo e' un mondo complicato.
Talvolta anche contraddittorio. Al suo interno, l'impiego di Internet
convive con la pratica dell'infibulazione, la liberta' postcoloniale va a
braccetto con il ritorno di usi primitivi che sembravano ormai dimenticati,
la crescente presenza di donne emancipate non annulla le tradizioni basate
sulla differenza di genere sessuale, la nuova ricchezza prodotta fa
aumentare la forbice delle diseguaglianze, la scienza e la tecnica
assicurano progresso ma creano anche incubi da "Grande Fratello", la
telematica non vince l'ignoranza e l'analfabetismo, cosi' come il progresso
della medicina e quello della genetica non evitano l'impatto mortifero di
pestilenze neomedievali, il diffondersi della democrazia e del pacifismo non
cancella le tragedie della guerra e del genocidio, la fine del ricatto
atomico globale legato alla guerra fredda lascia spazio a uno scenario per
nulla rassicurante, popolato di crudeli guerre locali ed etniche. Come a
dire che la crescita economica, scientifica e democratica non si traduce
sistematicamente in maggiore benessere spirituale e materiale dell'intero
pianeta. Probabilmente siamo del tutto consapevoli di queste vicende, ma
sicuramente facciamo fatica a renderne conto in maniera coerente.
Si comprendono, cosi', le resistenze diffuse, emotive non meno che
intellettuali, a concepire un ordine mondiale dotato di senso e quindi
aperto all'analisi razionale. Queste resistenze animano a loro volta visioni
cupe e spesso anche sciatte dell'ordine mondiale, presentato talora come un
impero vagamente kafkiano in cui si aggirano personaggi postumani, magari
somiglianti agli eroi di Blade Runner e ai cyberpunk che animano i racconti
di William Gibson, o talaltra come una sorta di informe ectoplasma
postmoderno in cui il senso dell'essere rappresenta poco piu' che una
fastidiosa nostalgia da liquidare alla luce di una ragione cinica.
Misticismo in salse varie, autoritarismo, di destra o di sinistra non
importa, estetismo esotizzante, scientismo acritico, rivoluzionarismo da
weekend sono i frutti maturi di questa pigrizia concettuale che si
avvantaggia senza dubbio della difficolta' del compito.
Questo libro intende presentare una visione profondamente diversa
dell'ordine mondiale, una visione al cui interno l'analisi razionale non si
arrende alla complessita' dei problemi. Questo e' il senso de La
pensabilita' del mondo. Nelle pagine che seguono, prendo le mosse dal
paradigma dell'etica pubblica - che negli anni ho inaugurato e difeso - per
formulare una filosofia politica delle relazioni internazionali, il cui
scopo diretto e' evidentemente teorico, ma che non vuole essere per questo
estranea a conseguenze pratiche. La tesi centrale, nell'ambito di questa
teoria, sostiene che esiste un ordine mondiale, anche se un ordine debole e
parziale, che possiamo comprendere, e sulla cui base potremmo agire
sicuramente meglio di quanto non facciamo di solito.
Dal punto di vista del metodo, come vedremo nella seconda parte di questo
capitolo, la tesi sostanziale de La pensabilita' del mondo poggia sulla
non-riducibilita' reciproca di concetti fondamentali dell'analisi della
governanza globale, quali liberta', eguaglianza e identita'. L'illusione
che, partendo da uno solo di questi concetti, si possa spiegare l'insieme e'
destinata, a mio avviso, al fallimento. Piuttosto, essi vanno coerentemente
reinterpretati all'interno di un paradigma unitario di etica delle relazioni
internazionali. Questo paradigma implica, a sua volta, una rilettura
originale di alcune nozioni di base della teoria delle relazioni
internazionali come governanza, sovranita', globalizzazione e la stessa
etica.
Il fine intellettuale e pratico di questa teoria etica delle relazioni
internazionali - di cui si parla nella prima parte di questo capitolo e che
viene perseguito complessivamente nel libro - consiste nel collegare
l'ingiustizia socioeconomica al deficit liberaldemocratico, nello scenario
globale, in maniera diversa - e ovviamente, a mio avviso, piu' utile -
dall'usuale. Coniugare diritti e opportunita', equita' in materia di beni
primari e liberta' pubblica rappresenta, infatti, l'obiettivo abituale delle
teorie della giustizia sociale, cosi' come si sono sviluppate negli ultimi
trent'anni sulla scia dell'opera di John Rawls. Non c'e' dubbio che questo
libro continui a muoversi nell'orizzonte cosi' tracciato. Tuttavia, io
ritengo che, quando ci si sposta dall'ambito dello Stato-nazione a quello
della giustizia globale, una teoria normativa della giustizia debba fare i
conti con questioni parzialmente diverse e che, percio' stesso, debba
assumere forma e struttura differenti.
L'ordine mondiale parziale e debole, di cui si e' detto, non si costituisce
attraverso un processo costituzionale standard, e non procede dall'alto al
basso e dal centro alla periferia. Si costituisce piuttosto attraverso una
serie complessa di aggregazioni e assimilazioni di soggetti culturalmente e
strutturalmente diversi tra loro e da quelli che popolano la tradizione
della filosofia politica classica. La critica dell'ingiustizia, e cioe' il
cuore del programma di ricerca basato sull'etica pubblica, poggia percio' -
se abbiamo in mente lo scenario globale - sull'estensione graduale di
principi etici interculturali e non sull'imposizione centralistica di un
pacchetto eurocentrico di diritti e opportunita' a chi non li condivide per
ragioni di tradizione e civilta'. Da questo punto di vista, al centro
dell'etica pubblica rimane il liberalismo filosofico nella mia peculiare
versione. Ma questo liberalismo va, a mio avviso, interpretato in maniera
sui generis. Il liberalismo filosofico crea - in questa prospettiva - per
tutti noi obblighi morali anche al di fuori della comunita' politica
nazionale. E, proprio per cio', e' possibile estenderne il paradigma al tema
della giustizia globale. Ma al tempo stesso il tema della giustizia globale
ci costringe a mutare la struttura del liberalismo filosofico.
In questo modo, il nucleo normativo di una teoria della giustizia viene
modificato oltre quanto lo consentirebbe l'adozione di correttivi standard
della dottrina liberaldemocratica, come quelli del "liberalismo politico"
(Rawls) o della "democrazia deliberativa" (Habermas), in direzione di un
piu' profondo senso del pluralismo basato sull'identita' culturale. Questo
pluralismo e' convintamente multiculturale, partendo dall'idea che principi
di giustizia globale costituiscono una sorta di area di convergenza di
culture e identita' differenti nella prospettiva del valore politico. Che
una convinzione del genere risponda a esigenze di natura pratica e politica
rappresenta - a mio parere - un fatto evidente. Nella misura in cui non
siamo tanto interessati all'espansione di un impero, sia pure democratico,
quanto all'affermarsi di una societa' globale comprensibile e quindi
governabile, e' chiaro che dobbiamo prendere sul serio i percorsi
alternativi in cui differenti culture e civilta' costituiscono la loro
visione della giustizia. Che cio' non sia empiricamente facile, non dovrebbe
poi creare grandi problemi, essenzialmente per la mancanza di alternative
praticabili: all'ascolto degli altri si puo' sostituire solo l'imposizione
agli altri. Ma quest'ultima e', direi per definizione, proprio cio' che non
vogliamo, perlomeno se teniamo fermo il quadro liberaldemocratico di sfondo.
*
Riconoscimento identitario e principi normativi
Il punto non e' dunque, o almeno non e' principalmente, pratico. E'
piuttosto teorico. Il delicato equilibrio tra ragione normativa e tradizioni
culturali rischia di spezzarsi ogniqualvolta le tradizioni culturali
medesime vanno in direzione diversa, se non opposta, ai principi
teorico-normativi. Gli esempi possibili di questa ipotetica rottura sono
praticamente infiniti, e sono di solito esempi in cui per ragioni svariate
non ce la sentiamo di seguire fino in fondo gli esiti di tradizioni
culturali diverse dalla nostra, perche' tali esiti ci sembrano, a torto o a
ragione, orribili e comunque infrequentabili. Vorremmo, in altre parole,
avere botti piene e mogli ubriache, che poi, nel caso in questione,
significa condividere lo charme di un multiculturalismo politically correct
senza soffrirne gli ovvi limiti, per cui - pur essendo in linea di principio
pluralisti convinti - non ce la facciamo poi di fatto a tollerare il
trattamento abusivo delle donne da parte di qualche musulmano, la convivenza
di efficienza di tipo occidentale con i resti di "dispotismo orientale" in
Asia, o la sostituzione, nei programmi di letteratura, di Dante o
Shakespeare con i poeti dell'Africa Nera, che pure talvolta amiamo (anche
se, naturalmente, non bisogna far coincidere questo tipo di polemica con una
distinzione tra civilta'. La tolleranza, ci ha detto tra gli altri Amartya
Sen, ha antiche origini asiatiche e la pena di morte si pratica anche negli
Stati Uniti).
Simili conflitti tra generosi principi, da un lato, e atteggiamenti concreti
prudenti, dall'altro, fanno parte dell'esistenza vissuta e capitano -
suppongo - a molti. Ma per un filosofo rappresentano una sfida peculiare,
quasi un test irrinunciabile della serieta' della sua impresa teorica. Il
modo in cui questo libro raccoglie tale sfida consiste nel rivedere
sostanzialmente la teoria politica normativa, che dall'ambito dello Stato si
vuole estendere al sistema-mondo. La complessita' dei fenomeni, che sono
richiamati di solito sotto l'etichetta piu' o meno felice di
"globalizzazione", richiede necessariamente una revisione non di facciata
dell'impianto filosofico-politico che siamo abituati a maneggiare. Questa
revisione avviene, nel corso del libro, attraverso una congiunzione
strutturale tra due apparati teorici originariamente assai diversi tra loro,
e per alcuni - di sicuro - apparentemente incompatibili. Le categorie
etico-politiche squisitamente normative di liberta' ed eguaglianza - quelle
che caratterizzano le contemporanee teorie della giustizia - trovano un
limite, nel mio modello teorico, nei processi di identificazione che
costituiscono l'essenza delle costruzioni periferiche di identita'. A questi
processi va riconosciuta un'autenticita' e una verita' che la struttura
delle tradizionali teorie della giustizia non e' pronta a recepire. Alla
luce della categoria dell'identita', solo il riconoscimento attuale (nel
senso di wirklich) dei soggetti collettivi diversi, che insieme
costituiscono il sistema-mondo, legittima un forma storica di comunita'.
Cio', pero', non equivale a proclamare la validita' indifferente di tutti i
processi di identificazione locale. Questi possono, infatti, aspirare a una
certa legittimazione, qualora si svolgano secondo itinerari procedurali
ragionevoli e coerenti. Ma non per questo possono essere considerati
giustificabili. La validita' teorica, e quindi la giustificabilita'
filosofica delle diverse forme di riconoscimento identitario che si
presentano sullo scenario mondiale, dipende, infatti, a sua volta dalla
capacita' dei processi di identificazione di essere compatibili con gli
imperativi normativi di liberta' ed eguaglianza.
*
Da pagina 28
Il rilievo dell'identita' culturale - d'altra parte - e' abbastanza evidente
quando si pensa alle vicende piu' significative della recente politica
internazionale. Dal Ruanda al Medio Oriente e alla ex Jugoslavia, infatti,
il deflagrare di conflitti tragici e' apparso legato come non mai alle
vicende profonde del riconoscimento identitario. Il Rapporto delle Nazioni
Unite del 2004 sottolinea questo fatto in maniera convincente. Da questo
punto di vista - come ha sottolineato qualche anno fa l'"Economist" in un
ampio reportage dedicato alla geopolitica - il credere che le guerre, e piu'
in generale la competizione internazionale, siano basate su divergenze
economico-politiche di natura sistemica e' un errore che diviene evidente
non appena si ragioni nell'ambito di una prospettiva storica un po' piu'
vasta. I conflitti economico-sociali di un sistema politico caratterizzano,
infatti, solo una vicenda peculiare del "secolo breve" in una prospettiva
eurocentrica. Il Novecento europeo e nordatlantico ci ha forzato a credere
che questa vicenda costituisca la normalita' dei rapporti internazionali, ma
chiaramente cosi' non e'. Prima e dopo il cuore del Novecento, e sempre
fuori dai confini del primo mondo, la guerra e' nata per ragioni diverse da
queste, spesso ragioni religiose, etniche e culturali che e' facile far
rientrare nell'ambito dell'identita'.
*
Liberalismo critico e multiculturalismo
Lo sfondo teorico-politico de La pensabilita' del mondo poggia saldamente su
un retroterra democratico in un'interpretazione "liberal" (cioe' piu' o meno
socialdemocratica). Naturale quindi chiedersi in che senso questo orizzonte
liberaldemocratico cambia allorche' ci si pone dal punto di vista della
giustizia globale. In linea di massima, il mutamento del paradigma
liberaldemocratico e' duplice. Da un lato riguarda, infatti, la struttura
stessa della teoria politica liberaldemocratica, e dall'altro il rapporto
con lo sfondo delle teorie delle relazioni internazionali. Nella prima
prospettiva, si e' gia' visto come la questione della giustizia globale
forza uno spostamento di enfasi teorica e metodologica dall'individualismo
normativo in direzione di una visione istituzionalistica, sia pure sui
generis. Nel mio caso, il perno fondazionale, attorno a cui ruota la
versione preferita della liberaldemocrazia, e' costituito dal cosiddetto
"liberalismo critico", una tesi liberale, in cui il liberalismo funge da
sfondo teorico e la democrazia da strumento pratico per una coerente
realizzazione di un regime liberaldemocratico. In questo ambito, il
liberalismo critico presume una differenza sostanziale tra scelta e
preferenza, nel senso che le scelte effettive degli attori politici non
testimoniano, una volta e per tutte, le loro autentiche preferenze. Per
ragioni complesse, il menu delle scelte reali, entro cui avviene la
selezione effettiva di un comportamento politicamente significativo, puo'
essere ridotto oltre misura, e quindi la semplice registrazione della scelta
effettuata non equivale a preferenza plausibile.
In questo modo, il liberalismo critico accetta i meccanismi di scelta
collettiva, come il mercato e il voto, che da un punto di vista empirico
realizzano la priorita' della scelta tipicamente liberale, ma per cosi' dire
lo fa con riserva. Esiste uno spazio delle ragioni, entro il quale e'
possibile criticare le scelte effettive in nome di quelle idealizzate.
Questa possibilita' apre alla distinzione tra i concetti di
"legittimazione", che io leggo in chiave strettamente procedurale, e
"giustificazione", che invece viene vista in termini etico-sostanziali. Il
liberalismo critico non si scandalizza a interpretare alcuni fenomeni come
legittimati ma non giustificati, o viceversa. Cio' avviene ogniqualvolta la
correttezza delle procedure non corrisponde alla ragionevolezza morale
dell'esito decisionale. Quest'opzione presuppone una forte ipotesi normativa
in senso filosofico, e cioe' la possibilita' che una critica degli equilibri
realmente esistenti in nome di principi etico-politici, derivati dalla
teoria, sia fruttuosa. All'obiezione mossa da chi vede proprio in questo
spirito normativo un pericolo autoritaristico, insito nella teoria, il
liberalismo critico risponde con quello che io chiamo "principio di
separazione". Secondo il principio di separazione, un'ipotesi
teorico-politica ha come obiettivo non direttamente la prassi ma piu'
semplicemente l'arricchimento del menu di scelta di ognuno di noi. In altre
parole, il principio di separazione fa si' che la migliore tesi normativa
arricchisca l'intelligenza critica senza sacrificare la liberta' di scelta.
Spostato sullo scenario mondiale, il liberalismo critico deve affrontare il
problema del multiculturalismo, cioe' della difficolta' nel far valere gli
stessi principi fondamentali attraverso le culture. Indipendentemente da
come si interpreti il rapporto tra pluralismo, tipicamente liberale, e
multiculturalismo, non c'e' dubbio che esporre una teoria etico-politica a
un panorama multiculturale implichi una riduzione delle pretese normative
della teoria stessa. Cio' puo' essere fatto tramite una riduzione del lato
prettamente etico della teoria a favore di un'enfasi concessa agli aspetti
procedurali del modello. Quest'ultima e' all'incirca la soluzione prescelta
da Juergen Habermas. Oppure, puo' essere fatto tramite l'elaborazione di un
liberalismo piu' politico che morale, in cui la pratica del dissidio
intellettuale sia normalizzata alla luce di un interesse collettivo
permanente dei soggetti a rimanere entro i limiti di un conflitto
ragionevole, che consenta il perdurare di un duraturo "overlapping
consensus". Questo e' il nocciolo della tesi sostenuta da John Rawls. La
tesi, da me sostenuta, dell'integrazione pluralistica dal basso critica
entrambe queste soluzioni, giudicate insufficienti rispetto alla
complessita' del compito. E, come si e' gia' detto, propone una strategia
normativa piu' articolata, basata sostanzialmente su una dialettica
complessa centro-periferia.
(Parte prima - segue)

6. LIBRI. VANNA VANNUCCINI PRESENTA ALCUNE OPERE DI SCRITTRICI IRANIANE
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 25 maggio 2009 col titolo "Se le
scrittrici sfidano i mullah" e il sommario "Dalla Nafisi alla Djavann, le
donne raccontano soprusi e violenze. Iran, quei romanzi contro il silenzio.
Il fenomeno e' cominciato con Leggere Lolita a Teheran. Ora esce La muta:
l'autrice e' esule in Francia. Il passaggio dalla poesia alla prosa e' il
segno di una emancipazione. Il libro e' il diario di una quindicenne vittima
di una societa' chiusa e repressiva"]

"Tra pochi minuti m'impiccano, aiutatemi!". E' difficile non ricordare le
ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La
muta, il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi
ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un
coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una
storia di brutalita', disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una
sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah e' onnipotente.
Una impiccagione reale e' invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a
morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di
cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma
internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da
minorenni.
Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e la'
nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che
uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui
e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure
che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge e'
contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione
islamica la legge per la protezione della famiglia fu abolita e si torno'
alla sharia, che riduceva l'eta' per il matrimonio a nove anni, limitava il
diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e
imponeva a tutte il velo.
Ma l'Iran e' un paese di paradossi e uno di questi e' stata l'esplosione di
donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne
parteciparono, lottando per la giustizia e la liberta' senza neanche
immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella
teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz
Kar, con Shirin Ebadi una delle piu' importanti giuriste iraniane: "Con
tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano
quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la
parita' dei diritti era tra cio' che era loro dovuto. La richiesta di
parita' non viene piu' da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il
regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale
separazione tra Stato e religione".
"Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio", scrive Simin Behbahani,
la piu' famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems,
Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei
regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero.
Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva
scritto soprattutto poesie d'amore nella forma classica, anche se
modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la
prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente.
Il passaggio dalla lirica alla prosa e' anche la storia di una
emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario
privilegiato perche' con le sue metafore, i suoi simboli, era stata anche un
vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il
lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di
uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di
coloro che erano stati spinti all'esilio, mentre gli uomini spesso non
avevano altrettanto coraggio di affrontare la realta'. La sessualita' e'
ancora una linea rossa che non puo' essere superata, ma anche qui molte
scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza.
Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar
Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le
scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori piu' noti sono un
romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il
tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush
Parsipur, Forugh Farrokhzad (che provoco' uno scandalo per aver lasciato
figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta
di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di
se' per le piu' giovani: "Adesso sono/ in posizione da poter/ spaccare il
sole come fosse un melograno/ e con il succo farne inchiostro per la mia
penna...", (Fereshteh Sari, L'attimo, citato da Figlie di Shahrazad, di Anna
Vanzan, Bruno Mondadori, pp. 216, euro 18). In un blog ho letto di recente:
"I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il
loro onore. Chi sono io? Sono l'onore di mio fratello, mio padre, marito,
zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al
posto della mia fotografia metteranno una rosa, perche' la vista di una
donna puo' turbare un uomo...".

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 832 del 26 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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