La domenica della nonviolenza. 217



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 217 del 24 maggio 2009

In questo numero:
Un estratto da "Guida all'impero per la gente comune" di Arundhati Roy

LIBRI. UN ESTRATTO DA "GUIDA ALL'IMPERO PER LA GENTE COMUNE" DI ARUNDHATI
ROY
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo il seguente estratto dal libro di
Arundhati Roy, Guida all'impero per la gente comune, Guanda, Parma 2003 (ed.
orig.: Come September, The Loneliness of Noam Chomsky, Confronting Empire,
... 2002). E' il testo di un intervento del 18 settembre 2002; come accade
sovente in questo tipo di interventi di denuncia ed esortazione vi sono
anche alcune ingenuita', forzature, semplificazioni, imprecisioni ed errori;
ovviamente conta il senso complessivo (p. s.)]

Indice del volume
Prima parte: Settembre alle porte; La solitudine di Noam Chomsky;
Contrastare l'impero; Guida all'impero per la gente comune; Democrazia
imperiale pronta all'uso (paghi uno prendi due); Seconda parte: La
democrazia in casa nostra; Rumori di guerra: giochi estivi con le bombe
nucleari; Ahimsa (nonviolenza); Note.
*
Da pagina 7
Settembre alle porte
Gli scrittori pensano di scegliere le loro storie dal mondo. Io mi sto
convincendo che sia la vanita' a farglielo credere. Succede esattamente il
contrario. Sono le storie a scegliere gli scrittori. Sono le storie che si
rivelano a noi. Le storie pubbliche e le storie private ci colonizzano, ci
affidano incarichi, insistono per farsi narrare. Il romanzo o il saggio sono
solo tecniche diverse per raccontare una storia. Per ragioni che non
comprendo fino in fondo, nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo.
Il saggio, invece, nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi
sveglio ogni mattina.
Una buona parte di quello che scrivo, nella forma narrativa o saggistica,
riguarda il rapporto fra potere e impotenza, e il conflitto infinito,
circolare, che questi due elementi ingaggiano. John Berger, autore
straordinario, ha scritto: "Mai piu' verra' raccontata una storia come se
fosse l'unica".
Non c'e' mai un'unica storia. Ci sono solo modi di vedere. Percio', quando
racconto una storia, non la racconto come un ideologo che contrappone
un'ideologia assoluta a un'altra, ma come un cantastorie che vuole
condividere con gli altri il suo modo di intendere il mondo. Anche se puo'
sembrare il contrario, quello che scrivo in realta' non parla dei paesi e
della loro storia, ma del potere. Della paranoia e della spietatezza del
potere. Della fisica del potere. Credo che dalla concentrazione di poteri
vasti e senza vincoli nelle mani di uno stato o di un paese, di una
multinazionale o di un'istituzione - o anche di un individuo, un coniuge, un
amico o un fratello quale che sia la sua ideologia, derivino abusi, come
quelli di cui vi diro' qui.
Vivendo, come milioni di noi, sotto la minaccia dell'olocausto nucleare che
i governi dell'India e del Pakistan continuano a promettere ai loro
cittadini plagiati, e nel distretto globale della guerra al terrorismo (che
il presidente Bush definisce piuttosto biblicamente "il compito che non ha
fine"), penso molto al rapporto fra i cittadini e lo stato.
In India, chi di noi e' intervenuto sostenendo le proprie opinioni sulle
bombe nucleari, sulle grandi dighe, sulla globalizzazione neoliberista e la
crescente minaccia del fascismo indu' - opinioni in contrasto con quelle del
governo indiano - e' stato bollato come "antipatriottico". Anche se
quest'accusa non mi riempie di sdegno, non e' una definizione esatta di
quello che faccio o di quello che penso. Una persona antipatriottica e'
ostile al suo paese e quindi favorevole a un altro. Ma non e' necessario
essere antipatriottici per nutrire un profondo sospetto nei confronti di
tutti i nazionalismi, per essere antinazionalisti. Il nazionalismo, a
prescindere da come si e' manifestato, e' stato la causa di gran parte dei
genocidi del XX secolo. Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i
governi usano prima come pellicola per avvolgervi ben bene la mente delle
persone e poi come sudari cerimoniali per avvolgervi i morti. Quando le
persone indipendenti, abituate a ragionare con la propria testa (e qui non
includo i media delle multinazionali), cominciano a marciare sotto le
bandiere; quando scrittori, pittori, musicisti, registi sospendono il
giudizio e mettono ciecamente la loro arte al servizio della "nazione", per
tutti noi e' arrivato il momento di scuotersi e iniziare a preoccuparsi. In
India abbiamo assistito allo sventolio di bandiere subito dopo i test
nucleari del 1998 e nel 1999 durante la guerra di Kargil contro il Pakistan.
Negli Stati Uniti lo abbiamo visto durante la guerra del Golfo e adesso, in
occasione della "guerra al terrorismo": un'infinita' di bandiere americane
"made in China".
Recentemente, chi ha criticato le azioni del governo statunitense (compresa
la sottoscritta) e' stato definito antiamericano. L'antiamericanismo e' in
via di consacrazione come ideologia. Il termine "antiamericano" di solito e'
usato dall'establishment americano per screditare e per definire, se non
ingannevolmente, quanto meno in modo improprio, i suoi critici. Quando
qualcuno e' bollato di antiamericanismo, e' facile che sia giudicato ancor
prima di essere ascoltato, con la conseguenza che i suoi argomenti si
perdono nel brusio sollevato dall'orgoglio nazionale ferito.
Qual e' il significato del termine "antiamericano"? Significa opporsi al
jazz? Oppure alla liberta' di parola? Significa non apprezzare Toni Morrison
o John Updike? Significa detestare le gigantesche sequoie? Significa non
ammirare le centinaia di migliaia di cittadini americani che hanno marciato
contro le armi nucleari, o le migliaia di pacifisti che costrinsero il loro
governo a ritirarsi dal Vietnam? Significa odiare tutti gli americani?
Questa maliziosa confusione tra la cultura, la musica e la letteratura
americane, tra la bellezza mozzafiato del paese, tra gli ordinari piaceri
della gente comune e le critiche alla politica estera del governo
statunitense (di cui purtroppo, grazie alla "stampa libera" americana, la
maggior parte degli americani sa ben poco), corrisponde a un disegno
deliberato ed estremamente efficace. E' come se un esercito in ritirata si
rifugiasse in una citta' densamente popolata nella speranza che il nemico,
temendo di colpire bersagli civili, non apra il fuoco.
Ci sono molti americani che si risentirebbero nel vedersi identificati con
il loro governo. Le critiche piu' circostanziate, incisive e beffarde
all'ipocrisia e alle contraddizioni della politica del governo statunitense
provengono da cittadini americani. Quando il resto del mondo si chiede cosa
ha in mente il governo di Washington, le risposte gliele forniscono Noam
Chomsky, Edward Said, Howard Zinn, Ed Herman, Amy Goodman, Michael Albert,
Chalmers Johnson, William Blum e Anthony Arnove.
Allo stesso modo, in India, non centinaia, ma milioni di persone si
vergognerebbero e si sentirebbero offese nel vedersi accomunate in qualunque
modo alle politiche fasciste dell'attuale governo, il quale, oltre a
praticare, in nome della lotta al terrorismo, il terrorismo di stato nella
valle del Kashmir, ha finto di non vedere i pogrom contro i musulmani del
Gujarat, attuati sotto l'attenta regia di quello stato. Sarebbe assurdo
pensare che chi critica il governo indiano e' antindiano, anche se lo stesso
governo e' pronto a sostenerlo. E' pericoloso concedere al governo indiano o
al governo americano o a chiunque altro il diritto di dire cosa sono l'India
o l'America, o cosa dovrebbero essere.
Se si definisce qualcuno antiamericano, se lo si accusa di essere
antiamericano (o antindiano o antiafricano), non solo si manifesta il
proprio razzismo, ma anche ottusita', un'incapacita' di interpretare il
mondo diversamente da come l'establishment ha deciso per noi: se non sei un
seguace di Bush, sei un taliban; se non ci ami, ci odi; se non sei buono,
sei malvagio; se non sei con noi, sei con i terroristi.
L'anno scorso, come molti altri, ho fatto anch'io l'errore di sottovalutare
il profluvio retorico seguito all'11 settembre, liquidandolo come stupido e
arrogante. Mi sono poi resa conto che non e' affatto stupido. In realta' e'
un astuto sistema di reclutamento per una guerra sbagliata e pericolosa.
Ogni giorno resto sbigottita nel constatare quante siano le persone convinte
che opporsi alla guerra in Afghanistan e' come appoggiare il terrorismo o
votare per i taliban. Ora che l'obiettivo iniziale della guerra - catturare
Osama bin Laden, vivo o morto - sembra irraggiungibile, e' stato aggiustato
il tiro. Si lascia intendere che lo scopo della guerra fosse quello di
rovesciare il regime dei taliban e liberare le donne afghane dal burqa.
Vogliono farci credere che i marines americani siano impegnati in una
missione femminista. Se e' cosi', quale sara' la loro prossima tappa, la
loro alleata Arabia Saudita? Provate a rifletterci. In India esistono alcune
pratiche sociali riprovevoli, contro gli "intoccabili", contro cristiani e
musulmani, contro le donne. In Pakistan e in Bangladesh vi sono modi ancora
peggiori di trattare le minoranze e le donne. Dovrebbero essere bombardati?
Dovrebbero essere rase al suolo New Delhi, Islamabad e Dhaka? E' mai
possibile estirpare il fanatismo dall'India a forza di bombe? Potremo mai,
con le bombe, aprirci la strada verso un paradiso femminista? E' in questo
modo che le donne hanno conquistato il voto negli Stati Uniti? O che e'
stata abolita la schiavitu'? Potremo mai ottenere un risarcimento per il
genocidio dei milioni di nativi americani sulle cui spoglie sono stati
fondati gli Stati Uniti bombardando Santa Fe'?
Nessuno di noi ha bisogno di anniversari per ricordare quello che non si
puo' dimenticare. E' per pura coincidenza, quindi, che mi trovo qui, negli
Stati Uniti, a settembre, un mese di spaventose ricorrenze. Al primo posto
nei nostri pensieri, soprattutto qui in America, c'e' l'orrore ormai
conosciuto come "11 settembre". In quel micidiale attacco terroristico
trovarono la morte quasi tremila civili. Il dolore e' ancora profondo. La
rabbia ancora intensa. Le lacrime non si sono ancora asciugate. E una guerra
strana, terribile, sta infuriando nel mondo. Eppure, chiunque abbia perso
una persona amata sa che il proprio dolore non sara' lenito da nessuna
guerra, da nessun atto di vendetta, da nessuna bomba sganciata sui parenti o
i figli altrui; niente potra' restituirgli i suoi cari. La guerra non puo'
vendicare i morti. La guerra e' solo una crudele profanazione della loro
memoria.
Il dolore viene sminuito, si svuota di significato, se lo si usa cinicamente
per confezionare programmi televisivi sponsorizzati da detersivi e scarpe da
tennis che vanno ad alimentare l'ennesima guerra (ora contro l'Iraq). Stiamo
assistendo a una volgare esibizione del commercio del dolore, al saccheggio
dei piu' intimi sentimenti umani a scopi politici. E' una cosa terribile e
violenta che uno stato fa ai suoi cittadini.
Non e' un argomento molto brillante da affrontare in un incontro pubblico,
ma cio' di cui vorrei parlarvi e' la perdita. La perdita e il perdere. Il
dolore, il fallimento, lo scoramento, l'insensibilita', l'incertezza, la
paura, la morte dei sentimenti, la morte dei sogni. L'assoluta, implacabile,
infinita, abituale ingiustizia del mondo. Cosa significa la perdita per un
individuo? Cosa significa per intere culture, per interi popoli che hanno
imparato a conviverci come con una compagna fedele?
Dal momento che stiamo parlando dell'11 settembre, forse e' giusto ricordare
cosa significa questa data non solo per chi vi ha perso i suoi cari, ma per
le persone di altre parti del mondo che gia' da tempo le attribuivano un
significato particolare. Questa panoramica storica non vuole essere un atto
di accusa, ne' una provocazione. Serve a condividere il dolore della storia.
A diradare un po' la nebbia. A dire ai cittadini americani nel modo piu'
delicato e umano: benvenuti nel mondo. In Cile, l'11 settembre 1973 il
generale Pinochet rovescio' il governo democraticamente eletto di Salvador
Allende con un golpe appoggiato dalla Cia. "Non bisognerebbe permettere al
Cile di diventare marxista solo perche' il suo popolo e' irresponsabile"
disse Henry Kissinger, allora consigliere per la Sicurezza nazionale del
presidente Nixon.
Dopo il colpo di stato, il corpo di Allende fu rinvenuto privo di vita
dentro il palazzo presidenziale. Non sappiamo se Allende fu assassinato o si
tolse la vita; non lo sapremo mai. Nel regime di terrore che segui', furono
eliminate migliaia di persone. Molti semplicemente "sparirono". Vennero
compiute esecuzioni pubbliche. Il paese si riempi' di campi di
concentramento e camere di tortura. I cadaveri vennero seppelliti dentro i
pozzi delle miniere e in ignote fosse comuni. Per piu' di sedici anni il
popolo cileno visse nel terrore di essere svegliato nel cuore della notte,
nel terrore delle quotidiane sparizioni, degli improvvisi arresti e delle
torture.
Nel 2000, dopo l'arresto del generale Pinochet in Gran Bretagna, il governo
statunitense declassifico' migliaia di documenti segreti. Contenevano prove
inconfutabili del coinvolgimento della Cia nel colpo di stato e del fatto
che il governo americano disponeva di informazioni dettagliate sulla
situazione in Cile durante il regime di Pinochet. Eppure Kissinger assicuro'
al generale il suo appoggio: "Negli Stati Uniti, come sa, guardiamo con
simpatia a quello che lei sta cercando di fare" gli disse. "Auguriamo al suo
governo ogni bene".
Chi di noi ha vissuto in una democrazia, per quanto malata, fatica a
immaginare come si possa vivere sotto una dittatura e sopportare la perdita
totale della liberta'. Pinochet dovrebbe rispondere non solo delle persone
assassinate, ma anche della vita rubata ai sopravvissuti. Purtroppo, il Cile
non fu l'unico paese latinoamericano al quale il governo statunitense
dedico' le sue attenzioni. Guatemala, Costa Rica, Ecuador, Brasile,
Repubblica Dominicana, Bolivia, Nicaragua, Honduras, Panama, El Salvador,
Peru', Messico e Colombia sono stati gli scenari nei quali la Cia ha agito
con operazioni palesi o occulte. Centinaia di migliaia di latinoamericani
sono stati uccisi, torturati, oppure trasformati semplicemente in
desaparecidos sotto regimi dispotici, per opera di dittatori di cartapesta e
di trafficanti di droga e di armi che godevano di complicita' e sostegni
all'estero. Molti di essi compirono il loro apprendistato nella famigerata
School of Americas di Fort Benning, Georgia, fondata dal governo degli Stati
Uniti; a quella scuola si formarono in 60.000. Gia' sufficientemente
umiliato, il popolo sudamericano ha dovuto subire anche l'infamia di essere
definito incapace di democrazia, come se colpi di stato e massacri
albergassero nel suo Dna.
Ma nella lista dovremmo includere anche i paesi africani e asiatici che
hanno subito l'intervento militare statunitense, tra cui Somalia, Vietnam,
Corea, Indonesia, Laos e Cambogia. Durante quanti mesi di settembre, per
quanti decenni, milioni di asiatici sono stati bombardati, bruciati e
massacrati? Quante volte e' arrivato settembre dall'agosto 1945, quando
centinaia di migliaia di giapponesi vennero annientati dall'attacco nucleare
su Hiroshima e Nagasaki? Per quanti mesi di settembre gli sfortunati
sopravvissuti a quell'attacco hanno dovuto scontare le conseguenze
dell'inferno che gli cadde addosso, e con loro i figli che gli nacquero, e i
nipoti, la terra, il cielo, il vento, l'acqua e tutte le specie che nuotano
e camminano, strisciano e volano? Non lontano da qui, ad Albuquerque, c'e'
il National Atomic Museum, dove "Fat Man" e "Little Boy" (questi gli
affettuosi nomignoli dati alle bombe che vennero gettate su Hiroshima e
Nagasaki) sono venduti sotto forma di orecchini. Li indossano i ragazzi, un
massacro per ciascun orecchio. Ma mi sto smarrendo, e' di settembre che
stiamo parlando, non certo di agosto.
La data dell'11 settembre risuona tragica anche in Medio Oriente. L'11
settembre 1922, ignorando lo sdegno arabo, il governo britannico proclamo'
un mandato sulla Palestina; faceva seguito alla Dichiarazione Balfour che
l'Inghilterra imperiale aveva emanato nel 1917, con il suo esercito
ammassato alle porte della citta' di Gaza. La Dichiarazione Balfour
prometteva ai sionisti europei "una patria per il popolo ebraico". L'impero
sul quale non tramontava mai il sole era allora libero di arraffare e
dispensare patrie, come i bulli a scuola le biglie di vetro. Due anni dopo
la Dichiarazione, Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, disse: "In
Palestina non ci ripromettiamo nemmeno di procedere a una consultazione per
verificare quali siano le aspirazioni degli attuali abitanti del paese. Il
sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo che sia, e' radicato in
antiche tradizioni, in esigenze attuali e in speranze future di importanza
molto piu' profonda delle aspettative e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che
oggi popolano questa antica terra".
Con quanta indifferenza il potere imperiale decretava quali aspirazioni
fossero profonde e quali no. Con quanta indifferenza giudicava antiche
civilta'. La Palestina e il Kashmir sono piaghe purulente dell'impero
britannico, doni insanguinati al mondo moderno. Sono linee di faglia degli
odierni, furibondi conflitti internazionali. Nel 1937 Winston Churchill
diceva dei palestinesi: "Non credo che il cane del fattore abbia diritti
sulla mangiatoia, nemmeno se e' li' da molto tempo. Non riconosco questo
diritto. Non condivido, per esempio, l'idea che ai pellerossa d'America o ai
neri d'Australia sia stato fatto un grande torto. Non credo che si possa
affermare che e' stato fatto un torto a questi popoli solo perche' una razza
piu' forte, piu' progredita, una razza... mettiamola cosi', piu' esperta e
piu' navigata, e' arrivata e ha preso il loro posto".
Cosi' venne stabilito il principio sul quale si e' basato il comportamento
israeliano verso i palestinesi. Nel 1969, il primo ministro Golda Meir
affermo': "I palestinesi non esistono". Il suo successore, il primo ministro
Levi Eshkol, disse: "Dove sono i palestinesi? Quando arrivai qui c'erano
250.000 non ebrei, in gran parte arabi e beduini. Era un deserto meno che
sottosviluppato. Il nulla". Il primo ministro Menahem Begin defini' i
palestinesi "bestie a due gambe". Il primo ministro Yitzhak Shamir li
defini' "cavallette da schiacciare". Questo e' il linguaggio dei capi di
stato, non della gente comune. Nel 1947 le Nazioni Unite divisero
ufficialmente il territorio della Palestina, assegnandone il 55 per cento ai
sionisti. Tempo un anno e questi ne avevano conquistato piu' del 76 per
cento. Il 14 maggio 1948 nacque lo stato di Israele. Pochi minuti dopo la
proclamazione, gli Stati Uniti riconobbero il nuovo stato. La Cisgiordania
fu annessa dalla Giordania. La Striscia di Gaza fini' sotto il controllo
militare dell'Egitto. Formalmente la Palestina cesso' di esistere, tranne
che nella mente e nel cuore di centinaia di migliaia di profughi
palestinesi.
Nell'estate del 1967 Israele occupo' la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Ai coloni furono offerti assistenza e sussidi statali perche' si
trasferissero nei territori occupati. Da allora quasi ogni giorno altre
famiglie palestinesi sono costrette a lasciare la loro terra e sono spinte
nei campi profughi. I palestinesi che vivono in Israele non hanno gli stessi
diritti degli israeliani e vivono come cittadini di serie B nella loro
patria di un tempo.
Per decenni si sono susseguite rivolte, guerre, "intifade". Migliaia di
persone hanno perso la vita. Sono stati firmati accordi e trattati, sono
state dichiarate e violate tregue. Ma lo spargimento di sangue non si e'
interrotto. La Palestina resta ancora occupata illegalmente. La sua gente
vive ancora in condizioni inumane, in veri e propri ghetti, dove e' soggetta
a punizioni collettive e a ininterrotti coprifuoco, dove e' quotidianamente
umiliata e brutalizzata. I palestinesi non sanno quando le loro case
verranno demolite, i loro bambini fatti segno dal fuoco, i loro preziosi
alberi tagliati, le loro strade chiuse, quando gli sara' concesso di uscire
per comprare cibo e medicine, o quando gli sara' impedito. Vivono senza uno
straccio di dignita'. Con poche speranze. Non controllano le loro terre, gli
apparati di sicurezza, le strade, i mezzi di comunicazione, gli acquedotti.
E cosi' quando vengono firmati gli accordi e pronunciate parole come
"autonomia", o perfino "stato", viene da chiedersi: che genere di autonomia,
che tipo di stato, che razza di diritti avranno i suoi cittadini?
I giovani palestinesi che non sanno frenare la rabbia si trasformano in
bombe umane e imperversano nelle strade e nei locali pubblici israeliani,
facendosi saltare in aria, uccidendo gente comune, seminando il terrore
nella vita quotidiana e alimentando il sospetto e l'odio reciproco nelle due
societa'. Ogni attentato suscita una spietata rappresaglia e causa ulteriori
sofferenze al popolo palestinese. Ma gli attentati suicidi sono un atto di
disperazione individuale, non una tattica rivoluzionaria. Se gli attacchi
palestinesi seminano il terrore fra i civili israeliani, forniscono anche il
paravento ideale per le incursioni quotidiane del governo di Israele nei
territori palestinesi, il pretesto ideale per il vecchio colonialismo
mascherato da guerra del XXI secolo.
Il piu' fedele alleato politico e militare di Israele e' sempre stato il
governo degli Stati Uniti; insieme a Israele ha vanificato quasi tutte le
risoluzioni dell'Onu rivolte a trovare una soluzione equa e pacifica al
conflitto; ha sostenuto quasi tutte le guerre che Israele ha combattuto.
Quando Israele attacca la Palestina, sono i missili americani ad abbattersi
sulle case palestinesi. E ogni anno Israele riceve parecchi miliardi di
dollari dagli Usa. In aggiunta ai tre miliardi e passa di dollari di aiuti
militari, il governo degli Stati Uniti sostiene Israele attraverso
l'assistenza economica, i prestiti, la tecnologia, il commercio di armi.
Quale lezione dovremmo trarre da questo tragico conflitto? E' veramente
impossibile per gli ebrei, che hanno sofferto tanto - molto piu', forse, di
qualsiasi altro popolo - capire la fragilita' e le aspirazioni di quelli che
hanno disperso? La sofferenza estrema accende sempre la crudelta'? Che
speranza puo' lasciare tutto questo all'umanita'? Cosa succederebbe al
popolo palestinese se si affermasse il suo disegno? Quando una nazione senza
stato ne proclama finalmente uno, che razza di stato nasce? Quali orrori
saranno commessi sotto la sua bandiera? E' per uno stato autonomo che
dobbiamo combattere, o per il diritto a una vita libera e decorosa per
tutti, indipendentemente dall'appartenenza etnica e dalla religione?
La Palestina un tempo era un baluardo della laicita' in Medio Oriente. Ma
ora la debole, autoritaria, indubbiamente corrotta eppure non settaria
Organizzazione per la liberazione della Palestina sta perdendo terreno nei
confronti di Hamas, che sostiene un'ideologia apertamente settaria e
combatte in nome dell'Islam. Citiamo dal suo statuto: "Noi saremo i suoi
soldati e la legna da ardere del fuoco che brucera' i nemici".
Il mondo e' chiamato a condannare gli attentatori suicidi. Ma possiamo
ignorare il lungo viaggio che hanno compiuto prima di giungere a questa
destinazione? Dall'11 settembre 1922 all'11 settembre 2002: per una guerra,
ottant'anni sono fin troppi. Ci sono consigli che il mondo puo' dare al
popolo della Palestina? Qualche brandello di speranza che possiamo
offrirgli? Deve accontentarsi delle briciole che gli vengono gettate e
comportarsi come le cavallette o le bestie a due gambe alle quali e' stato
accostato? Deve accettare i suggerimenti di Golda Meir e mettercela tutta
per scomparire dalla faccia della terra?
In un'altra area del Medio Oriente l'11 settembre tocca una ferita aperta da
poco. L'11 settembre 1990 George Bush senior, allora presidente degli Usa,
tenne un discorso davanti al Congresso riunito in seduta congiunta per
annunciare la decisione del suo governo di dichiarare guerra all'Iraq.
Il governo statunitense affermo' che Saddam Hussein era un criminale di
guerra, un crudele despota militare che si era macchiato di genocidio contro
il suo stesso popolo. Si trattava di una descrizione piuttosto accurata del
personaggio. Nel 1988 Saddam Hussein aveva raso al suolo centinaia di
villaggi nell'Iraq settentrionale e aveva usato le armi chimiche e
l'artiglieria per uccidere migliaia di curdi. Oggi sappiamo che nello stesso
anno il governo statunitense gli aveva fornito 500 milioni di dollari per
acquistare prodotti agricoli americani. L'anno dopo, nel 1989, quando Saddam
aveva vittoriosamente portato a compimento la sua campagna genocida, il
governo Usa gli raddoppio' gli aiuti portandoli a un miliardo di dollari.
Gli forni' anche batteri di antrace di ottima qualita', elicotteri e altri
equipaggiamenti utili a produrre armi chimiche e biologiche.
Ora sappiamo che, mentre Saddam Hussein stava commettendo le sue peggiori
atrocita', i governi degli Usa e del Regno Unito erano suoi stretti alleati.
Ancora oggi il governo della Turchia, che per quanto riguarda le violazioni
dei diritti umani ha precedenti raccapriccianti, e' uno dei maggiori alleati
del governo americano. Il fatto che il governo turco abbia per anni oppresso
e sterminato il popolo curdo non ha impedito al governo americano di
imbottire la Turchia di armi e di aiuti. Quindi non era stata la
preoccupazione per il popolo curdo a provocare il discorso del presidente
Bush davanti al Congresso. Cos'era stato?
Nell'agosto del 1990 Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait. Il suo peccato
non era tanto quello di aver commesso un atto di guerra, ma di aver agito
autonomamente, senza prendere ordini dai suoi padroni. Questa manifestazione
di indipendenza basto' a sconvolgere l'equilibrio del potere nel Golfo. E
cosi' fu deciso che Saddam Hussein doveva essere soppresso, come un
cagnolino sopravvissuto al padrone.
Il primo attacco alleato contro l'Iraq ebbe inizio nel gennaio 1991. Il
mondo segui' la guerra in prima serata sugli schermi della tv. In India in
quei giorni i programmi della Cnn si potevano seguire solo negli alberghi di
lusso. In un mese di bombardamenti devastanti furono uccise decine di
migliaia di persone. Quello che molti non sanno e' che la guerra non fini'
allora. La furia iniziale si dilui', trasformandosi nel piu' lungo attacco
aereo contro un paese dai tempi della guerra del Vietnam. Nell'ultimo
decennio le forze americane e britanniche hanno lanciato migliaia di missili
e di bombe sull'Iraq. Il territorio iracheno e i suoi campi agricoli sono
stati bombardati con migliaia di tonnellate di bombe, anche ad uranio
impoverito. Durante i loro raid aerei, gli "alleati" hanno colpito e
distrutto impianti di depurazione dell'acqua, consci del fatto che non
avrebbero potuto essere riparati senza l'assistenza estera. Nel sud
dell'Iraq, la diffusione dei tumori tra i bambini e' quadruplicata. Nel
decennio di sanzioni economiche successivo alla guerra, i civili iracheni si
sono visti negare cibo, medicinali, apparecchiature ospedaliere, ambulanze,
acqua potabile: le cose piu' essenziali.
A causa delle sanzioni, mezzo milione di bambini ha perso la vita. Di loro
Madeleine Albright, ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite,
disse: "Credo che sia una scelta difficile, ma ne vale la pena". Chi ha
criticato la guerra in Afghanistan e' stato tacciato di "relativismo
morale". Madeleine Albright non puo' essere accusata di relativismo morale;
le sue affermazioni si devono a schietta algebra.
Un decennio di bombardamenti non e' riuscito tuttavia a far sloggiare Saddam
Hussein, la "belva di Baghdad". Circa dodici anni dopo, il presidente George
W. Bush ricicla quella retorica. Propone una guerra totale il cui obiettivo
e' addirittura un cambiamento di regime. Sul "New York Times" si legge che
l'amministrazione Bush sta "seguendo una strategia meticolosamente
pianificata per convincere l'opinione pubblica, il Congresso e gli alleati
della necessita' di scongiurare la minaccia di Saddam Hussein". Andrew Card,
il capo dello staff presidenziale, ha spiegato come l'amministrazione
sviluppava i piani di guerra per l'autunno: "Se consideriamo il marketing,
e' meglio non lanciare nuovi prodotti ad agosto". Questa volta lo slogan per
promuovere i "nuovi prodotti" di Washington non fa leva sui problemi dei
kuwaitiani ma sull'affermazione che l'Iraq dispone di armi di distruzione di
massa. Dimentichiamo "l'inconcludente moralismo delle 'lobby della pace'" ha
scritto Richard Perle, capo del Defense Policy Board; gli Stati Uniti
agiranno "da soli se necessario" e ricorreranno a un "attacco preventivo" se
sara' nei loro interessi.
I rapporti degli ispettori dell'Onu sulle armi di distruzione di massa
dell'Iraq sono contraddittori; molti ispettori hanno detto chiaramente che
l'arsenale di Saddam e' stato smantellato e che il paese non e' in grado di
costruirne un altro. In compenso non ci sono dubbi sull'entita' e sulla
portata dell'arsenale di armi nucleari e chimiche dell'America. Il governo
statunitense accoglierebbe eventuali ispezioni? Lo farebbero la Gran
Bretagna o Israele?
Ma anche se l'Iraq avesse l'arma nucleare, sarebbe giustificato un attacco
preventivo americano? Gli Stati Uniti hanno il piu' grande arsenale di armi
nucleari del mondo. Sono l'unico paese al mondo ad averlo usato contro
popolazioni civili. Se gli Stati Uniti hanno il diritto di lanciare un
attacco preventivo contro l'Iraq, allora ogni potenza nucleare ha il diritto
di attaccare preventivamente altri paesi. L'India potrebbe attaccare il
Pakistan e viceversa. Se il governo degli Stati Uniti sviluppa un'avversione
per il primo ministro indiano, puo' liquidarlo con un attacco preventivo?
Recentemente gli Stati Uniti hanno avuto un importante ruolo nello spingere
India e Pakistan sull'orlo della guerra. Gli costa molto farsi i fatti
propri? Chi e' colpevole di inconcludente moralismo? Chi invoca la pace
mentre prepara la guerra? Gli Stati Uniti, che George W. Bush definisce "un
paese pacifico", sono stati in guerra con una nazione o un'altra per ognuno
degli ultimi cinquant'anni.
Le guerre non sono mai combattute per ragioni altruistiche. Di solito a
provocarle sono la volonta' egemonica e gli interessi economici. E poi
naturalmente c'e' l'affare costituito dalla guerra stessa. Per gli Stati
Uniti e' fondamentale rafforzare il controllo sulle riserve mondiali di
petrolio. I recenti interventi militari americani nei Balcani e in Asia
centrale hanno a che fare con il petrolio. Sembra che Hamid Karzai, il
presidente marionetta insediato dagli Usa alla guida dell'Afghanistan, sia
stato un dipendente dell'Unocal, una societa' petrolifera con sede negli
Stati Uniti. Il paranoico pattugliamento del Medio Oriente da parte del
governo statunitense e' dovuto al fatto che la regione dispone dei due terzi
delle riserve petrolifere mondiali. Il petrolio permette ai motori americani
di ronzare dolcemente. Il petrolio permette al libero mercato di funzionare.
Chi controlla il petrolio mondiale controlla il mercato mondiale.
E come si controlla il petrolio? Nessuno lo ha detto con piu' eleganza di
Thomas Friedman, editorialista del "New York Times". In un articolo spiega
che "gli Stati Uniti devono rendere chiaro all'Iraq e ai loro alleati che
[...] l'America usera' la forza senza negoziati, senza esitazioni e senza
l'approvazione dell'Onu". Il suo consiglio e' stato seguito, nelle guerre
contro l'Iraq e l'Afghanistan cosi' come nelle umiliazioni pressoche'
quotidiane che il governo statunitense infligge alle Nazioni Unite. Nel suo
libro sulla globalizzazione, Le radici del futuro, Friedman scrive: "La mano
invisibile del mercato non funzionera' mai senza un pugno invisibile.
McDonald's non puo' prosperare senza McDonnell Douglas [...]. E il pugno
invisibile che garantisce la sicurezza del mondo e delle tecnologie della
Silicon Valley si chiama esercito, aeronautica, marina e corpo dei marines
degli Stati Uniti".
Forse questa frase e' dovuta a un eccesso di franchezza, ma e' sicuramente
la descrizione piu' sintetica e precisa del progetto di globalizzazione
neoliberista che abbia mai letto.
Dopo l'11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, la mano e il pugno
invisibili sono venuti allo scoperto e ora abbiamo una chiara visione
dell'altra arma dell'America, il libero mercato, che si abbatte sul mondo in
via di sviluppo esibendo il suo sorriso stiracchiato. Il "compito che non ha
fine" e' la guerra perfetta dell'America, il veicolo adatto all'infinita
espansione dell'imperialismo americano. In urdu faeda vuol dire "profitto";
qaeda vuol dire invece "parola, parola di Dio, legge". Percio' in India
alcuni di noi hanno ribattezzato la guerra al terrorismo "al Qaeda contro al
Faeda", "la parola contro il profitto" (ogni riferimento alla famigerata al
Qaeda e' puramente casuale). Per il momento sembra che al Faeda sia
destinata ad avere la meglio. Ma non si puo' mai dire. Negli ultimi dieci
anni di sfrenata globalizzazione neoliberista, il reddito totale del mondo
e' aumentato in media del 2,5 per cento all'anno. Eppure il numero dei
poveri e' aumentato di cento milioni. Delle cento maggiori economie
mondiali, 51 non sono stati, ma multinazionali. Il reddito totale dell'1 per
cento piu' ricco del mondo e' uguale al reddito totale del 57 per cento piu'
povero, e la disparita' e' in aumento. Ora, sotto la copertura sempre piu'
vasta della guerra al terrorismo, questo processo e' in via di
accelerazione. I burocrati hanno una fretta indecente. Mentre le bombe ci
piovono addosso e i missili Cruise solcano il cielo, mentre si ammassano
armi nucleari per rendere piu' sicuro il mondo, si firmano contratti, si
registrano brevetti, si costruiscono oleodotti, si saccheggiano le risorse
naturali, si privatizza l'acqua e si minacciano le democrazie. In paesi come
l'India, l'"aggiustamento strutturale" e la globalizzazione neoliberista
affliggono la vita delle popolazioni. Progetti di "sviluppo",
privatizzazione generalizzata e "riforme" del lavoro espellono i lavoratori
dalle campagne e dalle industrie, con il risultato di una barbara
spoliazione che ha pochi precedenti nella storia. Mentre nel mondo il libero
mercato protegge spudoratamente le economie occidentali e costringe i paesi
in via di sviluppo ad abbattere le barriere, i poveri si impoveriscono e i
ricchi si arricchiscono. Nel villaggio globale la rivolta civile sta per
esplodere. In paesi come l'Argentina, il Brasile, il Messico, la Bolivia e
l'India, crescono i movimenti contro la globalizzazione neoliberista. Per
contenerli i governi intensificano i controlli. I contestatori vengono
bollati come "terroristi" e trattati come tali. Ma la rivolta civile non
comprende solo marce, manifestazioni e proteste contro la globalizzazione.
Purtroppo vede anche una deriva verso il crimine e il caos, verso la
disperazione e la disillusione che, come la storia ci insegna e come abbiamo
visto con i nostri occhi, diventano progressivamente un fertile terreno di
coltura per il nazionalismo, il fanatismo religioso, il fascismo e,
naturalmente, il terrorismo.
Fenomeni che ben si sposano con la globalizzazione neoliberista.
Sempre piu' si diffonde la leggenda che il libero mercato abbattera' le
barriere nazionali e che l'obiettivo finale della globalizzazione
neoliberista e' una sorta di paradiso hippy dove il cuore sara' l'unico
passaporto e noi tutti vivremo insieme felicemente come in una canzone di
John Lennon (Imagine there's no country...). Tutte sciocchezze.
Il libero mercato non minaccia la sovranita' nazionale, ma la democrazia.
Mentre la differenza fra ricchi e poveri aumenta, il pugno invisibile sa
perfettamente cosa fare. Le multinazionali a caccia di enormi profitti sanno
di non poter sviluppare i loro progetti nei paesi in via di sviluppo senza
l'attiva connivenza della macchina statale: la polizia, i tribunali, a volte
perfino l'esercito. Oggi la globalizzazione economica ha bisogno di una
confederazione internazionale di governi asserviti, corrotti e
preferibilmente autoritari nei paesi piu' poveri, che approvino riforme
impopolari e soffochino le sommosse. Ha bisogno di una stampa che finga di
essere libera. Ha bisogno di tribunali che fingano di dispensare giustizia.
Ha bisogno di bombe nucleari, di eserciti, di leggi piu' severe
sull'immigrazione e di efficaci controlli costieri per accertarsi che siano
solo i soldi, le merci, i brevetti e i servizi a essere globalizzati, non la
libera circolazione delle persone, il rispetto dei diritti umani, i trattati
internazionali sulla discriminazione razziale o sulle armi chimiche e
nucleari, sulle emissioni dei gas serra, sul cambiamento del clima o sulla
giustizia. Come se anche un piccolo passo verso una forma di responsabilita'
internazionale potesse far crollare l'intera baracca.
Quasi un anno dopo l'avvio ufficiale della guerra al terrorismo sulle rovine
dell'Afghanistan, paese dopo paese le liberta' vengono limitate in nome
della difesa della liberta', i diritti civili vengono calpestati in nome
della difesa della democrazia. Ogni dissenso viene definito "terrorismo" e
per affrontarlo vengono approvate leggi d'ogni tipo. Osama bin Laden sembra
essere svanito nel nulla. Si dice che il mullah Omar sia riuscito a fuggire
in motocicletta. I taliban sono forse scomparsi, ma il loro spirito e il
loro sistema di giustizia sommaria stanno riaffiorando nei posti piu'
disparati: in India, in Pakistan, in Nigeria, in America, in tutte le
repubbliche centroasiatiche guidate da ogni genere di despota e naturalmente
nell'Afghanistan governato dall'Alleanza del Nord con il sostegno degli
Stati Uniti.
Intanto, nel centro commerciale qui sotto c'e' una svendita di mezza
stagione. E' tutto scontato - oceani, fiumi, petrolio, catene di Dna, api
impollinatrici, fiori, infanzia, fabbriche di alluminio, compagnie
telefoniche, buonsenso, riserve naturali, diritti civili, ecosistemi, aria -
ovvero tutti i 4.600 milioni di anni di evoluzione. Sono confezionati,
sigillati, etichettati, prezzati ed esposti sugli scaffali (e non possono
essere restituiti). Quanto alla giustizia, mi dicono che sia anch'essa in
offerta. Con il denaro potete procurarvi il meglio che offre il mercato.
Donald Rumsfeld ha affermato che il suo ruolo nella "guerra contro il
terrore" e' stato quello di convincere il mondo che gli americani devono
essere liberi di coltivare il loro stile di vita, la loro way of life.
Quando il re impazzito batte i piedi, gli schiavi tremano nei loro alloggi.
Non e' facile, ma si deve affermare che l'American way of life e'
semplicemente insostenibile. Perche' non tiene conto che oltre all'America
c'e' un mondo.
Fortunatamente il potere ha una sua durata. Quando arrivera' il momento,
forse questo possente impero, come altri prima di esso, fara' il passo piu'
lungo della gamba e implodera'. Pare che alcune crepe strutturali siano gia'
comparse. Mentre la guerra al terrorismo allarga la sua rete, il cuore
multinazionale dell'America e' in piena emorragia. Malgrado le interminabili
parole vuote sulla democrazia, oggi il mondo e' guidato da tre delle
istituzioni piu' occulte del pianeta, il Fondo monetario internazionale, la
Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio, tutte e tre a
loro volta controllate dagli Stati Uniti. Le loro decisioni vengono prese in
segreto. Le persone che le dirigono vengono nominate a porte chiuse. In
realta' nessuno sa nulla di loro, della loro politica, delle loro idee,
delle loro intenzioni. Nessuno li ha eletti. Nessuno ha detto che potevano
prendere decisioni in nostro nome. Un mondo guidato da una manciata di avidi
banchieri e da amministratori delegati che nessuno ha eletto non puo'
durare.
Il comunismo sovietico e' fallito non perche' fosse intrinsecamente
malvagio, ma perche' era malato. Concentrava troppo potere nelle mani di
pochissime persone. Il capitalismo americano del XXI secolo fallira' per le
stesse ragioni. Sono due edifici costruiti dall'intelligenza umana, ma
minati alle fondamenta dalla natura umana.
"E' arrivato il momento" disse il Tricheco di Alice. Forse la situazione
peggiorera' ancora, prima di migliorare. Forse c'e' una piccola dea lassu',
nel cielo, che si sta preparando per noi. Un altro mondo non e' solo
possibile: la dea e' gia' in viaggio. Forse molti di noi non saranno qui ad
accoglierla, ma in una giornata tranquilla, se rimango in ascolto, riesco a
sentire il suo respiro.
18 settembre 2002

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 217 del 24 maggio 2009

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