Nonviolenza. Femminile plurale. 238



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 238 del 26 febbraio 2009

In questo numero:
1. L'8 marzo a Sasso Marconi
2. Alcuni estratti da "Le donne nella storia europea" di Gisela Bock
3. Francesca Borrelli: Tre voci dall'Africa

1. INCONTRI. L'8 MARZO A SASSO MARCONI
[Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo]

L'Assessorato alle Pari opportunita' del Comune di Sasso Marconi promuove
l'iniziativa "8 marzo: La vita, le scelte delle donne. Riflessioni, letture,
musica".
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Domenica 8 marzo 2009, ore 16-19,30, Sala Renato Giorgi, piazzetta del
Teatro, Via del Mercato, Sasso Marconi
Ore 16: saluto inaugurale. Saluti di Marilena Fabbri (Sindaco di Sasso
Marconi) e Sandra Federici (assessora alle Pari opportunita' di Sasso
Marconi).
Ore 16,15: Vite di donne nel Bilancio di Genere della Commissione Mosaico;
Davide Conte (sociologo, curatore scientifico del Bilancio di Genere della
Commissione Mosaico): Come la politica puo' favorire le capacita' delle
donne e le loro possibilita' di scelta; Letizia Lambertini (coordinatrice
della Commissione Mosaico): Continuita' e innovazione nelle politiche
dell'ultima legislatura.
Stacco musicale con Manu Napolitano, chitarra e Stefania Ferrini, voce
(Associazione Calicante).
Ore 17: Gruppo Gimbutas, 8 marzo. La nostra vita. Donne del Gruppo M.
Gimbutas raccontano la loro vita: i figli, il lavoro, le aspirazioni, la
realta'. Chi le aiuta, il pubblico, il privato...
Letture poetiche per ricordare la fatica quotidiana delle donne, pensieri
per le donne dei paesi in guerra, per le tante donne sottoposte a violenza
nel mondo.
Interviene e conclude Maria Giuseppina Di Rienzo (giornalista, esperta di
questioni di genere)
Al termine delle letture Carla Fini dell'azienda agricola Le Fattorie di
Montechiaro, offrira' un assaggio dei prodotti della sua terra.
Inoltre sara' presente, con i propri prodotti naturali a base di lavanda,
Antonella Dolcetta dell'azienda agricola Picaflor che offrira' alle signore
in sala un piccolo omaggio.
In Sala Atelier saranno esposti i lavori realizzati con la creta dai ragazzi
delle scuole medie di Sasso Marconi negli atelier guidati da Monica
Macchiarini.
*
9 marzo 2009: Festa della donna al Centro diurno comunale. Letture, poesie,
ricordi.
Il Gruppo M. Gimbutas sara' a festeggiare con le anziane del Centro Diurno
Comunale il 9 marzo alle ore 10.
*
Per ulteriori informazioni: 051843525.

2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LE DONNE NELLA STORIA EUROPEA" DI GISELA BOCK
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Gisela Bock, Le donne nella storia europea. Dal Medioevo ai nostri giorni,
Laterza, Roma-Bari 2001, 2003 (ed. originale: Frauen in der europaeischen
Geschichte. Vom Mittelalter bis zur Gegenwart, Beck, Muenchen 2000),
traduzione di Benedetta Heinemann Campana]

Indice del volume
Prefazione alla prima edizione di Jacques Le Goff; Premessa; 1. La "querelle
des femmes": una disputa europea sui sessi; La dignita' dell'uomo e la
dignita' della donna; Misogamia e misoginia, filogamia e filoginia; Il
potere dei padri, degli uomini, delle donne; 2. La Rivoluzione Francese: la
disputa si riapre; Speranze; Diritti dell'uomo e diritti della donna;
Amazzoni e controrivoluzionarie; Napoleone e la rivoluzione in Europa;
Intrighi notturni; 3. Rotture ed eruzioni: una terza disputa sui sessi;
Sviluppi, dibattiti, argomenti; L'"angelo del focolare"? Ideali e realta';
Lavoro vecchio e nuovo; Prefemminismo e protofemminismo; Un movimento
sociale; 4. Dal sociale al politico; Movimenti nazionali e transnazionali;
Uguali perche' diverse: il discorso politico del suffragismo; Precursori e
ritardatari: percorsi europei verso il suffragio delle donne; Diritti civili
e diritti delle madri; Politica sociale pro e contro le donne; 5. Fra
estremi; Le cittadine e la Donna Nuova; Maternita' e paternita' nello Stato
sociale; Verso la dittatura: politico e privato; Nazionalsocialismo e
politica razziale; Guerra e genocidio in Europa; 6. Diritti civili, politici
e sociali: una nuova disputa dei sessi; Liberta' e uguaglianza; La
rivoluzione piu' lunga; Storia, spirito e sesso; Note; Bibliografia; Indice
dei nomi.
*
Da pagina 7
La "querelle des femmes": una disputa europea sui sessi
"Quid est mulier?" (Tertulliano, ca. 200 d.C.)
"Cosa sono le donne?" (Christine de Pizan, 1402)
La storia europea e' ricca di testimonianze di quanto diversamente possano
venir recepiti e interpretati i due sessi, le loro peculiarita' e i loro
rapporti. Nella querelle des sexes si discusse per secoli, spesso in forma
di lamento e di accusa (querelle), su cosa e come siano, debbano e possano
essere le donne e gli uomini. Le prese di posizione su questo argomento si
moltiplicarono nel primo Rinascimento, soprattutto in Italia, in Francia, in
Spagna e ben presto anche negli altri paesi europei. Alla loro diffusione
contribui' la crescente importanza della parola scritta e della forma
scritta acquisita dalle lingue volgari europee, nonche' la stampa, la
riproduzione di immagini e gli innumerevoli fogli volanti. Alla querelle
parteciparono sia scrittori che scrittrici: gli autori scrissero sia opere
ostili alle donne (invettive contro le donne, disprezzo delle donne,
misoginia) sia opere a favore delle donne (difesa delle donne, lode delle
donne, filoginia); i testi conservati scritti da donne sono per lo piu' a
loro favore. Tuttavia, che cosa venisse giudicato a favore o contro le donne
dipendeva di volta in volta dal contesto. Fra le voci della querelle che
sono giunte fino a noi, quelle femminili sono in minoranza, ma costituiscono
una notevole percentuale di tutti gli scritti di donne di quell'epoca. La
disputa ebbe origine nel Medioevo, si sviluppo' nel Rinascimento, sotto
l'influsso dell'Umanesimo e della riforma religiosa, e prosegui' fino
all'Illuminismo.
*
La dignita' dell'uomo e la dignita' della donna
"Che le donne non siano della specie degli uomini" (1647)
Nel tardo Medioevo e anche - in Italia - nel primo Rinascimento, fu
rilanciata la questione della natura umana. Nel suo scritto pionieristico De
dignitate hominis (1486) Giovanni Pico della Mirandola parlava degli uomini:
Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l'uomo e'
libero di seguire la propria natura e di scegliere la propria vita. La tesi
della dignita' umana era rivolta contro la piu' vecchia dottrina della
miseria humanae conditionis, formulata da papa Innocenzo III. La miseria
riguardava soprattutto le donne. I Padri della Chiesa avevano attribuito ad
Eva la colpa del peccato originale e identificato con le donne la
sessualita' e il peccato. Per Tertulliano la donna era la "porta di ingresso
del diavolo" (ianua diaboli) e per Agostino la sessualita', anche coniugale,
era un peccato. Secondo Girolamo, era possibile evitare il peccato solo
vivendo in assoluta castita', poiche' l'amore dell'uomo per la donna,
personificazione del male e della tentazione, non poteva essere compatibile
con l'amore di Dio e quindi costituiva una minaccia per la salvezza
dell'anima dell'uomo. Gli uomini che desideravano la salvezza dovevano
guardarsi dalle donne, le donne da se stesse. Tertulliano e Crisostomo si
chiesero "cos'e' la donna?" e risposero a questa domanda con un lungo elenco
di difetti: "nemica dell'amicizia, male necessario, tentazione naturale,
minaccia della casa, danno dilettevole, natura del male". Una rigida
polarizzazione fra i sessi era assolutamente consueta; nella sintesi fra
Aristotele e la Bibbia operata dalla scolastica questa polarita'
(attivo-passivo, forma-materia, spirito-carne, bene-male, valore-indegnita'
ecc.) venne leggermente attenuata, ma in sostanza la donna, che Aristotele
considerava un "errore della natura", rimase anche per Tommaso d'Aquino un
"uomo malriuscito" o incompleto (mas occasionatus). A dire il vero sia
Tommaso che Aristotele sottolinearono l'importanza del ruolo domestico della
donna (il primo insistette anche sul fatto che entrambi i sessi fossero
stati creati a immagine e somiglianza di Dio e pertanto fossero entrambi
suscettibili di salvezza), ma solamente a condizione che fosse l'uomo a
detenere il potere. Dalla considerazione che la donna fosse indispensabile
non derivava necessariamente la sua parita' di rango. Il mas occasionatus
era destinato a rimanere a lungo nella sua condizione, per quanto discussa
essa fosse.
*
Da pagina 182
Le donne dell'Ottocento quindi non sono state solo vittime delle
trasformazioni sociali. Qualunque fosse il tributo richiesto alle donne
dall'industrializzazione - i salari bassi o il lavoro domestico non
retribuito - il problema comunque non era la mancanza di lavoro, bensi' la
poverta' e la dipendenza. L'ideale femminile diffuso in tutte le classi non
corrispondeva alla realta' sociale e le donne potevano agire in svariati
campi. Le differenze materiali e culturali risultavano dalla situazione
personale, dai diversi settori economici, dal mutare della relazione fra
poverta' e benessere e - tanto per le donne che per gli uomini -
dall'appartenenza all'una o all'altra delle classi sociali in via di
formazione. Tuttavia la vita delle donne - come nella societa' dell'Ancien
Regime - era notevolmente diversa da quella degli uomini della loro stessa
classe, alla quale esse non appartenevano (e non appartengono tuttora) a
nome proprio, ma attraverso i "loro" uomini, padri o mariti che fossero.
Nell'ultima fase dell'industrializzazione, quando divenne sempre piu'
oggetto di discussione la visione economica e culturale del marito come
"sostentatore" e della moglie come "operaia dell'amore" (nel senso letterale
del termine era comunque lei a "sostentare" la famiglia), in tedesco fu
creata l'ironica allitterazione Kinder, Kueche, Kirche (bambini, cucina e
chiesa). Invece la variante che era stata proposta seriamente da Schmoller,
Kueche, Keller und Kammer (cucina, cantina, dispensa) divenne anacronistica
perche', soprattutto in citta', ben poche famiglie potevano disporre di una
vera e propria cantina per le provviste. Il movimento femminista critico' e
ironizzo' questo luogo comune, procurandogli diffusione internazionale. Esso
divenne il simbolo di una vita domestica che veniva ritenuta tipica per la
Germania soprattutto dalle femministe non tedesche, come riferi' Kathe
Schirmacher di ritorno dal Congresso internazionale delle donne, tenutosi a
Londra nel 1899. Nel 1904 Clara Zetkin cito' un giornale secondo il quale la
tradizionalista imperatrice tedesca (ben diversa da sua suocera,
l'"imperatrice Federico") consigliava alle donne di attenersi alle "quattro
K" e cioe' Kirche, Kinder, Kueche und Kleider (chiesa, bambini, cucina e
vestiti); si parlava anche di Kinder, Kueche, Kaiser (bambini, cucina,
imperatore). La femminista ed ebrea tedesca Henriette Fuerth, che aveva
studiato economia politica e - fenomeno assai insolito ai suoi tempi - era
madre di otto figli, nel 1914 descrisse la trasformazione della donna in
"schiava domestica" come un prodotto del secolo XIX, reclamo' un cambiamento
e una rivalutazione del lavoro femminile e fece del sarcasmo sulla "triade
di bambini, cucina e conversazione" (Kinder, Kueche, Konversation). Nello
stesso anno, la storica americana Mary Beard cito' di nuovo questo luogo
comune, asserendo, pero', di ritenere sorpassate da tempo, negli Stati
Uniti, "le tre K, le vecchie sfere della donna". La poverta' delle donne, la
loro dipendenza tanto materiale che intellettuale e le tre, o sette, K
divennero i bersagli del movimento femminista internazionale.
*
Da pagina 333
Anche in Italia il passaggio duro' un decennio, ma, diversamente che
nell'Unione Sovietica, non condusse all'eliminazione di organizzazioni
femminili separate, bensi' alla loro creazione da parte del fascismo. Fino
al 1925, quando Mussolini sembrava ancora appoggiare il suffragio femminile,
e anche per qualche altro anno, molte femministe italiane, comprese molte
ebree, credevano che nel nuovo Stato sarebbero riuscite a realizzare almeno
alcuni dei loro intenti, in particolare il miglioramento della situazione
femminile per mezzo dell'impegno sociale. I fasci femminili - composti per
lo piu' di donne giovani e combattive, come le prime comuniste e le seguaci
di Hitler - negli anni Venti erano una piccola minoranza; a volte
protestarono anche apertamente contro l'antifemminismo fascista. La marchesa
Maria Spinelli Monticelli nel 1926 protesto' contro l'abolizione delle
elezioni comunali sciogliendo il suo fascio femminile di Milano e per questo
fu esclusa dal partito. La socialista e suffragista Teresa Labriola, che a
quell'epoca era la piu' famosa intellettuale italiana, si converti'
lentamente al fascismo, all'interno del quale cercava spazio per un
"femminismo italico" ("le donne devono acquisire anche qualita' virili che
consistono nella consapevolezza del senso di appartenenza a una stirpe e a
una nazione"), e nel 1927 asseri': "La tesi della partecipazione alla vita
sociale non e' necessariamente parte del bagaglio democratico; puo' essere
concepita anche da quelli che combattono il parlamentarismo; [...] insomma
non contraddice alla dottrina e alla praxis del fascismo". Nel 1925 fu
fondata l'Opera Nazionale per la Maternita' e l'Infanzia (Onmi), finanziata
da offerte e da sussidi statali; in essa le donne, che tuttavia erano
pressoche' escluse dai ruoli direttivi, si sforzavano di assistere e di
educare all'igiene le madri sole e povere, anche nelle arretrate zone di
campagna. Alla vigilia della fondazione dell'Onmi, Olga Modigliani, una
femminista di antica famiglia ebraica, che gia' da tempo era impegnata
nell'assistenza alle madri nubili, aveva avuto funzioni di consigliera
presso la commissione competente nel primo gabinetto Mussolini; nel 1934 il
Consiglio internazionale delle donne, durante il suo congresso a Parigi,
ebbe parole di ammirazione per l'assistenza alle madri e ai bambini prestata
dal fascismo. Vicepresidente della sezione romana dell'Onmi era la
filantropa piemontese Daisy di Robilant che nel 1931 venne eletta
presidentessa del Consiglio nazionale delle donne italiane, fondato nel
1903. Alcune fasciste protestarono contro il fatto che le donne fossero
scarsissimamente rappresentate nel Consiglio superiore delle corporazioni
(1929); ma almeno fu nominata membro del Consiglio superiore la
presidentessa della Corporazione delle levatrici. Il ministro per le
Corporazioni, Giuseppe Bottai, nel 1931 nomino' come prima delle tre
consigliere donne Adele Pertici Pontecorvo, esperta di diritto del lavoro e
fautrice dei diritti delle donne, che in Italia era stata la prima donna
notaio - una nomina impensabile nella Germania nazista, dove alle giuriste
non veniva concessa la minima opportunita'. Durante il fascismo la Pertici
Pontecorvo porto' davanti al Consiglio di Stato parecchi casi di
discriminazione delle donne.
Solo alla vigilia della guerra di Abissinia e in seguito, dopo l'inizio
della guerra nel 1935 e come reazione alle sanzioni economiche della
Societa' delle nazioni e alla conseguente politica autarchica (il vecchio
futurista Marinetti dichiaro' "antivirili" gli spaghetti, in quanto il grano
era merce d'importazione e le donne avevano cose piu' importanti da fare che
stare ai fornelli), il fascismo mobilito' un quarto delle donne adulte. In
un primo tempo, l'allineamento delle donne fu ottenuto per mezzo dei fasci
femminili; il loro organo di stampa era il "Giornale della donna", gia'
rivista del movimento femminista, a cui collaborava Teresa Labriola. Ai
fasci, che alla fine degli anni Trenta contavano settecentocinquantamila
iscritte, si aggiunsero l'organizzazione delle massaie rurali (piu' di un
milione e mezzo) e quella delle operaie in fabbrica e a domicilio (Sold,
mezzo milione), che pretendeva dai suoi membri contributi inferiori a quelli
del partito ed era quindi piu' attraente. Solo a meta' degli anni Trenta
furono soppressi i residui del vecchio movimento femminile (alcune delle sue
protagoniste, ad esempio Ersilia Majno Bronzini, nel frattempo erano morte).
La Federazione nazionale laureate e diplomate, di orientamento
internazionale, di cui facevano parte anche molte ebree, fu sostituita nel
1935 da un'organizzazione fascista e fu costretta dalle autorita' a
"sciogliersi spontaneamente". Dopo la promulgazione delle leggi razziali del
17 novembre 1938, furono proibiti, nello stesso anno, a causa dell'alta
quota di ebree fra i loro membri, anche il Consiglio nazionale delle donne
italiane e la venerabile Unione femminile. Forse non fu un puro caso che
cio' sia avvenuto proprio quando in Germania, dopo il pogrom del novembre, i
nazisti sciolsero la lega delle donne ebree. In entrambi i paesi cio'
segno' - almeno da un punto di vista retrospettivo - l'inizio della fine;
tuttavia l'assassinio delle ebree e degli ebrei italiani sostanzialmente non
fu opera del fascismo, ma del nazismo.
*
Da pagina 394
Liberta' e uguaglianza
Un nuovo modo di essere, di amare, di vivere.
Diversamente da quello classico, il nuovo movimento delle donne comparve
improvvisamente e provocatoriamente alla fine degli anni Sessanta, entro il
1975 divenne un movimento di massa e fu caratterizzato sin dall'inizio dalla
comunicazione a livello internazionale. Nel 1968, in occasione dell'elezione
di Miss America, alcune donne americane incoronarono una pecora, gettarono
il reggiseno, i bigodini e i cosmetici in una "pattumiera della liberta'" e
seppellirono la femminilita' tradizionale nel cimitero nazionale di
Arlington. Una brigata Jeanette Rankin, cosi' denominata dalla prima donna
eletta in parlamento nel 1919, organizzo' una marcia della pace su
Washington. Gruppi provocatori si denominavano bitch (sgualdrina) o Witch
(strega: Women's International Terrorist Conspiracy from Hell); il nome
delle Redstockings di New York (coniato su bluestockings, le "calzette blu",
famigerate da secoli) fu adottato anche in Danimarca. Le femministe danesi
dettero l'assalto agli autobus, pagando solo 1'80% del prezzo del biglietto,
in conformita' con la quota del salario delle donne rispetto a quello degli
uomini. In Gran Bretagna protestarono contro l'elezione di Miss Universo,
dettero appoggio alle operaie in sciopero e lanciarono nella sinistra il
dibattito sulla liberazione delle donne. A Parigi alcune deposero sulla
tomba del milite ignoto presso l'Arc de Triomphe una corona con la scritta
"Alla moglie ignota del milite ignoto", altre invasero la redazione della
nota rivista femminile "Elle". In Olanda le Dolle Mina (cosi' chiamate in
ricordo di Wilhelmina Drucker, che era stata una pioniera del vecchio
movimento delle donne) attirarono su di se' l'attenzione per mezzo di azioni
spettacolari. Nella Repubblica Federale Tedesca volarono pomodori contro i
compagni del Sozialistische Deutsche Studentenbund (Lega tedesca degli
studenti socialisti) che si rifiutavano di prendere sul serio la liberazione
delle donne. A Berlino, il "Consiglio di azione per la questione della
liberazione della donna" e a Francoforte il "Consiglio delle donne"
avviarono la loro separazione dalla sinistra, vecchia e nuova. In seguito,
ma anche prima, nacquero gruppi indipendenti di donne; uno di essi si
chiamava brot & rosen (pane e rose) come lo slogan coniato nel 1912, invece
di bread and butter, dalle operaie in sciopero di Lawrence, Massachusetts. A
Berlino sorsero i primi Kinderlaeden (letteralmente: botteghe per i bambini)
che poi si diffusero in tutta la Germania; si trattava di asili organizzati
autonomamente, prendendo in affitto dei locali, da gruppi di madri che si
alternavano nella sorveglianza dei figli in eta' prescolare; nacquero anche
come alternativa all'educazione autoritaria impartita negli asili di
infanzia e nelle famiglie. Entro poco tempo sorsero dovunque Centri
femminili dai quali si diramarono gruppi, vennero lanciati progetti
alternativi e nacque una nuova "controcultura". Le cosiddette "Case delle
donne" (in Gran Bretagna nel 1980 ne esistevano gia' duecento) accoglievano
donne maltrattate e, tramite appositi centri o linee telefoniche, si
provvedeva all'assistenza di donne vittime di violenze sessuali. A Roma,
Torino e Milano le donne organizzarono dimostrazioni notturne per protestare
contro il fatto di non poter uscire di notte da sole senza correre pericoli
da parte degli uomini; il loro motto "riprendiamoci la notte" divenne uno
slogan internazionale. Veniva propagata la necessita' di essere impazienti:
il primo film femminista, girato a Berlino, aveva il titolo Die Macht der
Maenner ist die Geduld der Frauen (Il potere degli uomini e' la pazienza
delle donne). Ovunque i piccoli gruppi e le loro reti di comunicazione erano
l'anima del movimento.
Di stampo americano erano soprattutto tre innovazioni diffuse in tutta
Europa. In primo luogo, le donne fondarono gruppi di autocoscienza in cui
analizzavano la loro situazione personale e le sue cause generalizzabili. In
secondo luogo, nacquero gruppi self-help e consultori autogestiti, spesso
ispirati al manuale Our Bodies, Ourselves (1970) pubblicato dal Boston
Women's Health Book Collective, il quale spiegava i molteplici nessi fra il
corpo e la soggettivita'. Il libro venne tradotto in molte lingue (in
italiano nel 1974 con il titolo Noi e il nostro corpo) e fino al 1995 ne
furono venduti tre milioni di copie. In terzo luogo, fecero sentire le loro
voci le donne lesbiche (il termine "lesbica" comincio' ad essere usato solo
dagli anni Venti, anche se le relazioni fra donne erano sempre esistite);
molte di esse abbandonarono i gruppi omosessuali misti e aderirono al
movimento femminista, sempre che non vi avessero svolto un ruolo sin
dall'inizio. L'accusa rivolta alla discriminazione delle donne lesbiche era
unita all'idea che l'amore e la solidarieta' fra donne potessero offrire
un'alternativa al dominio maschile. Si levarono asperrime critiche al
concetto di Freud della donna come uomo incompleto; The Myth of the Vaginal
Orgasm, scritto dalla newyorchese Anne Koedt (1970), fu recepito a livello
internazionale (alcuni elementi di quest'opera si potevano gia' trovare in
pubblicazioni degli anni Venti). In Italia e in Gran Bretagna, a partire dal
1972, fu iniziata una campagna per la retribuzione statale del lavoro
domestico, che si diffuse anche in Germania, negli Usa e in Canada. Essa si
basava sull'argomento che il lavoro extradomestico non aveva liberato le
donne e dimostrava che in realta' anche le donne "non lavoratrici" lavorano
e che, anzi, tutte le attivita' retribuite dipendono dal lavoro non
retribuito svolto dalle donne nella famiglia. Affermava che disporre di
denaro favorisce l'indipendenza delle donne anche all'interno del matrimonio
e chiedeva che gli assegni famigliari, l'assicurazione per la vecchiaia e le
norme in caso di divorzio tenessero conto del lavoro svolto dalle donne in
casa e per l'educazione dei figli. Solo quando il lavoro domestico non fosse
piu' stato gratuito, esso si sarebbe anche trasformato e ridotto, per mezzo
di efficienti elettrodomestici, della collettivizzazione e della
suddivisione con gli uomini. Come il movimento femminista nel suo complesso,
questa campagna rifiutava, con lo slogan "salario contro il lavoro
domestico", il ruolo della casalinga e le tradizionali fatiche domestiche,
nonche' la loro variante modernizzata: il "problema senza nome", come
l'aveva definito e messo sotto accusa Betty Friedan nella sua notissima
opera La mistica della femminilita' (1963, pubblicata in italiano nel 1964).
*
Da pagina 434
Si impongono due delle molte domande suscitate da queste scoperte. La prima
e': che cos'e' il "femminismo"? Esisteva gia' prima che si diffondesse
questo termine, alla fine dell'Ottocento? Se con il termine si intende (come
di consueto oggi nei paesi di lingua inglese) un grido di rivolta, sommesso
o acuto, pubblico o privato, contro la condition feminine, allora il
femminismo esiste gia' da secoli, se non da sempre. Se invece con il termine
"femminismo" si intende un movimento sociale di donne animate da una
concezione femministica del mondo, allora si tratta di un fenomeno specifico
del XIX e del XX secolo. In questo caso, trattando delle voci precedenti,
sara' preferibile usare i termini che esse stesse usavano, per esempio
"liberta'", che anche in passato era un termine tanto noto quanto amato.
Seconda domanda: perche' sono stati necessari tre decenni di ricerca storica
per rendere evidenti queste tradizioni che contraddicono la prima supposizio
ne del nuovo movimento femminista, e cioe' che la sua rivolta e il suo
linguaggio siano sorti come l'araba fenice dalle ceneri di un'oppressione e
di un mutismo secolari? Una delle risposte e': fino al Settecento ci furono,
e' vero, molte voci "femministe", ma non ci fu una vera e propria tradizione
che potesse permettere alle voci successive di riallacciarsi a quelle
precedenti. Il motivo va visto nella generale esclusione delle donne
dall'istruzione, dalle sue istituzioni e dai suoi strumenti, dal mondo della
cultura e dalle biblioteche, e anche nel fatto che le voci delle donne non
trovarono risonanza duratura da parte degli studiosi maschi che avevano una
posizione di egemonia nella tradizione culturale europea. Per questo motivo,
fino ai nostri giorni, le donne che anelavano al sapere e alla
trasformazione hanno dovuto ogni volta "reinventare la ruota".
La piu' recente reinvenzione della ruota ha condotto a tre problemi, che a
loro volta hanno aperto nuove questioni, nuovi metodi di soluzione e una
nuova fase del dibattito sui sessi, svoltasi in questo caso principalmente
fra le studiose. Il primo problema riguardava gli uomini, il secondo le
donne, il terzo i sessi. Sin dall'inizio la nuova storiografia sulle donne
fu anche una storiografia sugli uomini, dato che non e' possibile isolare la
storia di uno dei due sessi da quella dell'altro. Inoltre la storia delle
donne fini' con il condurre a una storia dei sessi: infatti non solo le
donne, ma anche gli uomini sono creature appartenenti a un sesso e sarebbe
fuorviante considerare il sesso maschile come personificazione dell'umanita'
in generale e quello femminile invece come personificazione del particolare
(a lungo il suffragio incondizionato degli uomini si chiamo' suffragio
"universale" e tuttora si parla di "suffragio universale degli uomini", il
che costituisce una contradictio in adjecto, dato che "universale" oggi
significa "senza distinzione di sesso"). Insomma, che cosa sono gli uomini e
come si sono trasformati nel corso della storia? Ci si mise alla ricerca del
"primo" sesso.
In secondo luogo era altrettanto chiaro sin dall'inizio che non tutte le
donne hanno la stessa storia - essa e' diversa a seconda degli individui e a
seconda della loro appartenenza, insieme agli uomini, a molti altri gruppi -
e che quindi non si puo' trattare della donna, ma solo delle donne. Il sesso
femminile, come quello maschile, non esiste al singolare, ma solo al
plurale; alla domanda che cosa significa "donna" e che cosa "sono" le donne
occorre dare risposte diversissime a seconda del tempo e dello spazio; la
storia del "secondo" sesso non e' meno complessa di quella del "primo".
Pero', inoltre, soprattutto sotto l'influsso del postmodernismo e del
decostruttivismo, venne messo generalmente in dubbio che il termine "donne",
anche al plurale, avesse ancora un senso e fosse ancora definibile in modo
relativamente univoco. Si tratta infatti, in conformita' con uno degli
impulsi del movimento femminista, di rifiutare e di cancellare il concetto
dell'"esser donna" come una forma di identita' collettiva. Trasformato in
termini storici, cio' significa che Sojourner Truth, se vivesse ai giorni
nostri, dovrebbe cambiare la sua famosa domanda And ar'n't I a woman? in "E
non sono forse un'identita' fluttuante?". Il XXI secolo dimostrera' se
questo nuovo raggio della vecchia ruota e' abbastanza forte per farla
continuare a rotolare. Comunque le donne "sono" donne (e pertanto esseri
umani), anche se al contempo questo "essere" e' aperto e indefinito e puo'
variare a seconda del tempo, dello spazio e dall'appartenenza ad altre
"imaginated communities"; l'esser donna non e' ne' un dato "obiettivo" ne'
solo una costruzione immaginaria o fittizia. Se questo sembra un paradosso,
va sopportato e tollerato: e' questa la forma odierna del paradosso
tematizzato da Olympe de Gouges e da tante altre. E quando si tratta di
fonti storiche, di liberta' e di uguaglianza o del loro contrario, e di
affirmative action e' senz'altro possibile riconoscere e identificare le
donne con sufficiente chiarezza.

3. HUMANAE LITTERAE. FRANCESCA BORRELLI: TRE VOCI DALL'AFRICA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 ottobre 2008 col titolo "Tre voci
dall'Africa. Protagonisti della stagione postcoloniale" e il sommario "Un
profilo degli scrittori ai quali oggi a Addis Abeba verra' assegnato il
Grinzane for Africa. Sono il poeta e romanziere nigeriano Ben Okri, il
saggista e narratore keniota Ngugi wa Thiong'o e il giovane romanziere
angolano Ondjaki"]

Niente altro se non l'appartenenza a uno stesso continente accomuna i tre
scrittori che oggi verranno premiati a Addis Abeba, per la prima edizione
del Grinzane for Africa. Tanto la lingua del piu' giovane, l'angolano
Ondjaki, e' volutamente calcata sulla colloquialita' popolare, sboccata e
provocatoria, tanto sorvegliata e' la vena di magia che percorre la prosa
del nigeriano Ben Okri, e vigile il realismo profondamente radicato nella
sua terra del keniota Ngugi wa Thiong'o. Si potrebbe procedere per paragoni
che evidenziassero la distanza fra i tre, ma sarebbe un esercizio
inutilmente retorico perche' basato su un assunto inesistente, ovvero che
ricevere lo stesso premio possa costituire un elemento di fratellanza
letteraria.
*
Meglio cercare, allora, di mettere a fuoco queste tre figure poco note in
Italia, la piu' giovane delle quali, Ondjaki, e' nato a Luanda nel 1977, una
citta' che nel suo secondo romanzo, Le aurore della notte (a cura di
Vincenzo Barca, Edizioni Lavoro, pp. 169, euro 12) appare enormemente
caotica, sovrapopolata, insistentemente piovosa, e tuttavia cosi' capace di
creare nostalgia che morirvi e' impossibile: perche' - come accade a uno dei
personaggi - il richiamo della citta', e piu' in generale di tutta l'Angola,
e' cosi' struggente da vincere la monotona bellezza del Cielo e attirare
verso di se' chi era gia' passato all'altra riva dell'esistenza.
Laureato in sociologia, Ondjaki ha riversato nel suo romanzo anche la resa
stilistica dei suoi studi sulle estigas, battute di spirito, prese in giro
ma anche insulti che si scambiano i suoi personaggi. Se sono formule
lessicali interessanti - ci segnala Vincenzo Barca nella sua introduzione -
e' proprio perche' si presentano come "vere e proprie battaglie verbali in
cui e' messa alla prova la capacita' di ciascun contendente di colpire
l'altro attraverso il ricorso a un linguaggio densamente figurato, che si
avvale di allegorie, similitudini e metafore".
*
Meritatamente piu' celebre, Ben Okri e' non soltanto romanziere, ma poeta e
autore di distillati di saggezza, alcuni dei quali sono raccolti nella
piccola antologia suggestivamente intitolata La tigre nella bocca del
diamante (Minimum fax, trad. di Aurora Caredda, pp. 131, euro 8,26). Vi si
leggono, per esempio, professioni di fede nelle virtu' trascendentali dei
poeti, che per cantare le sfere segrete delle nostre esistenze "hanno
bisogno di vivere dove altri non si curano di guardare" e contano tra i loro
nemici soprattutto coloro che si adoperano a immiserire il senso di
meraviglia del mondo a cui Ben Okri e' particolarmente devoto.
La sua fama tocco' improvvisamente tutti i continenti quando vinse nel 1991
il Booker Prize grazie alla caleidoscopica vena immaginifica riversata nel
romanzo La via della fame. Ne e' protagonista uno spirito-bambino che
partecipa di entrambe le sue nature senza volere decidere a quale aderire,
gia' abbastanza stordito dall'essere nato nel cuore di quello che gli sembra
un gran paradosso, ovvero che la sua vita di bambino preveda la
ineluttabilita' della morte. E cosi' va e viene tra i due mondi, quando si
ammala ingaggia lotte furibonde con i suoi compagni dell'altra sponda
perche' lo lascino tornare quaggiu' e quando finalmente riapproda tra noi ci
porta in dote immagini meravigliose con le quali lascia in sospeso la nostra
credulita', immagini che godono di una logica onirica e ci sollevano dai
nostri radicamenti nella razionalita', trasportandoci dove e' possibile
tutto cio' che e' pensabile. Del resto, ha scritto Ben Okri, il presente
conta tra gli antagonisti dei poeti tutti coloro che hanno paura della
realta' sprigionata dalle alchimie delle parole, mentre il passato ha
iscritti in se' i primi narratori nelle vesti di "maghi, veggenti, bardi,
griots, sciamani". Erano questi gli antichi maestri capaci di trasformare i
misteri in miti, cosi' da "aiutare la comunita' a superare di volta in volta
l'oscurita' con occhi bene aperti e cuori accesi". Spesso ingaggiati dai re,
questi narratori dei quali Ben Okri si sente un erede, divennero "la memoria
delle origini di una nazione": si aggiravano preziosi come "biblioteche
viventi" e si proponevano come "custodi delle leggende e della tradizione".
Benche' alcune sue pagine siano profondamente radicate nel contesto della
guerra civile nigeriana, la vena di Ben Okri sembra alimentarsi molto di
piu' che al genere del reportage in forma di finzione alle storie "degli
incantatori africani", storie che gli arrivano come "viaggi entro i sogni
dimenticati dei secoli" e gli appaiono cosi' prepotenti da ricordare i
"fiumi che reclamano la loro terra". Nonostante la sua scrittura sia
straordinariamente lussureggiante di fantasie e proiettata in mondi che
trascendono la nostra finitezza, Ben Okri mostra nei suoi scritti saggistici
di apprezzare ugualmente quella prosa scarna che sembra non cercare valori
aggiunti, confidando nel contributo attivo di un lettore-ermeneuta. Un
lettore il cui compito di completare cio' che legge si risolve
essenzialmente nel ricongiungersi a quel "disagio umano fondamentale che e'
l'indizio dell'umana imperfezione". Del resto, scrive Ben Okri, dove "c'e'
perfezione non ci sono storie da raccontare". Quanto a lui, ricorda che
comincio' a scrivere in un piovoso pomeriggio dei suoi quattordici anni:
rimasto solo in casa, per ingannare il tempo prese un foglio di carta e si
propose di disegnarvi quel che vedeva allineato sulla mensola del caminetto.
Gli ci volle all'incirca un'ora e cio' che ne venne fuori lo giudico'
"orribile". Poi prese un altro pezzo di carta e si dispose a scriverci una
poesia: gli ci vollero dieci minuti e il risultato gli parve "tollerabile".
Da allora decise che la sua strada era segnata e che tanto per cominciare si
sarebbe proposto di ricombinare insieme l'invenzione di nuovi sogni e
vecchie memorie d'infanzia.
E' chiaro che l'autore nigerano della Via della fame assegna agli scrittori
un potere non solo taumaturgico ma anche profetico: infatti li descrive come
"sismografi che misurano l'avvicinarsi di terremoti nello spirito dei
tempi", mentre ribadisce il suo radicamento nelle astrazioni proprie della
mente africana, il cui "narrare e' essenzialmente filosofico".
*
Non altrettanto disposto a generalizzare, interrogato sulla specificita'
della scrittura africana il keniota Ngugi wa Thiong'o risponde che "andrebbe
considerata, piuttosto, l'individualita' di ciascun autore, non diversamente
da quanto e' lecito proporsi esaminando qualsiasi altra letteratura". Il suo
rigore si espresse fin dall'inizio nella risposta che diede a una questione
divenuta per lui assillante: come riannodare, anche nella scrittura di
finzione, quel legame con le masse che era indispensabile per guadagnarsi
incisivita' politica. Diversamente da quanto aveva creduto uno scrittore
pure emblematico come Achebe, il quale contava sul tradizionale ruolo-guida
degli intellettuali, per Ngugi gli scrittori non potevano e non possono
limitarsi a parlare in nome delle moltitudini che rappresentano, perche'
devono invece adottare "i loro stessi termini". Sarebbe stato necessario,
dunque, superare la frattura espressa dalla imposizione delle lingue
europee, e tornare agli idiomi locali. Ngugi lo fece, ripetutamente e senza
esitazione. Dopo avere esordito con racconti, opere teatrali e romanzi in
inglese, si ando' impegnando in una battaglia per "decolonizzare
l'immaginario" e spostare il centro della letteratura dalla lingua inglese,
francese e portoghese alla prospettiva infinitamente piu' plurale delle
lingue africane. Di tutto il suo tragitto biografico parla negli scritti
contenuti in Spostare il centro del mondo (a cura di Cristina Lombardi-Diop,
trad. di Carmen Nocentelli Truett, Meltemi, 2000), dove a piu' riprese rende
il suo tributo commosso alle secolari lotte dei lavoratori, al loro orgoglio
nazionale, alla dignita' con cui sfidarono la potenza dell'impero britannico
e costrinsero il colonialismo a ritirarsi, per paura del contagio che il
modello della resistenza Mau Mau avrebbe potuto diffondere nelle altre
colonie britanniche.
C'era bisogno che queste lotte ritrovassero i loro cantori, soprattutto dopo
che il regime di Moi aveva tentato di metterne a tacere l'eco. Lo stesso
Ngugi venne rinchiuso, nel 1977, in un carcere di massima sicurezza per
avere scritto - insieme a Ngugi wa miru - l'opera teatrale intitolata Mi
sposero' quando vorro', tra le cui pagine si ribadisce come il ruolo
protagonista nella decolonizzazione del Kenia sia spettato a persone del
tutto comuni: l'accusa era di rivolgersi "al popolo, in una lingua che il
popolo poteva capire". Un analogo provvedimento colpi' di nuovo Ngugi
quando, nel 1982, cerco' di mettere in scena ancora un lavoro sullo stesso
tema, intitolato Maitu njugira. Allora la polizia chiuse il teatro e, di
nuovo, quando quattro anni piu' tardi usci' nella lingua kikuyu il romanzo
Matigari arresto' l'autore. Protagonista del libro e' un uomo che non arriva
a comprendere come mai l'ultima parola su cio' che viene prodotto non spetti
a coloro che quel manufatto lo hanno lavorato, e come mai la menzogna venga
sistematicamente premiata: cosi' si mette a girare per il paese e a porre
questioni imbarazzanti sulla verita' e sulla giuistizia. In molti si
affezionarono al personaggio di Matigari e la sua fama comincio' a
propagarsi come se si trattasse di una persona realmente esistita: il
dittatore Moi ordino' dunque il sequestro del libro e i magazzini della casa
editrice vennero svuotati. La formazione di Ngugi - che e' nato a Limuru,
sul bordo della Rift Valley, nel 1938 - si avvio' alla fine degli annni '50
quando raggiunse l'Uganda per studiare all'universita' di Makerere, che era
la capitale intellettuale dell'Africa orientale e centrale, dove ci si
rifugiava anche per scampare al terrore scatenato dagli inglesi nel
rispondere alla resistenza Mau Mau: e' qui, a Makerere che, scoprendo
l'esistenza delle letterature africane e di quelle caraibiche, Ngugi provo'
i suoi primi entusiasmi nel leggere il mondo da un centro che non fosse
l'Europa. Ed e' qui che scopri' di avere una vocazione letteraria.
Il suo romanzo piu' famoso resta ancora Un chicco di grano, libro dalla
struttura complessa ma dalla lingua piana e trasparente, che sullo sfondo ha
sessant'anni di lotte sostenute dal popolo keniota per l'indipendenza: Ngugi
lo scrisse a Leeds, dove studiava come borsista del British Council, e lo
pubblico' nel 1967, mentre tra gli studenti africani che esibivano il libro
di Frantz Fanon, I dannati della terra, si andava facendo strada la
necessita' di tornare alle loro lingue originarie. Ngugi era tra quegli
studenti: aveva appena pubblicato un romanzo in inglese per celebrare le
moltitudini fatte di contadini, falegnami, poveri lavoratori, grandi
portatori di pesi, e pero' proprio loro non sarebbero stati in grado di
leggerlo: "avevo ermeticamente sigillato le loro vite in un contenitore
linguistico", fu il suo commento a posteriori. E proprio da quella
consapevolezza parti' la sua stagione piu' matura, quella che avrebbe
lavorato, almeno dal punto di vista linguistico, a "spostare il centro del
mondo".
*
Postilla. Il convegno. Una occasione per addentrarsi nella letteratura
africana
La prima edizione del premio Grinzane for Africa, che verra' assegnato oggi
ad Addis Abeba, ha scelto come vincitori il keniota Ngugi wa Thiong'o, il
nigeriano Ben Okri, e il giovane angolano Ondjaki. L'iniziativa fa parte
delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della fondazione della
United Nations Economic Commission for Africa. Il premio nasce con un
duplice intento: da una parte celebrare scrittori africani gia' affermati
nel mondo e tradotti in numerose lingue, dall'altra segnalare giovani autori
che si stanno affacciando sulla scena internazionale, rendendo possibile la
pubblicazione di una loro opera tradotta in Italia. Il progetto prevede
l'attribuzione del premio, per ogni singola edizione, a rotazione nei
diversi paesi africani. I tre autori premiati rappresentano due importanti
aree linguistiche africane, l'anglofona e la lusofona. Il 23 ottobre presso
l'Istituto di Cultura, parallelamente alla consegna del premio, verra'
organizzato un convegno dal titolo "Time for Africa. The Kaleidoscope of
African Literature" che sara' imbastito sul rapporto tra il mondo della
letteratura italiana e l'Africa. Vi parteciperanno la scrittrice camerunense
francofona Werewere Liking, la scrittrice ruandese Scholastique Mukasonga,
gli scrittori etiopi Wondesen Adane, Sahle Sellassie Berhane Mariam e Sisay
Negussu e per l'Italia Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Claudio Gorlier,
Giovanni Porzio, oltre ai vincitori del premio Ngugi wa Thiong'o, Ben Okri e
Ondjaki. Il convegno intende essere un momento di dialogo tra il mondo
africano e quello occidentale. Piu' che una ricognizione sulla produzione
letteraria contemporanea, l'incontro si propone di offrire agli scrittori
un'occasione per raccontare se stessi e il proprio mondo; mentre per gli
ascoltatori europei sara' un'occasione per scoprire che l'Africa non si
identifica con i suoi villaggi fatti di capanne, o con le foreste o con le
sue pur numerose guerre, ma anche con voci letterarie versatili e
rappresentative di diversi temi e stili.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 238 del 26 febbraio 2009

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