Voci e volti della nonviolenza. 304



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 304 del 24 febbraio 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Il mio Novecento" di Angelo Del Boca (parte prima)

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "IL MIO NOVECENTO" DI ANGELO DEL BOCA (PARTE
PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Angelo Del Boca, Il mio Novecento, Neri Pozza, Vicenza 2008]

Indice del volume
Introduzione; 1. L'oro della valle Antigorio; 2. Il peso assurdo del caso;
3. Una difficile scelta; 4. Crodo nella bufera della guerra; 5. Tra maestri
e padrini; 6. Il privilegio di viverle accanto; 7. Ho mancato di rispetto a
d'Annunzio; 8. Capocronista a Torino; 9. Una, dieci, cento battaglie; 10.
Fra giornalismo e fotogiornalismo; 11. Ho scelto la casa socialista; 12. Le
lunghe notti in via Fava; 13. Aspetto un segno da te, uno qualsiasi; 14. I
miei amici preti; 15. Alla guida dell'Istituto storico della Resistenza di
Piacenza; 16. Come non diventai senatore; 17. L'arma proibita di Mussolini;
18. Aspettando il colonnello Gheddafi; 19. Scene di pieta' a Calcutta e in
Ossola; 20. Diario ossolano; 21. Bilancio di un secolo; 22. L'universita'
prima mi boccia, poi mi premia; 23. Italiani, brava gente? 24. La mia
Africa; 25. Lavorare non stanca; Note; Indice dei nomi.
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Da pagina 5
Introduzione
Sono nato nel maggio del 1925, ma i miei ricordi vanno piu' indietro, almeno
di un decennio. Mentre gli altri bambini venivano allietati con le fiabe di
Jakob Grimm o con le storie eroico-sentimentali di Edmondo De Amicis, a me
toccava ogni giorno entrare nell'inferno delle trincee dell'Isonzo a causa
di un padre ossessionato dai gas e dalle mattanze della prima guerra
mondiale.
A fare di me un buon testimone del Novecento e' valsa anche la mia scelta
professionale, che mi ha portato in ogni angolo del mondo, dove c'era
qualcosa di insolito o di catastrofico da verificare. Cosi' posso ben dire
di aver vissuto quasi l'intero secolo, pienamente e dotato degli strumenti
piu' validi per percepirlo. Per oltre sessant'anni, infatti, prima come
giornalista, poi come storico e docente, ho lavorato per fornire
informazioni agli altri. E' stato un lavoro particolarmente gradevole,
perche' secondato da un'inesauribile curiosita' e dal piacere di tradurre in
parole, in immagini, in verita' a volte scomode, cio' che ho visto da
"inviato speciale" o scoperto da studioso nelle carte degli archivi. E'
stato soprattutto un grande bisogno di testimoniare, di denunciare menzogne
e mistificazioni, che mi ha fatto scegliere quelle professioni. E penso che
continuero' sino alla fine dei miei giorni, fintantoche' mi restera' un
lettore e un contestatore, a esercitare il mio diritto-dovere di
testimoniare e di informare.
Fatte queste premesse, penso di poter offrire una visione abbastanza fedele
del Novecento e dintorni intrecciando la mia vita professionale con gli
avvenimenti di cui sono stato testimone. Per rileggere il passato, ritengo
che il miglior modo sia quello di raccogliere in questo volume scritti editi
e inediti che abbiano un qualche risvolto autobiografico. Per esempio,
reportage da paesi, come Algeria, Etiopia, Libia, Israele, Sudafrica,
Vietnam, le cui vicende hanno influenzato la mia esistenza e destato
l'interesse di milioni di uomini. Ma c'e' molto, del secolo appena concluso,
anche in tanti miei racconti apparsi su quotidiani e riviste ormai
scomparsi. E in brani di libri non piu' ristampati. E in pagine di diario,
dove mi sono confessato e dove ho cercato conforto.
Non e' stato un lavoro facile. La parte piu' ardua e faticosa di questo
assemblaggio e' stata quella di reperire il materiale necessario nel mio
archivio, seguendo gli stessi criteri che impiego quando debbo scrivere un
libro di storia. Si e' trattato, dunque, di raccogliere un'infinita' di
documenti, di selezionarli con estrema severita' e di trovare un collante e
un filo conduttore per rendere percettibile la storia di un uomo e, nello
stesso tempo, la storia del secolo che lo ha avuto come testimone. Spero di
esserci riuscito.
Come scrivo piu' diffusamente in un'altra parte del libro, il Novecento e'
stato un secolo denso di avvenimenti, molto spesso crudeli, come pochi
altri. Un secolo che ha visto due guerre mondiali, con un centinaio di
milioni di morti e l'impiego di armi nuove e devastanti. Ha visto
l'Olocausto e la proliferazione dei Gulag. Ha visto il massacro degli
armeni, dei libici, degli etiopici, dei malgasci, dei vietnamiti, degli
algerini. Ha visto la decimazione degli abitanti di Nanchino e lo sterminio
di due milioni di cambogiani, di cui restano piramidi di teschi. Ha visto
una serie quasi ininterrotta di guerre locali, di conflitti razziali, di
"pulizie etniche". Ha visto i paesi dell'Occidente diventare sempre piu'
ricchi e quelli del Terzo e Quarto Mondo diventare sempre piu' poveri.
Anche per l'Italia il Novecento non e' stato un secolo clemente. Un milione
di morti nelle due guerre mondiali; vent'anni di isolamento e di liberta'
calpestata a causa della dittatura fascista; un paese da ricostruire
interamente dopo il 1945. Poi qualche decennio di tregua, che ha visto la
modernizzazione del paese, il tentativo, in parte riuscito, di raggiungere
l'uguaglianza sociale, realizzare le prime grandi riforme, a cominciare da
quella della sanita'. Una tregua interrotta pero' dagli anni di piombo e
dall'estendersi su tutta la penisola di una criminalita' organizzata i cui
introiti la rendono oggi la prima azienda italiana.
Dunque, non e' per nulla confortevole il bilancio di fine secolo. Siamo al
primo posto, in Europa, per il calo demografico e l'invecchiamento della
popolazione. Siamo al decimo, nel mondo, fra i paesi che piu' inquinano.
L'emigrazione dei cervelli non conosce sosta. Il peso del debito pubblico
(70 miliardi di euro di interessi passivi ogni anno) condiziona pesantemente
l'attivita' di ogni governo. Lo spreco nella pubblica amministrazione ha
raggiunto livelli mai visti. L'immigrazione cresce in maniera tumultuosa e
produce, sotto la regia leghista, forme di inusitato razzismo e la paranoia
dell'invasione. Per finire, lo scandalo di "Mani pulite" ha posto fine alla
prima repubblica.
Non c'e' stato, malauguratamente, un cambio di tendenza con l'inizio del
nuovo secolo e del terzo millennio. Alle vecchie piaghe se ne sono aggiunte
altre, non meno preoccupanti. Dopo una breve pausa, hanno ripreso ad agire
le Brigate Rosse con gli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi. Il
sistema politico del bipolarismo e dell'alternanza non funziona piu' mentre
il distacco dei cittadini dalla politica si e' fatto molto grave, tanto da
dar fiato ai "grilli parlanti". La fragilita' delle strutture produttive
sommata all'incapacita' di eseguire le opportune riforme e ai troppi veti,
crea nel paese un'incertezza diffusa. La poverta' non da' tregua a strati
sempre piu' consistenti della popolazione. L'insicurezza spinge i cittadini
ad acquistare un'arma. Crolla il consenso nelle istituzioni: si salvano
soltanto le forze dell'ordine e il presidente della repubblica. Cresce la
quota di italiani che considera legittima l'evasione fiscale. Il 2007 verra'
anche ricordato per la strage alla Thyssen-Krupp e per le 1.362 "morti
bianche". Ma sara' anche ricordato per la strage ininterrotta di
extracomunitari nel canale di Sicilia.
Di questa sofferenza del paese scrivono anche autorevoli giornali come il
"New York Times": "Tutto il mondo ama l'Italia [...], ma l'Italia non sembra
piu' amare se stessa. La parola usata da queste parti e' malessere e indica
una sorta di depressione collettiva - economica, politica e sociale - ben
riassunta in un sondaggio recente, secondo cui gli italiani, anche se
sostengono di essere maestri nell'arte del vivere, sono il popolo meno
felice nell'Europa occidentale".
Che esista un malessere in Italia, e non da oggi, e' un fatto sicuramente
accertato. Ma non c'e' nulla di nuovo, di estremamente inquietante, nella
denuncia del "New York Times" e di altri foglio. Malessere non significa
declino. Altre volte il nostro paese si e' trovato a dover affrontare crisi
che sembravano insormontabili. Si pensi soltanto agli anni dello stragismo
di destra, con uno spaventoso bilancio di morti e feriti; ai vent'anni della
sfida brigatista, con l'assassinio di Aldo Moro; all'offensiva della mafia
nel 1992 che porto' all'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nonostante questi gravissimi avvenimenti, l'Italia riusci' a superare le
crisi e a riprendere il suo cammino.
Malessere, dunque, sfiducia nelle istituzioni, pessimismo, ma non declino
inarrestabile di una nazione, come alcuni proclamano con impulsi
autodistruttivi. Non e' in declino un paese che ha condotto con successo
alle Nazioni Unite la campagna contro la pena di morte e ha un peso
crescente sullo scenario mondiale. Non e' in declino un paese che possiede
enormi risorse umane e collaudate capacita' di reagire anche nelle
situazioni piu' difficili. E gia' si avvertono segnali di ripresa, come il
netto calo della disoccupazione, lo straordinario incremento del commercio
estero, il fatto che nel solo 2007 le industrie italiane hanno fatto
acquisti di aziende straniere per 57 miliardi di euro, la coraggiosa presa
di posizione degli imprenditori di Palermo, che sfidano la mafia
rifiutandosi di pagare la tangente e denunciando gli estorsori. E' la prima
volta che accade. E' un segnale forte.
E infine io continuo a riporre una grande fiducia in quell'esercito di
quattro milioni di volontari, "che ogni giorno, in silenzio, quasi in
segreto, scende nelle strade d'Italia e del mondo per combattere la
sofferenza nei suoi mille aspetti". Un paese che possiede una tale risorsa,
che molti ci invidiano, non puo' soggiacere a lungo nel malessere, non puo'
imboccare la strada del declino.
Torino, primo maggio 2008
*
Da pagina 330
L'arma proibita di Mussolini
La principale accusa che avevo cominciato a formulare, a partire dal 1965,
contro il regime fascista, era quella di aver usato l'arma chimica nelle sue
guerre africane. Non era soltanto un delitto condannato dal trattato
internazionale di Ginevra, lo era anche in quanto violenza premeditata e
pianificata contro popolazioni considerate inferiori e comunque "diverse".
I gas erano stati usati sporadicamente in Libia nel 1928 e nel 1930, durante
le campagne per la riconquista della colonia, e sistematicamente in Etiopia
fra il 1935 e il 1939. Consideravo questo intervento bellico un atto
gravissimo, anche perche' era stato praticato nel piu' assoluto segreto, a
conoscenza soltanto degli alti comandi dell'esercito e dell'aviazione.
Le mie rivelazioni, infatti, destarono all'inizio incredulita' e sdegno,
tanto che si dubito' delle mie fonti e della mia obiettivita' di storico.
Poi, con il passare degli anni, quando del problema cominciarono a
occuparsene anche i fogli del neofascismo e di un conservatorismo
nostalgico, allora la campagna denigratoria nei miei confronti non conobbe
piu' limiti ne' pause e si trasformo' in un autentico linciaggio. Cio' che
mi disturbava, soprattutto, era il silenzio delle autorita' militari, che
conoscevano perfettamente cio' che era accaduto in Africa, perche' erano
depositarie dei documenti che provavano l'impiego dei gas.
Fu soltanto nel febbraio 1996 che il ministro della Difesa, generale
Domenico Corcione, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari, ammise
l'uso dell'arma chimica in Etiopia e corredo' la dichiarazione con alcuni
documenti firmati da Badoglio. In uno di questi, il maresciallo certificava
che nella sola battaglia dell'Enderta' erano state impiegate 60 tonnellate
di iprite. Il saggio che segue, che ho voluto intitolare Una lunga battaglia
per la verita', riassume trent'anni di attivita' e di scontri per riuscire a
imporre all'attenzione dell'opinione pubblica un crimine rimasto impunito e
per tanti decenni rimosso dalla memoria collettiva. Il saggio fa parte di un
volume dal titolo I gas di Mussolini, apparso nel 1996 presso gli Editori
Riuniti.
*
Una lunga battaglia per la verita'
La rimozione delle colpe
Il segreto e' durato ottant'anni. Se qualcuno, documenti alla mano, cercava
di dimostrare che il regime fascista aveva usato l'arma chimica nel corso
delle sue guerre africane veniva prontamente sbugiardato, messo a tacere in
malo modo, minacciato o, nel migliore dei casi, deriso e messo alla gogna
come antitaliano. Mai segreto e' stato tanto caparbiamente difeso, prima dal
regime fascista, poi dall'Italia della prima repubblica. C'e' voluto
l'insediamento di un governo di tecnici, quello di Dini, perche' il
Ministero della Difesa, prima nella persona del sottosegretario Carlo Maria
Santoro e poi in quella del ministro Domenico Corcione, si decidesse ad
ammettere cio' che siamo andati scrivendo dal 1965 e che ora cercheremo di
riassumere.
Firmataria a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque Stati, di un
trattato internazionale che proibiva l'utilizzo di armi chimiche e
batteriologiche, neppure tre anni dopo l'Italia violava il solenne impegno
usando gas asfissianti (fosgene) per annientare la tribu' ribelle dei
mogarba er raedat, che agiva nella Sirtica. Dopo gli attacchi aerei del 6
gennaio e del 4, 12 e 19 febbraio 1928, il generale Cicconetti scriveva in
un suo rapporto: "A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il
fatto che basta ormai l'apparizione dei nostri apparecchi perche' grossi
aggregati spariscano allontanandosi sempre piu'". Accertata l'efficacia
distruttiva ma anche terrorizzante dell'arma chimica, il governatore della
Libia, generale Pietro Badoglio, autorizzava il 31 luglio 1930 un
bombardamento all'iprite dell'oasi di Taizerbo, dove si sospettava avessero
trovato rifugio nuclei di ribelli fuggiti dalla Tripolitania in seguito alle
grandi operazioni di polizia coloniale condotte da Graziani. In realta'
nell'oasi non c'era un solo ribelle. L'iprite fece strage di pastori e
contadini.
Dell'impiego dei gas nelle operazioni per la riconquista della Libia, in
Italia non giungeva alcuna eco, tanto era fitta la griglia della censura.
Non era cosi', invece, per il mondo arabo, subito informato di questa e di
altre infamie. Ma il regime fascista non sembrava preoccuparsi troppo per le
campagne di stampa antitaliane e per la minaccia, formulata da alcune
organizzazioni arabe, di boicottare merci e istituzioni italiane. Anche
quando, nel 1935, veniva decisa l'aggressione all'Etiopia, Roma sembrava
disinteressarsi delle possibili reazioni dell'opinione pubblica
internazionale e non mostrava alcuna esitazione nell'inviare in Eritrea e in
Somalia forti quantitativi di aggressivi chimici, i quali non passavano
inosservati durante il transito delle navi italiane nel canale di Suez. Tra
l'agosto 1935 e il maggio 1936 venivano stoccati, nei depositi di Sorodoco',
Adigrat e Adua, ben 617 tonnellate di materiali per il servizio chimico. In
Somalia, alla fine di settembre del 1935, risultavano sbarcate 36 tonnellate
di iprite.
Se in Libia, come abbiamo visto, il ricorso all'impiego dei gas era
abbastanza limitato sia per la frequenza degli attacchi sia per il
quantitativo di aggressivi usati, in Etiopia la guerra chimica assumeva
invece un ruolo di primo piano, anche se non sara' determinante per le sorti
del conflitto. Si puo' anzi sostenere che Badoglio e Graziani avrebbero
comunque vinto la guerra anche senza ricorrere ai gas, vista la superiorita'
schiacciante dei loro eserciti e il dominio assoluto dei cieli. E questo
fatto rende ancora piu' pesante la responsabilita' di Mussolini, il quale,
durante i sette mesi della guerra, si e' sempre arrogato la facolta' di
ordinare o di sospendere l'uso dei gas, dispensando la morte piu' in base ai
suoi calcoli politici che alle sue intuizioni strategiche.
L'inizio della guerra chimica coincideva con l'arrivo delle armate etiopiche
in prossimita' delle linee italiane, tanto sul fronte Nord quanto sul fronte
Sud. Per bloccare l'avanzata di ras Immiru', che aveva riconquistato lo
Scire' e puntava speditamente all'Eritrea, e quella di ras Desta' Damteu,
che aveva come primo obiettivo Dolo italiana, Mussolini autorizzava Badoglio
e Graziani a parare la duplice minaccia ricorrendo all'uso sistematico dei
gas. Dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936 la sola aviazione effettuava il
lancio di 972 bombe C.500.T sugli obiettivi del fronte settentrionale, per
complessive 272 tonnellate di iprite. Ma gia' il 9 gennaio, dopo i
bombardamenti di Dembeguina', Addi Rassi, Mai Timchet, Meyda Merra e dei
guadi dei torrenti Buffa, Segala' e Gomina', Badoglio segnalava al ministro
delle Colonie Lessona che la pressione dell'avversario era diminuita poiche'
"l'impiego dell'iprite si e' dimostrato molto efficace, specie verso la zona
del Tacazze'. Circolano voci di terrore per gli effetti dei gas". Badoglio
ricorreva anche alle artiglierie per gasare gli etiopici. Nel corso della
battaglia dell'Amba Aradam (11-15 febbraio 1936) le batterie da 105/28
sparavano infatti 1.367 proiettili caricati ad arsine.
Sul fronte meridionale, l'offensiva a base di aggressivi chimici cominciava
il 24 dicembre 1935, due giorni piu' tardi che sul fronte Nord, e
proseguiva, con alcune interruzioni, sino al 27 aprile 1936. In questi
quattro mesi l'aviazione della Somalia sganciava 95 bombe C.500.T a iprite,
186 bombe da 21 chilogrammi a iprite e 325 bombe a fosgene da 41
chilogrammi, per un totale complessivo di 44 tonnellate di gas. Il maggior
numero di bombe veniva scaricato sui centri dell'Ogaden, come Sassabaneh,
Dagahbur, Hamanlei, Bircut, Gunu Gadu e Bullaleh, dove l'armata del degiac
Nasibu' Zamanuel opponeva una resistenza disperata. Ma un notevole
quantitativo di iprite e di fosgene (137 bombe) veniva lanciato anche su
Areri, Dida Ringi, Gogoru, Malca Dida, Neghelli e Uadara' mentre Graziani
inseguiva con le sue colonne celeri l'armata in disfacimento di ras Desta'
Damteu. "Risulta che i grossi riuniti risalgono il canale Doria e la strada
di Neghelli in piena ritirata" telegrafava Graziani a Lessona il 15 gennaio
1936. "Ovunque lungo il fiume e nelle caverne rinvengonsi centinaia di morti
per gas, stenti e ferite". Non risulta, invece, che Graziani abbia usato
proiettili di artiglieria caricati a gas.
Secondo i calcoli di Giorgio Rochat, che ha lavorato a lungo sui documenti
conservati negli archivi militari italiani, la sola aviazione avrebbe
lanciato durante il conflitto italo-etiopico 1.597 bombe a gas, in gran
parte del tipo C.500.T, per un totale complessivo di 317 tonnellate. Ma lo
stesso autore riconosce che le sue "ricerche si son limitate alle cartelle
apparentemente piu' interessanti degli archivi militari citati (oltre un
centinaio) e quindi non possono avere pretese di completezza". Anche altri
storici che hanno studiato il problema sono prudenti nel fornire le cifre
definitive delle bombe sganciate. Roberto Gentilli propende per 1.593 bombe,
cosi' suddivise: 1.020 lanciate sul fronte Nord e 573 sul fronte Sud.
Alberto Sbacchi, dopo un accurato esame delle operazioni di carico e scarico
dei magazzini, propende invece per 2.582 bombe. Egli aggiunge, inoltre, che
altre 524 bombe a gas sono state usate, dopo l'occupazione di Addis Abeba,
durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Sul periodo 1936-1939
Gentilli e' ancora piu' preciso. Dopo aver esaminato i "Diari storici" dei
vari stormi, calcola in 99 i bombardamenti a gas, con l'impiego di 296 bombe
C.500.T, 195 bombe C.100.P e 60 bombe da 40 chilogrammi al fosgene. Anche se
questa tragica contabilita' appare ancora incompleta, si puo' comunque
ritenere che dal 1935 al 1939 siano state sganciate sui soldati e sui civili
etiopici non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.
Resta da aggiungere che il regime fascista ha sempre respinto le accuse del
governo etiopico di aver fatto ricorso ai gas. "La guerra chimica" fa
rilevare Rochat "fu infatti cancellata dalla stampa, dalla produzione
documentaria e memorialistica e dalla coscienza popolare con un'efficacia
che ha pochi precedenti". Ancora nel dopoguerra e sino a pochissimi anni fa
era impossibile affrontare l'argomento in sede storiografica senza essere
incolpati di falso e di vilipendio delle forze armate.
*
Da pagina 341
Il sogno africano di Montanelli
L'altro mio grande contestatore era, come abbiamo gia' riferito, Indro
Montanelli. Questo giornalista, che poi nei sessant'anni successivi alla
guerra italo-etiopica avrebbe dominato la scena della carta stampata, aveva
ovviamente meno responsabilita' di Lessona in quello sciagurato conflitto.
La sola colpa di Montanelli era di aver creduto nel fascismo e nei suoi
valori e nell'ineluttabilita' del suo espansionismo in Africa: "Facemmo
domanda di partir volontari, senz'altro programma che quello di essere anche
noi - non ritardatari finalmente - su questa che e' oggi la vena pulsante
della Patria, il punto nodale della sua geografia e della sua storia".
Ma per Montanelli l'avventura africana era anche "una bella lunga vacanza
dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di banco di scuola. E, detto
fra noi, era ora". Non sorprende, quindi, che l'ammirazione di Montanelli
per Mussolini finisse per sconfinare nell'idolatria: "Oggi Egli e' diventato
l'unico spettatore delle nostre gesta. Intendo dire che tutto cio' che
facciamo e' a Lui solo riferito, del consenso o dell'indignazione altrui
poco importandoci. Il pubblico piu' non esiste. Finita l'epoca degli
amoreggiamenti e civettamenti con le folle, il rapporto con la societa' si
e' trasformato e condensato nel rapporto con un uomo". Per finire,
Montanelli era andato in Africa "anche per ragioni letterarie: non a cercar
'colore', ma a cercarvi una coscienza d'uomo. Necessaria: a tutti, ma
specialmente a un artista. Ecco il mio profitto personale in guerra: una
coscienza d'uomo. La quale mi permettera' molte cose e me ne vietera'
moltissime altre: e, per esempio, di fare domani, per professione, il
'reduce'".
In seguito Montanelli avrebbe rotto con il regime fascista e con il suo
fondatore e sarebbe addirittura finito in una galera gestita dalle SS. E
tuttavia, nel dopoguerra, avrebbe ostinatamente difeso l'avventura italiana
in Etiopia, pur riconoscendo che "il colonialismo era gia' in crisi in tutta
l'Africa e che l'Etiopia non sarebbe mai diventata una colonia di
'popolamento' in cui scaricare l'esubero della nostra manodopera". E
tuttavia non "riusciva a vergognarsene" perche' la maggioranza degli
italiani l'aveva desiderata e acclamata, e infine perche' aveva dimostrato
che il soldato italiano era diverso, piu' umano, piu' tollerante degli altri
conquistatori: "Sono convinto che il nostro colonialismo sia stato, fra
tutti, il piu' umano, o il meno disumano: come dimostra il ricordo che gli
stessi etiopici, per non parlare degli eritrei, conservano degli italiani".
In altre parole, il Montanelli storico condannava l'impresa etiopica come
anacronistica e rovinosa per l'economia, mentre il Montanelli reduce, a
dispetto degli impegni assunti, si univa al coro dei nostalgici per esaltare
l'avventura africana, che oltretutto gli ricordava gli anni verdi della
giovinezza, la moglie dodicenne comprata e rivenduta, e un sacco di altri
ricordi eccitanti.
Come Lessona, anche Montanelli non poteva condividere la mia impietosa
ricostruzione dei fatti, perche' essa non lasciava alcuno spazio ai suoi
tentativi difensivi, dettati piu' dalla nostalgia che dalla ragione.
Soprattutto non poteva sopportare che l'impresa africana, solare nei suoi
ricordi, potesse venire infangata da accuse infamanti come l'impiego
dell'arma chimica. Su questo punto Montanelli era irremovibile. Testardo
come un mulo. Pronto a menar fendenti a dritta e a manca. La sua certezza si
basava su due circostanze: l'essere stato di persona sul teatro degli
avvenimenti e l'aver raccolto una dichiarazione di Badoglio, secondo la
quale in Etiopia erano stati usati i gas soltanto "una volta, per sbaglio e
senza nessun effetto. Fu nella battaglia dell'Enderta' che un giorno una
batteria, di sua iniziativa, lancio' una bomba all'iprite, ma era
deteriorata e non ebbe conseguenze. Sarebbe stata una sciocchezza usare i
gas in quella guerra". Montanelli ha sempre avuto una grande considerazione
di se stesso e si e' sempre ritenuto piu' furbo degli altri. Ma questa volta
il vecchio maresciallo piemontese si prendeva gioco dello smaliziato toscano
perche' durante la battaglia dell'Enderta', che aveva personalmente diretto,
erano state sparate non una, ma 1.367 bombe caricate ad arsine.
Esattamente come Lessona, Montanelli comincio' a contestare il contenuto
delle mie pubblicazioni sin dal 1965. Due erano i rimproveri che mi muoveva:
l'avere espresso un giudizio estremamente severo sul colonialismo italiano e
l'aver denunciato l'impiego su vasta scala dei gas. Montanelli, pero', a
differenza di Lessona, non polemizzava direttamente con me. Mi colpiva
rispondendo ai suoi lettori, di cui curava la rubrica prima sul "Corriere
della Sera", poi sul "Giornale" e infine sulla "Voce". Per trent'anni,
metodicamente, spesso usando le stesse parole, quasi avesse azionato un
disco rotto, mi metteva alla gogna, quando non mi crocefiggeva. Il suo
linguaggio, infatti, gia' abitualmente pungente, nei miei confronti era
astioso, quando non era brutalmente offensivo. Piu' volte tentai di
replicare indicandogli la collocazione archivistica dei documenti piu'
significativi sull'impiego dell'arma chimica. Ma fu tutto inutile. Allora mi
disinteressai delle sue campagne diffamatorie e archiviai Montanelli fra i
casi disperati, incorreggibili.
Finche' un bel giorno d'agosto del 1995 ebbi la gradita sorpresa, sfogliando
il "Corriere della Sera", di scoprire che Indro Montanelli aveva dedicato al
mio ultimo libro, Il Negus. Vita e morte dell'ultimo re dei re, un'intera
pagina. La sorpresa fu ancora piu' gradita quando mi accorsi che il
linguaggio di Montanelli nei miei riguardi era totalmente cambiato. Non piu'
ostile, non piu' becero, ma estremamente educato e riguardoso. E non
mancavano gli elogi, come il riconoscimento che ero "certamente il piu'
serio e agguerrito storico del colonialismo italiano". Ma c'era di piu'.
Montanelli giudicava il saggio "bellissimo" e aggiungeva che il ritratto del
Negus era "il piu' completo e convincente fra quanti ne abbiamo letto in
tutte le lingue".
Montanelli, tuttavia, non aveva cambiato opinione. Attestava che ero serio e
brillante, ma restava tenacemente aggrappato alle sue posizioni: "Da Angelo
Del Boca mi separa una pregiudiziale di fondo: la tesi (sua) secondo cui
questo colonialismo fu particolarmente feroce. Secondo me - una volta
accettato e accertato che il colonialismo e' sempre un atto di ferocia,
quello italiano, anacronistico, rovinoso per l'economia nazionale, frutto e
fonte di ambizioni sbagliate, ispiratore della retorica piu' insopportabile
e arena di sfacciati carrierismi - fu pero' tra i piu' umani. E lo dico da
testimone, avendo partecipato, sia pure da piccolo ufficiale subalterno, al
suo capitolo, se non piu' glorioso, certamente piu' vistoso: la conquista
dell'Etiopia". Anche sulla questione dei gas Montanelli non aveva cambiato
parere: "Badoglio seppe usare con accortezza i larghissimi mezzi che
Mussolini gli mise a disposizione. Ma fra questi mezzi non vi furono i gas
tossici; o, se ci furono, vennero usati solo a scopo sperimentale in episodi
marginali".
Montanelli era stato molto garbato con me, ma la sua ostinazione meritava
una replica, che il "Corriere della Sera" ospitava l'indomani stesso della
comparsa del suo intervento. Scrivevo, fra l'altro: "Speravo proprio, dopo
trent'anni, che Indro Montanelli chiudesse finalmente questa polemica
ammettendo che le informazioni sulla guerra chimica in Etiopia, da lui
ricevute dal maresciallo Badoglio, non rispondevano alla verita', e dandomi
atto che la mia tesi era quella corretta. Montanelli, invece, si e'
trincerato ancora una volta dietro un perentorio 'io ero sul posto, non ho
visto segni di iprite'. E ha sostenuto, inoltre, che le testimonianze sui
gas che io cito sono tutte di fonte etiopica. Quindi di fonte sospetta". A
questo punto, per evitare che la polemica si esaurisse, ancora una volta,
con un nulla di fatto, proponevo a Montanelli di chiedere al Ministero degli
Esteri e al Ministero della Difesa, che sono i depositari degli archivi da
me consultati nella ricerca sui gas, "di intervenire nel dibattito con una
nota ufficiale, sciogliendo finalmente questo nodo della nostra storia
nazionale che tanto ha fatto e fa discutere".
Montanelli, sullo stesso numero del giornale, aderiva prontamente alla mia
proposta: "Io non dubito minimamente della serieta' dei documenti che lei,
caro Del Boca, ha citato. Dubito soltanto, da testimone oculare, della loro
rispondenza ai fatti. Per cui unisco al suo il mio invito ai ministeri
interessati perche' ci dicano finalmente se l'ordine di lanciare i gas fu
realmente impartito (il che e' probabile); e se fu realmente eseguito, il
che mi sembra difficile, per non dire impossibile per l'assoluta mancanza di
bersagli contro cui usarli. [...] Ma se dagli archivi dei ministeri
cosidetti competenti risultasse che noi - ascari e alpini - fummo buttati
alla controffensiva senza nemmeno avvertirci che avanzavamo in un inferno di
iprite; se tutto questo risultasse vero, non mi limiterei a chiederne scusa
a Del Boca. Reclamerei un processo alla memoria dei nostri comandanti con
finale condanna al rogo in effigie".
Montanelli non si era ricreduto, ma aveva accettato il lodo arbitrale della
Difesa e degli Esteri, e cio' costituiva un innegabile passo in avanti. La
polemica si sveleniva e diventava un sereno, costruttivo dibattito, quel
dibattito sul colonialismo che finalmente arrivava, sia pure con mezzo
secolo di ritardo. Lo rilevava anche Gianni Riotta, quando scriveva:
"Insomma, una civile contesa tra due professioni, lo storico che giura sugli
archivi, l'inviato che giura sui suoi occhi". La discussione si protraeva
tra agosto e ottobre, con un centinaio di interventi su quotidiani e
settimanali, che avevano una duplice e benefica funzione: quella di produrre
inedite testimonianze sul conflitto italo-etiopico e quella di risvegliare
l'interesse del grande pubblico per una pagina di storia ormai dimenticata.
*
Da pagina 356
Lungo il processo di smitizzazione
L'ammissione, da parte del governo, dell'impiego dell'arma chimica in
Etiopia, anche se tardiva e, per certi aspetti, ancora reticente, costituiva
tuttavia una grossa novita' per il nostro paese, dove sembra avere sempre
piu' fortuna la corrente revisionista. Il dibattito sui gas e sui crimini
del fascismo in Africa, che si e' svolto fra l'agosto del 1995 e il febbraio
del 1996 sulla stampa nazionale, quotidiana e periodica, non ha certo
raggiunto la dimensione, l'intensita' e la scientificita' che avevamo
auspicato, ma costituiva indubbiamente un buon avvio per contrastare quella
rimozione, quasi totale nella coscienza degli italiani, del fenomeno del
colonialismo e degli arbitrii, soprusi, crimini e genocidi a esso legati.
Se il governo Dini, primo fra i governi della Repubblica, ha avuto la forza
morale di interrompere quella spirale di omerta', che e' la causa prima
della rimozione di cui abbiamo parlato, c'e' da augurarsi che in futuro non
si facciano passi indietro, ma si prosegua quella ricerca della verita' che
ha gia' dato i suoi primi frutti. Quella di scavare nel nostro passato
coloniale non e' una impresa facile, ne' gradevole, lo riconosco. Ogni volta
che crolla un mito, perche' se ne rivela la falsita', bisogna fare i conti
con chi, in buona o mala fede, vi ha creduto, e non vuole arrendersi
all'evidenza, si ribella, non si da' pace. Montanelli, per esempio, ha
finalmente ammesso l'impiego dei gas in Etiopia, ma quando rinuncera' anche
alla sua visione mitizzata del colonialismo italiano? Scriveva il 29 ottobre
1995, in risposta a un lettore che gli chiedeva un giudizio globale sulla
conquista dell'Etiopia: "Sono convinto che il nostro colonialismo sia stato,
fra tutti, il piu' umano, o il meno disumano".
Era difficile accettare questo giudizio quando sul mio tavolo da lavoro
c'erano, allineate, quattro grandi fotografie che un "reduce d'Africa" mi
aveva fatto pervenire conservando pero' l'anonimato. Le foto erano
sprovviste di didascalie, ma per me, comunque, sarebbero state superflue. Si
trattava di quattro sequenze dell'ultimo oltraggio inflitto al patriota
etiopico Hailu' Chebbede'. Considerato dall'imperatore Haile' Selassie' come
uno dei suoi migliori generali (in particolare si era distinto nelle
battaglie dell'Amba Tzellere', di passo Uarieu e in quella conclusiva di Mai
Ceu), il degiac Hailu' Chebbede', dopo la sconfitta, non aveva abbandonato
l'Etiopia, come molti altri dignitari, e aveva subito organizzato la
guerriglia nella zona di Socota', la regione di cui era stato governatore.
Ben presto sarebbe diventato l'incubo del vicere' Graziani, perche' i suoi
audaci commando non si limitavano soltanto ad assalire i convogli che
transitavano sulle strade, ma attaccavano e saccheggiavano anche centri
dell'importanza di Quoram.
Nell'estate 1937 Hailu' Chebbede' invitava tutti gli etiopici a ribellarsi
agli italiani e in breve la rivolta assumeva dimensioni cosi' vaste da
costringere il maresciallo Graziani ad assumere personalmente la direzione
delle operazioni repressive. Anche perche' da Roma, dove all'inquietudine
stava per subentrare il panico, gli giungevano di continuo ordini e
sollecitazioni. Il 12 settembre, per esempio, il ministro dell'Africa
italiana, Lessona, gli inviava questo telegramma: "Il Duce raccomanda che,
non appena avrai forze riunite sufficienti, tu agisca con la massima energia
contro i ribelli usando ogni mezzo. Ivi compresi i gas. Bisogna
assolutamente riprendere al piu' presto il dominio della zona infetta
perche' il prolungarsi della situazione incerta favorisce l'estendersi della
ribellione".
Il 19 settembre Graziani investiva la regione di Socota' con ventimila
uomini, mentre l'aviazione bombardava e inondava di iprite i boschi dove
erano nascosti i partigiani di Hailu' Chebbede'. Nella mattinata del 24,
dopo un aspro combattimento e un vano tentativo di rompere l'accerchiamento,
il degiac veniva catturato e immediatamente passato per le armi. La
punizione era sicuramente feroce, ma rientrava nella normalita' dell'Etiopia
del 1937 occupata militarmente dagli italiani. Non rientrava, invece, nelle
pratiche ordinarie dell'esercito di una nazione civile la decapitazione
della salma di un avversario. Hailu' Chebbede' subiva anche questo
oltraggio.
Dopo il rifiuto del chirurgo militare Giuseppe Rotolo di staccare con i suoi
attrezzi la testa al degiac, un suo collega meno coscienzioso portava a
termine l'operazione. Subito dopo la testa veniva riposta in una grossa
scatola, che in origine aveva contenuto i biscotti Marie della Lazzaroni, e
portata a Quoram, dove sarebbe stata esposta sulla piazza del mercato come
monito ai ribelli.
Le fotografie che abbiamo sul tavolo riguardano le ultime scene della
macabra operazione. Nella prima c'e' un graduato italiano che e' chino sulla
scatola di biscotti e sta per aprirla. Dietro di lui, con le mani in tasca,
c'e' un ufficiale della milizia, un ufficiale dell'esercito, alcuni ascari e
soldati italiani. Nello sguardo di tutti c'e' una curiosita' intensa. La
seconda foto e' stata scattata quando il graduato si e' rialzato, ha aperto
la scatola e mostra, ridendo, il trofeo all'ufficiale della milizia. Ma e'
il solo a ridere. Gli altri hanno i muscoli della faccia contratti, sembrano
turbati. La terza foto e' un primo piano della testa del degiac, tenuta
verticale da una rozza gabbia in fil di ferro. Una mano caritatevole ha
chiuso gli occhi al morto, che sembra dormire. L'ultima foto mostra un alto
palo di legno sul quale hanno inchiodato due assi. All'estremita' del piu'
lungo e' appesa la testa del degiac Hailu' Chebbede', generale, governatore
dell'Uag, patriota. Restera' in quella posizione per molti giorni, sino a
quando diventera' irriconoscibile a causa del sole torrido e dell'assalto
degli uccelli.
Ci siamo dilungati su questo episodio perche' e' emblematico della nostra
presenza in Etiopia. Foto come queste, che abbiamo con tanta pena descritto,
se ne trovano a centinaia, forse a migliaia, negli archivi etiopici, in
particolare nella fototeca dell'Institute of Ethiopian Studies di Addis
Abeba, ma anche in fototeche italiane e in archivi privati. Abbiamo scritto,
altrove: "Negli archivi degli organi giudiziari scampati alle distruzioni
della guerra e nelle tasche dei prigionieri italiani, gli etiopici hanno
trovato, dopo la caduta dell'impero fascista, una documentazione fotografica
particolarmente atroce, allucinante. Ci sono, innanzi tutto, immagini con
forche di ogni tipo, rozze o ben finite, con appesi uno o piu' cadaveri. Non
c'e' citta' o villaggio, in Etiopia, dove non siano state rizzate delle
forche. Esse rappresentano il simbolo di una giustizia sbrigativa ma molto
efficace. Esse devono incutere rispetto e insieme terrore. Spesso i
carnefici italiani si fanno fotografare in posa dinanzi alle forche o
reggendo per i capelli le teste mozzate dei patrioti etiopici. In alcune
foto gli aguzzini innalzano le teste recise su picche. In altre le fanno
rotolare fuori da un cesto. In altre, ancora, le espongono in mostra su di
un telone, quasi fossero oggetti da baratto. Un sorriso incerto, impacciato,
e' stampato sul volto di questi militari italiani, che la propaganda
fascista indica come portatori di civilta' e benessere. In realta', in
questo loro crudele e macabro esibizionismo, c'e' soprattutto il disprezzo
per popolazioni che essi ritengono socialmente e culturalmente inferiori.
Tanta ferocia non puo' essere archiviata con la troppo comoda
giustificazione che anche altre nazioni colonialiste si sono macchiate in
Africa di analoghi delitti".
Ma c'e' anche la sofferenza non documentata dalle fotografie. Il dolore di
migliaia di patrioti etiopici rinchiusi nei campi di sterminio di Nocra e
Danane o deportati in Italia. Lo strazio dei familiari dei seimila abitanti
di Addis Abeba trucidati dopo il fallito attentato a Graziani. Il tormento
per l'uccisione dei 449 preti e diaconi della citta' conventuale di Debra'
Libanos. Questo e altro fanno del colonialismo italiano un colonialismo come
gli altri. Non "diverso", non piu' "umano", non piu' "tollerante", come
vorrebbe Montanelli e parte degli italiani. Ecco perche', nonostante
l'ammissione ufficiale dell'impiego dei gas, siamo soltanto all'inizio del
processo di smitizzazione di un'epoca.
(parte prima - segue)

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 304 del 24 febbraio 2009

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