Voci e volti della nonviolenza. 301



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 301 del 13 febbraio 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Memoria e conoscenza" di Tomas Maldonado

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "MEMORIA E CONOSCENZA" DI TOMAS MALDONADO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Tomas Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella
prospettiva digitale. Feltrinelli, Milano 2005]

Indice del volume
Prefazione; 1. Identita' personale e memoria; 2. Parlare, scrivere, leggere;
3. Memoria a occhio nudo; 4. Memoria in laboratorio: definizioni, paradigmi,
modelli; 5. Memoria e luoghi dell'abitare; 6. Computer, infanzia e sviluppo
cognitivo; 7. Pensare la tecnica, oggi; Appendice. 8. Gli occhiali presi sul
serio; 9. Sulla scrittura stereotipica e antistereotipica; Bibliografia;
Indice dei nomi.
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Da pagina 9
Prefazione
L'argomento discusso in questo saggio ruota intorno alla seguente domanda:
nel tipo di societa' che si va oggi configurando, una societa' in cui il
compito di elaborare, accumulare e reperire informazione dovrebbe svolgersi
prevalentemente in rete e tramite il computer, quale sara' il futuro della
memoria e del sapere? In breve, un cambiamento tanto radicale contribuira'
in avvenire a un potenziamento o a un depotenziamento della nostra capacita'
individuale e collettiva di ricordare e di conoscere?
In pratica, il libro qui proposto e' la continuazione di due altri da me
precedentemente pubblicati da Feltrinelli (Reale e virtuale, 1992 e 2005, e
Critica della ragione informatica, 1997). Una sorta dunque di trilogia il
cui denominatore comune e' il tentativo di misurarsi con l'impatto sociale,
politico e culturale che le nuove tecnologie dell'informazione e delle
telecomunicazioni possono avere nel futuro. Nel caso specifico, si cerca di
scorgere gli effetti destabilizzanti che dette tecnologie hanno (o possono
avere) sulle pratiche quotidiane del parlare, dell'ascoltare, dello scrivere
e del leggere e, pertanto, la loro influenza, positiva o negativa, sulla
memoria e sull'acquisizione del sapere.
E' ovvio pero' che nella trattazione del tema non si puo', come spesso
accade tra gli attuali esponenti della ricerca empirica sull'argomento,
trascurare i contributi, di sicuro speculativi ma talvolta fortemente
anticipatori, dei pensatori che, nel passato, hanno cercato di indagare
sulla natura (e funzione) della memoria.
Per questo motivo, ho voluto documentare tali contributi, soprattutto quelli
in cui, ante litteram, sono state avanzate ipotesi interpretative al centro
di molti degli attuali programmi di ricerca scientifica sui meccanismi del
ricordo e dell'oblio.
D'altra parte, pero', mi e' sembrato necessario familiarizzare il lettore,
pur a livello divulgativo, con le nozioni piu' frequenti nell'ambito della
ricerca scientifica della memoria, ma anche di presentare le grandi
questioni controverse e mettere in evidenza i problemi insoluti che non sono
pochi.
Benche' sulla memoria si sappia ora complessivamente piu' di quanto si
sapesse cinquant'anni fa, la verita' e' che alcuni grandi quesiti, forse i
piu' importanti, rimangono senza risposta. C'e' infatti un evidente divario
tra le conoscenze ormai acquisite su molti aspetti particolari dei processi
mnestici (per esempio, l'individuazione delle aree cerebrali coinvolte) e la
nostra impossibilita' di spiegare come, e con quali mezzi, tali aspetti si
integrano in unita' funzionali piu' vaste e composite.
Nelle questioni relative all'impatto delle nuove tecnologie sulla memoria si
constata un simile divario. Da un lato, l'importanza che ovviamente sta
assumendo l'uso del computer e del suo indotto comunicativo (internet,
videoscrittura, e-mail, news-groups, mud ecc.), dall'altro, la pressoche'
assoluta carenza di una riflessione adeguata sulle conseguenze non soltanto
sulla sfera mnestica, ma anche su quella del linguaggio, della percezione
audiovisiva e delle capacita' intellettive. Senza contare quella
dell'educazione.
Pur ammettendo tali incertezze e carenze, avanzo l'ipotesi che, in un futuro
non molto lontano, l'assetto della memoria umana, come risultato appunto
della diffusione massiccia dei mezzi informatici, possa essere destinato a
notevoli cambiamenti.
Ogni volta che, nel passato, si e' verificata una forte novita' tecnica nel
campo della comunicazione essa ha fatto sentire, prima o poi, la sua
influenza sulla nostra memoria.
In realta', gia' da molto si sostiene - soprattutto da parte di antropologi,
linguisti e storici - che il meccanismo umano del ricordo e dell'oblio non
sia immutabile, e che l'evoluzione delle tecniche di comunicazione debba
essere annoverata tra i principali fattori di mutamento. Un assunto, d'altra
parte, che i neurobiologi potrebbero sicuramente sottoscrivere, in
particolare se si tiene presente la loro teoria della plasticita' cerebrale
nei confronti delle sollecitazioni che provengono dall'ambiente.
In breve: se e' vero, come sembra, che l'avvento dell'Homo scribens abbia
contribuito a cambiare in non pochi aspetti la memoria dell'Homo oralis, e'
piu' che legittimo congetturare che con l'avvento dell'Homo digitalis possa
accadere lo stesso nei confronti della memoria dell'Homo scribens.
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Da pagina 64
Vediamo ora quali sono, nello specifico, gli aspetti della scrittura
tradizionale che vengono piu' sovente ritenuti negativi dai teorici della
scrittura elettronica:
a) linearita' descrittiva monodirezionale del flusso narrativo o
argomentativo;
b) consequenzialita' logica, legame tra premesse e conclusione, tra
antecedente e conseguente, tra soggetto e predicato;
c) compiutezza, il testo ha un inizio e una fine;
d) chiusura, il testo e' sigillato, non ammette interventi del lettore o di
un altro autore, neppure rapporti con altri testi non previsti dall'autore
nella stesura originaria.
In contrasto, la scrittura elettronica definisce i suoi propri aspetti
positivi in termini di non-linearita', non-consequenzialita',
non-compiutezza e non-chiusura.
Bastano queste due opposte caratterizzazioni per capire appieno l'oggetto in
discussione? No, certamente. Pur ammettendo che esse, in astratto,
sintetizzano molto bene la differenza tra i due tipi di scrittura, si
rivelano invece troppo generiche, e talvolta persino poco convincenti,
quando si passa ad esaminarle in concreto. La prima cosa che colpisce e' che
gli studiosi in questione non tengono conto della diversita' dei contesti a
cui tali caratterizzazioni fanno riferimento. Si privilegiano, per esempio,
i testi letterari, in particolare di narrativa, mentre quelli di saggistica
(filosofici, storici e scientifici) vengono solo marginalmente esaminati. Il
che forse si spiega, almeno in parte, con il fatto che i teorici della
scrittura elettronica provengono, nella stragrande maggioranza,
dall'insegnamento delle lingue, della scrittura, della letteratura e della
retorica.
Cio' non osta, pero', che i contributi piu' suggestivi di questi studiosi
siano, secondo me, appunto quelli in cui vengono esaminate le prospettive
dell'ipertestualita' elettronica nel campo dei testi narrativi. In concreto,
laddove s'ipotizza un tipo di romanzo radicalmente nuovo. In altre parole,
una letteratura dell'interattivita', della non-linearita', della
non-consequenzialita', della non-compiutezza e della non-chiusura; una
letteratura, infine, in cui l'autore e il lettore dovrebbero partecipare
all'unisono al processo di produzione del testo.
Romanzi cosi' concepiti esistono gia' numerosi. I piu' famosi sono quelli di
Michael Joyce, Shelley Jackson, Carolyn Guyer, Edward Falco, Robert Kendall
e Clark Humphrey.
*
L'albero genealogico
E' interessante rilevare che ai teorici della letteratura ipertestuale,
nonostante la radicalita' di molte delle loro asserzioni, piace spesso
elencare nomi di autori che, nella storia della letteratura, sarebbero stati
precursori del nuovo tipo di scrittura. Si tratta, in generale, di autori le
cui opere hanno contribuito, in un modo o in un altro, a mettere in
discussione i presupposti fondativi del romanzo. I piu' frequentemente
citati sono Sterne, James Joyce, Kafka, Pirandello, Borges, Queneau,
Robbe-Grillet, Sarraute, Calvino, Derrida e Cortazar.
A mio parere, di tutti questi autori, solo Joyce e Cortazar, e forse
allargando un po' le maglie anche Borges, possono essere ritenuti precursori
della prosa ipertestuale. Ma io credo che sia stato soprattutto Julio
Cortazar (1963), con il suo romanzo Rayuela - tradotto in italiano con il
titolo Il gioco del mondo -, ad aver esplorato, senza rinunciare ai consueti
mezzi della scrittura pre-elettronica, non pochi dei componimenti testuali
oggi proposti dalla scrittura elettronica. Benche' i risultati raggiunti
siano di indubbio interesse sperimentale, difficilmente possono essere
ritenuti veri e propri esempi d'ipertestualita'. In ogni modo, credo che
spetti a Cortazar il merito di aver messo platealmente in evidenza la
difficolta', secondo me insuperabile, di produrre una narrativa ipertestuale
nel quadro di una tecnologia che, per sua natura, non offre quei gradi di
liberta' che una narrativa cosi' congegnata richiede.
Vi e' tuttavia un altro autore che i teorici della scrittura ipertestuale
sembrano ignorare, ma che avrebbe potuto essere incluso nella ristretta
cerchia dei precursori. Mi riferisco al tedesco Arno Schmidt (1970). Nella
sua opera Zettels Traum, questo scrittore realizza, con la tecnica grafica
del montaggio e del collage, un romanzo (o meglio un antiromanzo) in cui
sono adoperate non poche delle procedure che oggi, ben si sa, fanno parte
dell'ambizioso programma ipertestuale.
E' difficile quando si parla, come si fa ora, di liberare la produzione
testuale dai vincoli della linearita', non tener presente il contributo in
questo senso delle "parole in liberta'" di Marinetti, del poema An Anna
Blume di Schwitters e dei cadavre esquis di Breton e dei suoi amici.
Lasciando da parte il tema concernente i suoi precursori, reali o presunti,
si puo' affermare che la scrittura ipertestuale si prospetta, almeno in
linea di principio, come un arricchimento tecnico della creazione
letteraria, sia sul versante narrativo, sia su quello poetico. Tuttavia,
alcuni discorsi programmatici che si fanno a suo sostegno, vanno spesso ben
oltre tale assunto e investono questioni di un ordine molto diverso.
Vediamo, in seguito, di approfondire alcune di tali questioni.
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"Morte del libro" e "morte dell'autore"
Uno dei temi piu' ricorrenti tra i fautori della scrittura ipertestuale, o
almeno tra chi sostiene la posizione piu' estrema, riguarda la certezza che
la "morte dell'autore" sarebbe ormai imminente. Non meno imminente, del
resto, sarebbe la "morte del romanzo", e anche persino la "morte del libro".
Ma con i necrologi si deve andare cauti. C'e' sempre il rischio che il
preannunciato defunto, contro ogni previsione, appaia di persona alle
proprie esequie in perfetta salute e rinnovata vitalita'. Mi sembra che
qualcosa di simile stia accadendo con i foschi vaticini sulle sorti
dell'autore. Piaccia o no, l'autore e' ancora vivo e vegeto. (Lo stesso si
puo' dire del romanzo tradizionale e del libro cartaceo).
La denuncia dei limiti (e addirittura dei rischi) del libro cartaceo nella
nostra cultura e' una costante tra i sostenitori di una cyber-culture a
oltranza. Molto spesso, infatti, costoro sono inclini, con maggiore o minore
leggerezza, a perorare la sua inesorabile estinzione. Il libro, dicono,
sarebbe diventato ormai obsoleto, e dovrebbe essere sostituito da nuovi, e
piu' efficaci, mezzi di comunicazione e informazione. Inoltre, a suffragio
di questa tesi, si cita la valutazione - a mio giudizio inappurabile - per
cui il libro sarebbe ormai una merce senza (o quasi) mercato.
Sebbene il libro sia, come e' ben noto, un prodotto di consumo, e pertanto
sottoposto alle leggi del mercato (moda, concorrenza, rotazione degli stock
ecc.), e' difficile immaginare che, a causa di una qualsivoglia flessione
congiunturale del mercato, il libro possa sparire ex abrupto dalla
superficie della Terra. Di sicuro il libro e' un oggetto. Di sicuro e'
anche - lo abbiamo appena detto - una merce. Di sicuro, come tutte le cose
umane (si tratti di oggetti o di merci), il libro e' mortale. Ma bisogna
ammettere che alcuni oggetti e merci sono, scusatemi il paradosso, piu'
mortali di altri. Un libro, per esempio, e' meno mortale di un disco in
vinile. La scomparsa dal mercato dei dischi in vinile, e la loro
sostituzione con il CD, e' stata un evento clamoroso nella storia dei mezzi
di registrazione musicale (e in generale sonora), ma i suoi effetti
culturali, seppur importanti, sono rimasti limitati a un'area molto
specifica.
Tutt'altro sarebbe l'effetto di una eventuale sparizione del libro. Perche'?
Perche' il libro e' riuscito a occupare un posto, a dir poco, privilegiato
nella nostra cultura letterata. Esso nasce da un vasto processo di sintesi
tra diversi modi d'intendere la produzione, la distribuzione e, non per
ultimo, la fruizione individuale e collettiva del sapere. Se s'intende qui
per libro ogni veicolo portatore di scrittura (il rotolo, per esempio,
sarebbe da includere, a pieno titolo, in questa categoria), e' evidente che
esso e' stato il risultato di un complesso e accidentato percorso in cui i
piu' svariati fattori (sociali, culturali, economici, organizzativi e
tecnici) hanno avuto un ruolo determinante. Certo, molti di questi fattori
non sono oggi piu' operanti nello stesso modo in cui lo sono stati nel
passato. Sarebbe tuttavia irragionevole pensare che questo basti per sancire
la fine del libro.
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Da pagina 72
Ipertestualita' e saggistica
A questo punto c'imbattiamo in una questione particolarmente delicata. Io mi
domando: siamo convinti che la liberta' dai vincoli che noi rivendichiamo -
a mio parere giustamente - per la scrittura narrativa, possa essere
proposta, negli stessi termini, per la saggistica? Alla domanda si deve dare
una risposta piuttosto articolata. Vi e' motivo di ritenere che la liberta'
dai vincoli possa essere fattibile (e desiderabile) in alcuni settori della
saggistica, in altri molto meno, e in altri ancora sarebbe da respingere in
assoluto. Io credo che nell'ambito della saggistica sia necessario stilare
una sorta di graduatoria tra le cose che, in certe condizioni, si possono
fare e quelle che sarebbe meglio non fare.
E' necessario qui ritornare indietro. Come si ricordera', tra gli argomenti
utilizzati dai teorici della narrativa ipertestuale contro la tradizionale
narrativa analogica figurava, in primo piano, il rifiuto dei vincoli
strutturanti dell'impianto narrativo. Non e' un caso che gli autori
considerati precursori della narrativa ipertestuale - da Sterne a Cortazar -
manifestavano tutti, in un modo o in un altro, una forte insofferenza nei
confronti della linearita' e della consequenzialita'.
Ora si tratta di sapere: tale insofferenza e' riscontrabile anche negli
autori di saggistica, ossia nei filosofi, storici e scienziati? A dire il
vero, gli autori di saggistica, di consueto, si trovano a proprio agio nel
rispetto dei vincoli che assicurano coesivita' parziale o totale alla loro
riflessione. Ci sono pero', soprattutto tra i filosofi, illustri eccezioni.
Mi viene in mente, per primo, Nietzsche, ma anche Wittgenstein (1977),
entrambi cultori del pensiero frammentario e aforistico.
"Quando penso per me stesso", scrive Wittgenstein, "senza l'obbligo di
scrivere un libro, io salto da un tema a un altro, questo e' il mio modo
naturale di pensare. Essere costretto a pensare in successione lineare e'
per me un martirio. Devo cercar di farlo? Io spreco indicibile fatica
nell'ordinare pensieri che forse non hanno nessun valore" (p. 60).
Alla base del malessere di Wittgenstein, del suo "martirio" (Qual), c'e'
l'implicito rifiuto di tutti quei vincoli che intralciano, per usare
l'espressione di Locke, il free flux of thought. In definitiva, cio' che
Wittgenstein, nel brano citato, rivendica ha radici profonde nel pensiero
filosofico occidentale. E non solo occidentale. Da sempre, i filosofi hanno
avocato a se' il diritto alla liberta' d'esplorare, d'inseguire
creativamente infiniti percorsi associativi, insomma, di "saltare da un tema
all'altro", come Wittgenstein suggerisce. Su questo non c'e' nulla da
obiettare. Meno persuasiva, ritengo, e' l'idea, caldeggiata dai promotori di
una presunta creative non-fiction, che la liberta' di esplorare debba
necessariamente identificarsi solo, e soltanto, con lo stile frammentario e
aforistico. E non, per esempio, con forme piu' strutturate, articolate e
continuative.
Se la liberta' d'esplorare, anche a costo di sbagliare, e' fondamentale per
lo sviluppo del pensiero, lo e' altrettanto la possibilita' di soffermarsi a
lungo sull'oggetto di riflessione. Diciamolo pure: lo stile frammentario e
aforistico, almeno in linea di principio, non favorisce questa possibilita'.
In esso, prevale la tendenza a soffermarsi solo brevemente sull'oggetto di
riflessione. In fuga, per tutto il tempo, verso il prossimo oggetto di
riflessione.
Abbiamo gia' rilevato la necessita' di distinguere tra la scrittura
narrativa e quella filosofica, storica e scientifica. La differenza e' piu'
che ovvia. Non c'e' dubbio che voler relativizzare (o addirittura
cancellare) i vincoli della linearita' e della consequenzialita' logica non
ha (ne' puo' avere) lo stesso significato in un testo di narrativa e in uno
di saggistica. Nel caso, per esempio, di un romanzo ipertestuale gli effetti
rimangono circoscritti all'ambito della sperimentazione letteraria; nel
caso, invece, di un saggio, per esempio, filosofico o scientifico, siamo
costretti a misurarci con la verita' (o non verita') delle asserzioni in
esso contenute.
Tuttavia, questa distinzione, che il buon senso consiglierebbe di tener
sempre presente, viene spesso trascurata. Anzi, non di rado, i due campi
sono ritenuti uno solo. Fino al punto, che ci sono veri e propri
(spericolati) travasamenti argomentativi da un campo all'altro. I
sostenitori della narrativa ipertestuale, nelle loro critiche alla narrativa
analogica tradizionale, ricorrono all'argomento che la connaturata
linearita' e consequenzialita' di quest'ultima debba essere attribuita, per
cosi' dire, a un delitto d'origine della cultura occidentale:
l'argomentazione logico-sillogistica sviluppata da Aristotele 2500 anni fa.
In altre parole, tutto cio' che, nella loro ottica, renderebbe condannabili
i romanzi, per esempio, di Defoe, Swift, Manzoni, Balzac, Dumas, Dickens,
James, Perez Galdos, Dostoevskij e Tolstoj sarebbe appunto il fatto d'essere
rimasti troppo fedeli all'eredita' logica aristotelica. Eredita' alla quale
si addossa la responsabilita' storica di tutti i malanni della cultura
occidentale prima della comparsa del computer. Dietro a tutto questo, come
si puo' intuire, c'e' l'evanescente ideologia dell'anti-Logos, un'ideologia
che gia' da parecchi decenni vede nella coerenza discorsiva un nefasto morbo
da combattere con tutti i mezzi.
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Da pagina 75
Ipertestualita' nella saggistica tradizionale
Da tutto cio' non discende, vorrei sottolinearlo, che la saggistica sia
destinata a rimanere estranea alle possibilita' prospettate dalle nuove
tecnologie ipertestuali. La verita' e' che non c'e' una incompatibilita'
sostanziale tra scrittura e tecnologie ipertestuali. I testi della moderna
saggistica sono stati, a loro modo, sempre ipertestuali. Ipertestuali, per
cosi' dire, avant la lettre.
Basta pensare, ad esempio, all'uso in saggistica delle note a pie' di
pagina, quell'espediente che, come ben si sa, permette all'autore di
inserire, al di fuori del testo principale - di solito al margine inferiore
o in chiusura -, puntuali riflessioni integrative, citazioni di fonti,
rimandi ad altri testi o ad altri autori (un espediente a cui, nel bene o
nel male, si e' fatto spesso ricorso in questo libro).
Ma qual e' lo scopo delle note a pie' di pagina? Malgrado le apparenze, non
e', o non dovrebbe essere, il banale sfoggio di erudizione (reale o
presunta) dell'autore, bensi' quello di chiarire, approfondire o documentare
il discorso che egli sta svolgendo nel testo. Cio' nonostante, pur
ammettendo che questo sia il suo scopo, alcuni interrogativi rimangono
ancora aperti. Perche' al fine di chiarire, approfondire e documentare un
discorso si deve necessariamente ricorrere a sostegni esterni? Detto
altrimenti: perche' la qualita' scientifica (o semplicemente argomentativa)
di un discorso dipende, almeno in gran parte, dalla capacita' di generare
testi ausiliari? Perche' si ritiene che un testo abbia bisogno di altri
testi? Perche' un testo non e' autosufficiente? Perche' deve sempre cercare
legittimita' e credibilita' al di fuori di se stesso?
A mio parere, puo' essere utile soffermarsi brevemente sui presupposti che
sono alla base di questi interrogativi. Prima di tutto, vi e' la
convinzione, lo abbiamo appena discusso, che un testo e' in grado di
stabilire un rapporto di covarianza con una infinita' di altri testi, che un
testo e' sempre, e comunque, potenzialmente inseribile in una rete di testi.
Vale a dire, che tutti i testi sono, in linea di principio, reticolabili. In
questa convinzione sono implicite altre due:
1) che ogni testo e' per natura instabile, mutevole ed erratico, e che solo
per imposizione esterna viene solidificato, irrigidito e recintato;
2) che esiste, al di fuori di un determinato testo, un numero infinito di
altri testi che sono a nostra disposizione, e di cui noi possiamo servirci a
volonta' per esperire le nostre pratiche ipertestuali.
Credo che ambedue siano sostenibili. Sulla seconda pero' una precisazione e'
necessaria. Si deve tener conto del fatto che la sbalorditiva abbondanza di
testi che si riscontra nella nostra epoca e' un fenomeno senza precedenti
nella storia. Essa e' stata preceduta da millenni di indigenza al riguardo.
Non c'e' dubbio che l'esercizio dell'ipertestualita', come la intendiamo
oggi, sarebbe stato impensabile nel passato. E cio' per il semplice motivo
che il volume complessivo dei testi era tremendamente ridotto. Sulle cause
di questo stato d'indigenza non possono esserci ormai dubbi. Esso era il
risultato di una scelta precisa dei detentori del potere, non importa se
ecclesiastico o secolare: fomentare l'approfondimento (e la diffusione) di
alcuni pochi testi e vietare la produzione (e proliferazione) di altri. I
primi tentativi (ancora timidi e maldestri) di mutare questa situazione
risalgono, in gran parte, al momento della nascita (e consolidamento) della
moderna cultura laica.
*
Da pagina 187
Prima infanzia e sviluppo cognitivo
A prescindere da queste considerazioni, rimane la necessita' di sapere, con
ragionevole certezza, se effettivamente l'uso del computer e' in grado di
procurare, come viene da piu' parti rilevato, effetti deleteri sullo
sviluppo cognitivo dei bambini di giovanissima eta'. Credo che la questione
possa essere riassunta nella seguente domanda: se e' vero, come e' vero, che
il bambino si appropria del mondo circostante tramite l'interazione diretta
con l'ambiente fisico e sociale, cosa succede quando l'interazione non e'
piu' diretta ma mediata dal computer? In altri termini: l'esperienza che si
ottiene tramite un'interazione virtuale con il computer e' equiparabile, dal
punto di vista dello sviluppo senso-motorio del bambino, a quella ottenuta
mediante una interazione reale, diretta, in cui il rapporto del bambino con
gli oggetti risulta da un coinvolgimento dei suoi cinque sensi?
Ritengo che la domanda, cosi' impostata, delimiti abbastanza bene i termini
del problema. C'e' solo un punto, tuttavia, che richiede una precisazione.
Nella domanda ci sono alcuni accenni, soprattutto nell'ultima parte, che per
certi versi richiamano l'approccio costruttivista di J. Piaget (1936, 1949,
1966, 1967, 1969, 1970, 1973, 1980). Sicuramente e' stato Piaget - ma non
solo lui - a spiegare il processo di appropriazione del reale in termini di
attivo coinvolgimento senso-motorio del bambino con l'ambiente circostante.
A dire la verita', pero', gia' da tempo un simile assunto ha smesso di
essere identificato necessariamente con il costruttivismo. Esso e' passato
ormai a far parte del senso comune.
Negli ultimi vent'anni, psicologi cognitivi, neuroscienziati, linguisti ed
epistemologi hanno preso le distanze, come si sa, dal pensiero di Piaget.
Questo non ha riguardato, contrariamente a cio' che di solito si pensa, il
ricco patrimonio di osservazioni sullo sviluppo cognitivo che egli ci ha
lasciato, ma piuttosto le scelte di metodo che erano alla base del suo modo
di affrontare tale sviluppo. In altre parole, mentre molti dei suoi lavori
sperimentali - per esempio, sul gattonare, sul piano inclinato o sulla
rotazione del biberon - possono essere oggi (anche per chi non condivide il
pensiero di Piaget) oggetto d'interesse e di studio, non si puo' dire lo
stesso del quadro teorico complessivo a cui tali lavori fanno riferimento.
Cio' che, a mio giudizio, rende inattuale Piaget non sono tanto le cose che
egli ha incluso nel suo modello, ma soprattutto quelle che da esso ha
escluso. Tra queste ultime, la piu' significativa e' l'aver lasciato fuori
del suo modello, per esplicito partito preso, l'importante questione delle
competenze innate. Una questione che, di certo, Piaget non ignorava.
[...] In realta', gran parte dell'impegno piu' recente delle scienze
cognitive e' finalizzato a dimostrare empiricamente che il bambino appena
nato e' molto meno incompetente - o se si vuole molto piu' competente - di
quanto Piaget immaginava. Nondimeno, parlare di competenze e' forse un abuso
linguistico. Piu' esatto sarebbe parlare di pre-competenze. E per
pre-competenze si dovrebbero intendere soprattutto le pre-disposizioni
innate che consentono al bambino di essere in grado di strutturare il suo
rapporto con il reale. Ma le pre-competenze, come indica il nome, non sono
ancora vere e proprie competenze. Per farle diventare tali, e' necessario
attivarle, sollecitarle, richiamarle.
Bisogna intanto dire subito che le pre-competenze, se non opportunamente
mobilitate, hanno la connaturata tendenza a spegnersi. In breve: le
pre-competenze sono mortali. J. Mehler (1974, p. 289) ha ricordato il
fenomeno della progressiva perdita, nella prima fase di sviluppo del
neonato, di un numero notevole di capacita' innate. In specie di quelle che
non sono state mai, o solo di rado, chiamate in causa. Fenomeno molto noto
ai neurobiologi, in quanto esso ha il suo corrispettivo a livello di rete
neuronale. Sembrerebbe, infatti, che per il nostro cervello sia necessario,
a un certo punto, sacrificare i neuroni mai (o raramente) adoperati, e cio'
a scopo di mettere a disposizione, per cosi' dire, piu' spazio utile ai
neuroni piu' frequentemente adoperati. Appare dunque chiaro che le
esperienze sensorio-motorie che noi incoraggiamo (o scoraggiamo) nei bambini
nei primi anni della loro vita, non sono senza conseguenze. Esse possono, a
seconda dei casi, favorire o inibire lo sviluppo intellettivo, promuovere o
cancellare determinate competenze.
Non c'e' dubbio che gli ultimi contributi sperimentali delle scienze
cognitive, con la loro riabilitazione delle competenze innate del bambino,
abbiano cambiato alla radice l'immagine dell'infanzia. Sarebbe tuttavia un
errore ritenere che la nuova immagine abbia sostituito in toto la vecchia
immagine. Lo riconosce J. G. Bremner (1998, p. 240), un noto esponente della
psicologia cognitiva: "In contrasto con l'idea piagetiana del bambino come
inizialmente sprovvisto di una consapevolezza del mondo, e' emersa
l'immagine del bambino competente, del neonato munito di oggettiva
consapevolezza del suo intorno [...] Nonostante questa rivoluzione nella
nostra immagine dell'infanzia, essa ha i suoi propri problemi". E tra questi
problemi, Bremner menziona, per esempio, il fatto che "quando misuriamo la
consapevolezza infantile basandoci sull'azione diretta del bambino sul
mondo, emergono molti modi tradizionali di stimare le abilita' che
confermano, piu' o meno, l'immagine piagetiana del bambino come graduale
costruttore di un mondo obiettivo".
*
Il bambino e' competente?
Il punto, a dire la verita', e' molto stimolante perche' avanza nientemeno
l'ipotesi che si possa essere convinti assertori dell'idea del bambino
competente - idea peraltro ormai confermata da un numero considerevole di
studi sperimentali - senza che questo debba necessariamente comportare la
rinuncia al noto assunto piagetiano del bambino come "graduale costruttore
del mondo obiettivo".
[...] A ben guardare, la tesi di Piaget non viene altro che a confermare
cio' che, da sempre, tutti sappiamo grazie alla quotidiana esperienza
osservativa sul comportamento dei bambini piu' piccoli. Non c'e' niente di
nuovo nell'asserire che, nella prima fase di sviluppo del bambino, il tatto
e' fondamentale. Ma il tatto non e' mai un'esperienza isolata, essa si
presenta spesso legata a quella della vista, dell'udito, dell'odorato e del
gusto. Toccare, vedere, sentire, odorare e gustare fanno parte di un unico
processo. Purtuttavia, occorre ammettere che, in quella fase, a dir poco
cruciale, dello sviluppo, e' il tatto che svolge il ruolo piu' impegnativo.
E' appunto il tatto che ha il compito di orchestrare il rapporto tra i
cinque sensi. Non c'e' dubbio che, in generale, l'atto di conoscere e'
legato inscindibilmente all'agire, all'operare, al manipolare. Conoscere, in
un certo senso, e' afferrare il reale. In molte lingue, a livello
etimologico, si trova una chiara indicazione che questi due concetti hanno
di fatto una comune origine, che provengono da una medesima area semantica.
Per esempio, in tedesco begreifen (comprendere) ha la stessa radice di
greifen (prendere). E anche appunto in italiano.
Nell'argomentazione fino a qui svolta, e' stata avanzata l'ipotesi che
rendere accessibile il computer a bambini molto piccoli puo' avere effetti
nocivi per il loro sviluppo intellettivo. Ne sarebbe prova il fatto che
l'interazione computer-bambino verrebbe a sostituire, in misura
considerevole, l'interazione ambiente-bambino, contribuendo cosi' a
offuscare (e addirittura a vanificare) la possibilita' per il bambino di
esperire un rapporto diretto con il mondo materiale. Si correrebbe cosi' il
rischio di una eventuale eliminazione di quelle competenze innate che, di
norma, vengono appunto attivate grazie al coinvolgimento senso-motorio del
bambino.
Su questo punto, e' stato fatto notare che i timori riguardo ai rischi di un
tale sviluppo sarebbero esagerati, perche' non terrebbero in dovuto conto il
modo in cui l'interazione computer-bambino avviene nella pratica. Il rilievo
e' pertinente, perche' talvolta, lo ammetto, nella valutazione di un
determinato fenomeno, e' facile lasciarsi trascinare dai propri modelli
interpretativi trascurando il contesto reale in cui il fenomeno si verifica.
*
Lo scudo protettivo
Nel caso specifico, per esempio, e' un fatto indiscutibile che un bambino di
due anni non e' assolutamente alla merce' di chi, in nome di un qualsivoglia
disegno formativo, voglia imporgli un uso intensivo del computer. Il
principale scudo protettivo di un bambino di quella eta' - soprattutto, come
vedremo, di quella eta' - e' la sua irrequietezza, la sua incapacita' di
stare fermo in un luogo e di fissare l'attenzione per molto tempo su un
oggetto, un evento o un'immagine. La sua mancanza di concentrazione, la sua
permanente distrazione, a differenza di cio' che accadra' piu' tardi, ossia
a partire dai quattro anni, ha una valenza sostanzialmente positiva per lo
sviluppo cognitivo. Fa parte di un comportamento volto all'esplorazione a
vasto raggio del mondo circostante. La sua curiosita' non e' mai
soddisfatta, ed e' giusto che sia cosi'. Egli e' sempre altrove, sempre in
partenza verso il prossimo stimolo.
[...] Benche' abbia scelto di privilegiare nella mia trattazione i problemi
cognitivi dei bambini piu' piccoli, e' evidente che il fenomeno appena
discusso si ripropone anche nel periodo che va dai quattro anni in poi. Ma
non negli stessi termini. A partire dai quattro anni si constata, in
condizioni normali, un progressivo appassimento della precedente
iperattivita', ossia una progressiva crescita della capacita' di prestare
attenzione.
Questa tendenza si rinforza a un ritmo normale nel caso dei bambini
relativamente poco esposti all'uso dei mezzi multimediali (televisione,
cinema e computer), mentre invece si nota un fenomeno in senso contrario tra
quelli che sono molto esposti a tali mezzi. In questi ultimi, appare
evidente il diffondersi di una tendenza sempre maggiore alla dispersione, a
un deficit generalizzato della capacita' di concentrazione. Un ritorno
dunque all'iperattivita' della prima infanzia? Non propriamente. La
situazione e', a dir poco, curiosa. Se nella prima infanzia l'iperattivita'
fungeva da scudo protettivo, come anticorpo atto a contrastare l'invadenza
dell'ipoattivita' multimediale, il quadro che comincia a delinearsi e'
totalmente diverso. Mentre prima il tempo a disposizione della
multimedialita' era piuttosto limitato, e pertanto i suoi effetti contenuti,
ora essa ha invaso gran parte della giornata del bambino. Per esercitare
l'iperattivita' rimangono dunque solo tempi e spazi ristretti, per lo piu'
saturi di multimedialita'. In queste condizioni, l'iperattivita' diventa
fiacca, sbiadita, asfittica. Nella fase precedente, l'iperattivita'
consisteva in un comportamento finalizzato alla libera, spensierata (e
sicuramente caotica) esplorazione del mondo reale, ossia del mondo fuori del
video. Da ora in poi, le cose si porranno per lui diversamente. E cio' per
il semplice motivo che il mondo fuori del video, una volta territorio delle
sue imprevedibili scorrerie, si presenta ora ai suoi occhi fortemente
limitato dalla onnipresenza del mondo video. E non solo: la sua
iperattivita' sara' condizionata (e per certi versi guidata) dal mondo
video.
A mio parere, e' appunto nella caduta dello scudo protettivo, ossia di cio'
che era stato un importante fattore di mediazione tra le due realta', che va
ricercata la causa di molti degli effetti sociali piu' negativi dei media su
bambini e adolescenti. Mi sto riferendo, di preciso, ai diffusi fenomeni dei
disturbi dell'attenzione, di anomia, di aggressivita', di violenza, di
criminalita' e, non per ultimo, alle diverse forme di malattie fisiche
legate alla immobilita' o passivita' corporale.
*
Da pagina 227
Gli occhiali presi sul serio
Vi e' oggi l'idea, sempre piu' diffusa, che la tecnica sia un fattore
esogeno, un fattore che investe dall'esterno il "mondo in cui viviamo".
Qualcosa che ci arriva da un luogo remoto, e che si insinua surrettiziamente
nella nostra societa'. Qualcosa fuori di noi, ma anche, e soprattutto, sopra
di noi.
E' chiaro, del resto, che tale esasperazione dell'autonomia della tecnica
concorre, nei fatti, alla sua estraniazione, e poi alla sua sacralizzazione.
In pratica, essa spiana la strada al determinismo tecnologico, alla credenza
che la tecnica sia la causa di tutti i mutamenti, reali o presunti, che
avvengono nella societa'.
Non si tiene conto di un fatto piuttosto ovvio: che la tecnica non e', per
cosi' dire, allo stato brado, al di fuori della societa', ma si colloca al
suo interno ed e' fortemente condizionata dalle dinamiche sociali,
economiche e culturali. In breve: non e' la tecnica ma la societa' che, nel
bene o nel male, cambia il mondo. E quando la tecnica, come per esempio nel
caso dell'ambiente, "ci pone problemi", in fin dei conti i problemi non sono
della tecnica ma della societa'.
"Tutto e' tecnica", ha affermato lo storico Fernand Braudel, alludendo
presumibilmente al fatto che in ogni agire umano vi e' sempre, in maggiore o
minore misura, un momento artefattuale, protesico, ossia il ricorso a un
dispositivo strumentale deputato a potenziare il nostro agire operativo e
comunicativo. Credo che, in quest'ottica, l'asserzione di Braudel sia
giusta. O meglio: parzialmente giusta. Molto piu' aderente ai fatti sarebbe
stato dire: "Tutto e' tecnica, poiche' tutto e' societa'". Oppure,
viceversa: "Tutto e' societa', poiche' tutto e' tecnica". Sennonche', a
questo punto, sorge implicita una domanda: in questa identificazione a tutto
campo della tecnica con la societa', dell'agire tecnico con l'agire sociale,
non si cela una versione, appena piu' sottile, di determinismo tecnologico?
E' un timore, a mio giudizio, ingiustificato. Riconoscere, da un lato, che
la tecnica e' onnipresente perche' onnipresente e' la societa' e,
dall'altro, che la societa' e' onnipresente perche' la tecnica e'
onnipresente, non significa ammettere che esista un'autonomia della tecnica,
e neppure che la tecnica funga da istanza inappellabile del governo del
mondo. Al contrario, cio' che risulta sconfessato e' appunto la presunta
autonomia della tecnica e pertanto il determinismo tecnologico in essa
implicito.
Certo, si rifiuta ugualmente l'idea di una totale autonomia della societa'
nei confronti della tecnica. Una tesi tutt'altro che azzardata. Perche',
diciamolo pure, l'idea di una simile autonomia si scontra clamorosamente con
la realta' dei fatti. Chi puo' oggi mettere in dubbio, senza rischiare il
ridicolo, che gli sviluppi della tecnica siano in grado di condizionare
fortemente i nostri stili di vita, i nostri rapporti con gli altri e i
nostri valori e credenze? Chi puo' essere cosi' temerario da affermare che
la tecnica si possa considerare un fatto marginale nella nostra societa'?
La verita' e' che l'oggetto del contendere non e' tanto se accettare (o
meno) la rilevanza della tecnica - che e' fuori discussione -, ma piuttosto
sapere se si deve (o meno) assegnarle un ruolo causale nei riguardi dei
cambiamenti che si verificano nella societa'.
Molti storici e filosofi della scienza e della tecnica, soprattutto coloro
che s'ispirano al costruttivismo sociologico, respingono una tale
eventualita'. Per costoro, la causa - la molla primaria - dei cambiamenti
nella societa', va ricercata nella societa' stessa e non nella tecnica.
Posizione che, di solito, viene riassunta nel seguente motto: la societa' e'
la causa, la tecnica solo l'agente dei cambiamenti.
Va detto pero' che il tenore di questo asserto (per me, in linea di massima,
condivisibile) merita alcune riflessioni e precisazioni aggiuntive. Non si
puo' trascurare il fatto che le nozioni di causa e di agente hanno
notoriamente una lunga tradizione nel pensiero filosofico. Basta ricordare
la dottrina aristotelica delle "quattro cause" e le complesse costruzioni
concettuali della scolastica medievale relative al rapporto causa-effetto.
Senza dimenticare, del resto, i sofisticati rompicapi logico-epistemologici
della moderna filosofia della scienza sull'argomento.
Benche' non sia mia intenzione soffermarmi sulle implicazioni squisitamente
filosofiche del determinismo tecnologico, appare evidente la difficolta' (e
persino, io direi, l'impossibilita') di discutere questo tema senza tenerne
conto. Il che e' vero anche quando le nozioni di causa ed effetto non sono
adoperate in modo esplicito, e vengono all'occorrenza sostituite da un
corrispettivo metaforico piu' o meno ingegnoso.
Vediamo il caso, per esempio, della formula, molto cara ai sostenitori del
determinismo tecnologico, secondo la quale la tecnica "spinge" (push) e la
societa' "tira" (pull). Per i suoi oppositori, invece, sarebbe piuttosto la
societa' che "spinge" e la tecnica che "tira".
A questo punto, sorge un dubbio: siamo sicuri che queste due versioni
contrapposte non siano, entrambe, il risultato di un medesimo errore, ossia
quello di credere che tra causa ed effetto il legame sia sempre, e comunque,
lineare, unidirezionale e irreversibile? Non e' stata appunto la tradizione
filosofica relativa alla causalita', prima evocata, a invitarci spesso a
riflettere sul problema - seppur non ancora risolto - delle causalita'
circolari, delle catene causali?
Nel tema che stiamo qui discutendo, la questione della circolarita' non puo'
essere ignorata. Poiche' se e' vero, per restare nella metafora, che in una
certa fase e' di fatto la tecnica che "spinge" e la societa' che "tira", e'
altrettanto vero che, in una fase precedente, e' stata la societa' a
"spingere" e la tecnica a "tirare".
[...] Ebbene, per verificare la possibilita' di un modo diverso, ossia non
semplicistico, di affrontare questo rapporto, vorrei ora esaminare il caso
della nascita e dello sviluppo di un oggetto tecnico che, malgrado (o a
causa di) le sue ridotte dimensioni e la sua scarsa complessita', puo'
esserci di aiuto per cogliere quegli aspetti che, nel caso dei macrosistemi,
sono di solito trascurati.
Mi riferisco, di preciso, agli occhiali da vista, un oggetto che
sommessamente, senza destare scalpore, e ormai gia' da piu' di settecento
anni, consente a una stragrande maggioranza di noi - miopi, presbiti,
ipermetropi o astigmatici - di facilitare l'accesso sensorio-percettivo alla
realta'.
Certo, "prendere sul serio" gli occhiali da vista puo' sembrare una scelta
poco stimolante a studiosi che preferiscono misurarsi solo, ed
esclusivamente, con oggetti di ben altra portata. Ma il fatto che gli
occhiali da vista siano, in apparenza, oggetti banali (o diventati per noi
banali), non e' una buona ragione per considerarli privi di rilevanza
storica. O peggio ancora: non voler riconoscere la loro utilita'
nell'attuale riflessione teorica sulla tecnica.
Lo storico Lynn White (1940), scrive in proposito: "Sicuramente nessuno nel
mondo degli occhialuti accademici puo' essere tanto scortese da mettere in
dubbio che l'invenzione degli occhiali ha contribuito a far salire il
livello generale di educazione e a favorire la pressoche' febbrile attivita'
di pensiero che caratterizza il XIV e il XV secolo".
Comincerei col ricordare che la storia degli occhiali, come e' noto, e'
strettamente legata a quella delle lenti. Non solo: l'invenzione delle lenti
oftalmiche segna di sicuro un momento di svolta nello sviluppo degli
strumenti per l'ottica. Nei fatti, le lenti da vista spianano la strada allo
sviluppo dei primi cannocchiali e dei primi microscopi compositi. E
preannunciano, inoltre, l'avvento dell'ottica fine e di altissima
precisione, ossia di quell'insieme di strumenti e di apparecchi che, nel
periodo che va dal Trecento al Settecento, crea i presupposti
tecnico-scientifici della rivoluzione industriale. In breve, strumenti e
apparecchi che sono alla base di quella formidabile svolta che ha portato
"dal mondo del pressappoco all'universo della precisione", per usare la
felice espressione di A. Koyre' (1961).
Un universo in cui l'osservazione scrupolosa, la misurazione accurata e la
quantificazione esatta diventano i tre elementi portanti dell'impianto
strutturale e funzionale.
Ma non e' forse un poco sopra le righe - mi si potra' obiettare - voler
assegnare agli occhiali un ruolo tanto significativo nel processo
costitutivo del mondo moderno? E' sicuro che non si tratti di una forzatura
interpretativa? A mio avviso, queste (o simili) perplessita' sono infondate.
Ho il sospetto che esse non siano altro che un retaggio di cio' che Vasco
Ronchi (1962), in diverse occasioni, denuncio' come la "congiura del
silenzio" dei "dotti di professione" (filosofi e storici) nei confronti
delle lenti e delle loro applicazioni. Quella stessa "congiura del silenzio"
che il geniale Giambattista Della Porta, per primo, nel XVI secolo, aveva
cercato d'infrangere con i suoi libri Magia Generalis e De Refractione.
Desta meraviglia pero' che, nonostante i secoli trascorsi e i clamorosi
progressi compiuti nel frattempo dall'ottica strumentale e dal suo indotto,
ci siano ancora dubbi sulla rilevanza storica dell'invenzione degli
occhiali. Rilevanza storica che riguarda non solo l'invenzione dell'oggetto
d'uso noto con questo nome, ma anche le conoscenze scientifiche e le
esperienze tecniche che l'hanno preceduto (e per certi versi prefigurato).
Senza dimenticare, tuttavia, le conoscenze e le esperienze che, sulle tracce
di questa invenzione, sono state acquisite subito dopo e che hanno aperto
prospettive inedite all'osservazione strumentale. Per la fase precedente,
vorrei citare, per esempio, i contributi di Alhazen, Grossatesta e Ruggero
Bacone, per la fase successiva, quelli di Della Porta, Keplero e Galilei.
Non voglio lasciarmi trascinare nella peregrina controversia tra fiorentini,
pisani e veneziani riguardo a chi si debba attribuire l'invenzione degli
occhiali. Come si sa, per i fiorentini e' stato Salvino Armando degli
Armati. Per i pisani, Alessandro Spina. Per i veneziani, un ignoto vetraio
di Murano.
Il mio interesse, come ho gia' anticipato, e' un altro. Io vorrei trovare
risposta a due diverse (e antitetiche) domande.
La prima: qual e' il legame, eventualmente causale, tra i progressi
dell'industria vetraia, ossia la capacita' di fornire lenti atte alla
prestazione ottica richiesta, e l'invenzione degli occhiali?
La seconda: come e perche' emerge, intorno al 1280, l'esigenza sociale,
economica e culturale di correggere l'anomalia visiva dei presbiti, cioe' il
vedere male da vicino e bene da lontano, e quella, intorno al 1450, di
correggere l'anomalia visiva dei miopi, cioe' il vedere bene da vicino e
male da lontano?
Con questi interrogativi, come s'intuisce, siamo ritornati in pieno alla
questione, discussa in precedenza, su chi "spinge" e chi "tira" nel rapporto
tecnica-societa'.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 301 del 13 febbraio 2009

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