La domenica della nonviolenza. 202



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 202 dell'8 febbraio 2009

In questo numero:
1. Annamaria Rivera: Il baratro
2. Luciano Bonfrate: Cantata dell'Internazionale dei morti di fame
3. Curzia Ferrari: Konstantin Stanislavskij
4. Marco Dotti presenta "La morte moderna" di Carl-Henning Wijkmark
5. Riletture: Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale
6. Riletture. Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel

1. EDITORIALE. ANNAMARIA RIVERA: IL BARATRO
[Ringraziamo Annamaria Rivera (per contatti: annamariarivera at libero.it) per
averci messo a disposizione il seguente articolo apparso sul quotidiano "l
manifesto" del 7 febbraio 2009 col titolo "Un altro passo verso il baratro"]

Il culto delle feste in costume sbocco' nel fascismo, scrive Adorno in uno
dei frammenti di Minima moralia: aforisma perfetto ad illustrare l'approdo
fascistoide del folclore padano e con esso dell'Italia berlusconiana.
Approdo perfettamente incarnato da uno degli artefici piu' entusiasti del
ddl sicurezza: quel senatore Bricolo che alterna gli interventi in aula in
dialetto veneto con l'esaltazione di Mussolini, le vecchie battute da
osteria su questioni serie come i matrimoni misti- "Moglie e buoi dei paesi
tuoi" - con la trovata della norma che invita il personale sanitario alla
delazione contro i "clandestini", ovvero gli "ebrei" di oggi.
Un certo Cicchitto trova che evocare gli anni '30 sia fare dell'umorismo
involontario. Solo un poveretto ignaro della storia, dimentico della
democrazia e della civilta' giuridica, nonche' privo del senso del tragico,
puo' non cogliere che in effetti vi e' qualche vaga analogia. C'e' un
sentore di fascismo - non piu' solo il consueto razzismo trasandato
all'italiana - nelle norme-manifesto approvate dal Senato: al di la' del
loro contenuto, pur grave, l'intento e' anzitutto quello d'imbarbarire ancor
di piu' il clima del paese, additargli un capro espiatorio, imprimergli lo
stigma del reietto, renderlo piu' docile e sfruttabile come forza lavoro,
legittimare il sospetto, la discriminazione, la delazione come normali
comportamenti di massa.
La sollecitazione, di fatto, al personale sanitario perche' denunci gli
irregolari che accedono alle cure. La legalizzazione delle ronde padane
quantunque non armate. Il reato d'immigrazione clandestina. La gabella fino
a 200 euro per il permesso di soggiorno. Il carcere fino a quattro anni per
gli irregolari che non rispettino l'ordine di espulsione. Il rafforzamento e
l'estensione della possibilita' di sottrarre la potesta' genitoriale
(indovinate a chi?). Il divieto d'iscrizione anagrafica e la schedatura non
solo dei clochard, come si dice, ma anche di un buon numero di cittadini
italiani - rom, sinti e non solo - che, abitando in dimore diverse da
appartamenti, saranno schedati in un registro del ministero dell'Interno.
Tutto questo configura un intento persecutorio verso migranti e minoranze,
dettato piu' che da razionalita' politica, da meschino calcolo economico e
demagogico, connesso con quelle forme di psicosi di gruppo - fobia,
ossessione, mitomania - che spesso contraddistinguono le elite politiche
populiste e autoritarie.
C'e' un sentore di fascismo nell'incoraggiamento alla delazione, ora sancito
per legge, estendendo cosi' sul piano nazionale cio' che da tempo e' norma e
prassi soprattutto nelle repubbliche delle banane governate dalla Lega Nord:
per esempio in quel di Turate, monocolore leghista, dove il Comune invita
ufficialmente i cittadini alla denuncia, anche anonima, degli stranieri
irregolari. A onor del vero, un bell'esperimento di delazione anonima di
massa e' anche l'accordo siglato a Torino fra il Comune e la rete delle
farmacie, presso le quali dal primo ottobre scorso si raccoglievano (forse
si raccolgono ancora) informazioni su rom, poveri, senza-casa, mendicanti,
posteggiatori abusivi. A dimostrazione che, davvero, la cultura sicuritaria
e razzista egemone nel paese e' trasversale agli schieramenti politici come
alla societa' detta "civile" per esagerare.
La pratica delle squadre speciali e della delazione, anonima e non, sono,
come si sa, strumenti insostituibili di ogni regime dittatoriale. Suvvia,
non parliamo di nazismo, dice quel tal Cicchitto. Va bene. Ma certo, se non
ci si lascia ingannare da cio' che permane dell'involucro democratico,
alcuni elementi che connotano lo stato del paese appaiono allarmanti.
Preoccupante e' la saldatura, ormai anche "sentimentale", che lega il
discorso e l'operato di istituzioni centrali e locali con il senso comune
piu' diffuso o almeno reputato piu' degno di esprimersi: attraverso la
delazione e le azioni squadristiche. Insomma, la connessione fra il razzismo
di stato e quello popolare, fra la persecuzione e il pogrom, ma anche,
benche' piu' sottilmente, fra la cultura politica della destra e quella di
buona parte dell'opposizione parlamentare non fanno presagire niente di
buono. Chi si e' trastullato con retoriche e misure sicuritarie nel corso
della passata legislatura ha evocato mostri che oggi minacciano non solo di
rendere l'Italia un paese strutturalmente razzista ma anche di divorarne la
democrazia. Lo sfaldamento del tessuto sociale, un ceto politico da
operetta, la volgarita' imperante nei mezzi di comunicazione, il degrado
profondo della societa' civile, l'avanzare, insieme alla crisi economica, di
quella forma di incertezza e di disgregazione morali, oltre che sociali, che
accende il desiderio di capi carismatici: no, non siamo nel '29 ne' in
Germania, ma di sicuro sull'orlo di un precipizio. Spetta alle minoranze,
malgrado tutto disseminate nella societa' italiana, tentare di agire perche'
si faccia quel passo indietro che impedisce di precipitare nel baratro.

2. LE ULTIME COSE. LUCIANO BONFRATE: CANTATA DELL'INTERNAZIONALE DEI MORTI
DI FAME

Non le catene, ma il fiore vivo.
Non la barbarie: la civilta'.

Abbiamo scritto sulla nostra rossa
bandiera le parole pane e rose.

Siam la sinistra degli sfruttati
che sa che la vita non e' la morte
sa che la forza di tutte piu' forte
e' sempre e solo la verita'.

Abbiamo scritto sulla nostra rossa
bandiera: giustizia e misericordia.

Siam la sinistra degli storpiati
che sa che la vita e' una lotta infinita
e questa lotta e' la gioia stupita
cui diamo nome di fraternita'.

Abbamo scritto sulla nostra rossa
bandiera: uguaglianza di diritti.

Siam la sinistra dei carcerati
che sa che la morte e' comune nemica
e contrastarla e' suprema fatica
ma e' la nostra unica liberta'.

Abbiamo scritto sulla nostra rossa
bandiera: a ciascun secondo i suoi bisogni.

Siam la sinistra dei fucilati
che sa che resistere occorre al male
ed aiutare il piu' debole e frale
e' la speranza della pieta'.

Abbiamo scritto sulla nostra rossa
bandiera: salvare le vite.

Non le catene, ma il fiore vivo.
Non la barbarie: la civilta'.

3. PROFILI. CURZIA FERRARI: KONSTANTIN STANISLAVSKIJ
[Dal mensile "Letture", n. 653 del gennaio 2009 col titolo "Konstantin
Stanislavskij. Un uomo alle basi del teatro moderno" e il sommario "Attore,
regista, scrittore ma soprattutto teorico teatrale, Konstantin Stanislavskij
con l'omonimo metodo ha posto le basi della recitazione moderna. Una figura
imprescindibile nella cultura mondiale del Novecento"]

Forse e' eccessivo dire che Konstantin Stanislavskij ha "inventato" il
teatro. Certamente pero' ha abolito cio' che faceva dell'azione scenica
rappresentata uno spettacolo di saltimbanchi, sia in arene private sia in
teatrini di corte, conferendo all'arte del reggere le fila di un dramma e
del recitare basi cosi' solide che passarono alla storia. Nessun regista,
dopo di lui, ne ando' immune; e sul "metodo Stanislavskij" nacquero, in
tutte le lingue, volumi e volumi. L'Actor's Studio di New York, proliferato
dalla sua costola, e' l'esempio piu' eclatante della rivoluzione compiuta da
Stanislavskij. Naturalmente non mancarono, sin dall'inizio, fra i suoi
allievi, gruppi di fanatici che, presi dall'idea del nuovo, tentarono di
trasformare i concetti del maestro in un esercizio esoterico. Racconta un
tale Gorcakov, che si era aggregato alla compagnia di un pedagogo, seguace
delle lezioni del maestro nel periodo in cui teneva cattedra al Bol'soj: "Ci
esercitavamo al prana [il prana e' uno degli elementi dello joga], cioe' a
emettere, tendendo la mano, un raggio che doveva uscire dalla punta delle
dita. Occorreva che il compagno, verso il quale si proiettava questo raggio,
lo sentisse arrivare: il compagno, anche lui, doveva concentrarsi a
riceverlo. L'attenzione veniva anche convogliata e fissata sull'uno e
sull'altro oggetto, fin che si sentiva qualcosa che poi bisognava
descrivere. Si dava molta importanza alle tecniche di rilassamento dei
muscoli e al contatto che si stabiliva tra i compagni". Fra queste tecniche
e la ricchezza creativa degli insegnamenti di Stanislavskij correva
l'abisso.
Ma forse e' opportuno mettere l'accento sulla persona di Stanislavskij e
sull'"occasione" che gli diede modo di ribaltare il mondo della cultura
teatrale, e non solo quello.
*
Galeotto fu "Il gabbiano"
Konstantin Sergeevic Stanislavskij, il cui vero cognome era Alekseev, nacque
a Mosca il 5 gennaio 1863 in seno a una famiglia borghese, che intratteneva
rapporti con un'illuminata schiera di industriali, mecenati delle arti. La
madre, francese, era una fine pianista e trasmise al figlio un precoce
quanto smisurato amore per la musica e per il teatro. Tutti gli Alekseev,
del resto, erano vocati all'arte. Sin da piccolo, Konstantin veniva
accompagnato al Bol'soj insieme ai suoi nove fratelli, genitori, balie,
lacche' in livrea, "portandosi nelle carrozze caraffe d'acqua bollita,
bicchieri, ceste di frutta, di leccornie e vettovaglie... Come cominciava lo
spettacolo, eccoli tutti attoniti, intenti, inquadrati nel vano dei palchi
come un ritratto di famiglia" e niente poteva distogliere Konstantin e
l'intero gruppo degli Alekseev da quell'universo illusorio, ammaliati dai
numeri di giocoleria, dai sortilegi, le marionette, le piroette dei
ballerini, dall'odore di acetilene delle lampade per l'illuminazione.
Stanislavskij-Alekseev comincio' infatti la sua carriera di enfant prodige
come attore, e attore rimase, sia pure a intermittenza, per il resto della
sua vita. Anche il fratello Kostja tento' la carriera del cantante lirico, e
due sorelle interpretarono un'operetta. Afferrati dal raptus della
teatralita', gli Alekseev acquistarono addirittura due teatrini di travi e
di teli per potervisi esibire in un singolare e un po' folle sodalizio,
scrivendo talora essi medesimi i testi della recita.
Nel 1882 l'abolizione del monopolio dei teatri imperiali aveva causato a
Mosca un proliferare di sale private, arene, tende da circo in cui si
tenevano recite dal repertorio multiforme, senza unita' di indirizzo. Era
rimasto, a far da guida, il Malyj (il Piccolo), dove recitavano mirabili
interpreti, purtroppo in una sequela di commedie e drammi scelti a caso e
non dovutamente preparati. Altro nobile superstite della liberazione
dall'esclusiva degli zar, fu l'Aleksandrinskij di Pietroburgo. Li' crollo'
miseramente Il gabbiano di Cechov nell'autunno del 1896, lasciando
annichilito l'autore. "La commedia e' caduta e ha fatto un fiasco solenne",
scrisse Cechov al fratello Michail. "C'era nell'aria una penosa tensione di
perplessita' e di vergogna. Gli attori recitavano in modo abominevole e
sciocco. Di qui la morale: non si devono scrivere commedie". Stanislavskij
incontro' quella notte l'umiliato Cechov vagante per le vie della citta' in
preda a una sorta di isteria, e gli promise che avrebbe risuscitato Il
gabbiano facendolo volare nei cieli che gli erano dovuti.
Il gabbiano ha un ritmo "d'acqua dormiente, una lentezza ipnotica". Ci
vollero due anni perche' Stanislavskij entrasse e facesse entrare attori e
sceneggiatori nell'atmosfera cechoviana: e fu un trionfo. I semitoni, le
voci sommesse, le pause, esprimevano alla perfezione il lirismo vagheggiato
dall'autore che descriveva pacatamente cio' che sentiva drammaticamente.
Formidabile osservatore, Cechov aveva alle spalle una fitta serie di
pubblicazioni: novelle, racconti di viaggio (era stato anche in Italia per
curarsi la tbc), romanzi brevi. Il gabbiano era il suo primo dramma. Egli si
trovava all'alba della maturita', ma la sua linea non avrebbe subito
mutazione, tutto cominciava con forza per estinguersi poco a poco nelle
nebbie della vita. Un banco di prova per qualsiasi regista.
Ed ecco. Nato con la vena naturale della teatralita', Stanislavskij, grazie
(in parte) ai testi di Cechov, impose all'istinto una disciplina da monaco
medioevale.
*
Una sfida al consueto
Gia' come attore, insieme all'amico umanista e grammatico Vladimir
Nemirovic-Dancenko, aveva scardinato i principi della tradizione, imponendo
la fedelta' al vero interiore. E questa novita' era piombata nella Russia
delle scene, della letteratura e dei salotti come un colossale petardo. In
un Paese dove giocare a carte e andare a teatro figuravano tra le attivita'
fondamentali, sussurri e grida coprirono il nome di Stanislavskij, ma non
eravamo che all'inizio del sovvertimento. I burocrati avevano smesso di
esercitare il loro influsso sulla scelta dei testi, tuttavia - riciclati in
altre vesti - favorivano spettacoli negletti e refrattari a ogni impegno
intellettuale; tutto doveva continuare a essere arrugginito, vecchio,
sterile. L'attrice Marija Ermolova dice che Ibsen era guardato come un
pericolo, e La pulzella d'Orleans di Schiller fini' per suscitare grande
comicita' per i fondali di cartone che vacillavano e la spada dell'eroina
piegata in due nel momento in cui si sarebbe dovuta alzare in segno di
vittoria.
Sara' pur vero cio' che ha scritto Fabrizio Cruciali, e cioe' che e' un
errore credere nell'esistenza di alcuni teatri-laboratorio. Tutti i teatri
sono laboratori; in tutti si sperimenta qualcosa che non e' reale, ma in
vista della cosiddetta realta'. Anche Strehler la pensava cosi', precisando
pero' che non si scende in un laboratorio due o tre volte l'anno. Il
laboratorio e' sempre. E questa fu la scienza di Stanislavskij, il demone
della sua vita. Comincio' a predicare questo vangelo nella compagnia di
famiglia Alekseev, quando ancora frequentava il ginnasio, benche' il suo
universo teatrale fosse al principio olfattivo, di un sentore ubriacante,
come ha scritto nell'Autobiografia: "[...] con uno dei miei fratelli,
tornavo dalla scuola nella nostra villa per lo spettacolo. Tenevo sulle
ginocchia una scatola di cartone di enormi proporzioni, abbracciandola come
la vita di una donna grassa. Nella scatola c'erano le parrucche e gli arnesi
per truccarsi. Il loro specifico odore filtrava dalle fessure della scatola
e mi batteva nel naso. Mi inebriavo sin quasi alla nausea di questo odore di
teatro, di attore, di quinte, e per poco non precipitai in un fossato dalla
carrozza".
Il nemico giurato della teatralita', il mistico dell'intelletto che aveva in
odio i gesti declamatori, le formule pronte e gli stracci polverosi dei
clown, ricordo' sempre con nostalgia gli anni in cui stava avvolto come una
larva nel baco da seta dell'adolescenza.
Tutto cio' non va sopravvalutato per amor di leggenda. Pero' anche all'apice
dei suoi mitici corsi, Stanislavskij non dimentico' mai il brulichio delle
ciarle familiari e il falso pathos dei testi inventati a molte mani nel
tanfo dei teatrini Alekseev, la stridula imitazione di Adelina Patti da
parte di una sorella, il lento spegnersi di questa societa' pseudo
cultural-teatrale nell'anno 1888 con una commedia di Moliere.
Nell'aprile 1889 Konstantin Sergeevic recito' una tragedia di Schiller in un
teatro di seconda classe, ma il risultato fu cosi' mediocre che Schiller
verra' letteralmente cancellato dal repertorio del "Teatro dell'Arte", la
grande creatura del regista russo, perito-settore, in quel primo tempo della
sua attivita', soprattutto di Ibsen e di Cechov.
Il "Teatro dell'Arte" fu, all'inizio, un acconciamento del vecchio e cadente
Ermitage: tre anni dopo sorgeva, al suo posto, un edificio elegante con una
compagnia stabile di cui faceva parte, tra gli altri, Alla Nazimova, futura
diva del cinema americano. Ma il "Teatro dell'Arte" non era solo un "luogo",
era una scuola e un carrozzone viaggiante (venne in Europa nel 1906 per una
tournee trionfale), era una sfida al consueto dove Stanislavskij metteva in
mostra la sua inesauribile fantasia e la sua meticolosita'. Basti pensare
che per mandare in scena uno spettacolo che si svolgeva a Mosca verso la
fine del XVI secolo, intraprese con i suoi compagni un giro in antiche
citta' russe affinche' l'odore dei tempi remoti penetrasse nelle loro carni.
Lui stesso si fece rinchiudere per una notte nelle putride e rudimentali
vesti di un antico boiaro, all'interno del Palazzo Bianco di Rostov. Voleva
tutto vedere e tutto provare. Non a caso un giorno della primavera del 1922,
un allievo che stava passeggiando accanto al maestro e che gli chiese
precisamente cosa fosse un regista, si ebbe questa risposta: "Guardati
intorno e dimmi quello che vedi". Ascoltata la replica dell'allievo, si mise
a enumerare un'infinita' di cose che il giovane non aveva visto, lo spinse a
immaginare chi fossero gli uomini che passavano, a ricordare quali notizie
portava il giornale del mattino, perche' le carrozze e i tacchi facessero
rumori diversi... "Il regista e' colui che sa guardare e farsi guardare". Il
suo "sistema" era prassi pedagogica, "trasmissione di un'esperienza
attraverso l'azione, non teoria".
Stanislavskij e Cechov, abbiamo detto. Un binomio strano, che' il teatro del
grande drammaturgo e' un teatro di stasi, in quanto e' l'atmosfera che
determina l'azione e il valore dei personaggi e c'e' quindi una grande
difficolta' a stabilire un rapporto con lo spettatore. Non per nulla sua
moglie, l'attrice Olga Knipper Cechova, sosteneva che per amare Cechov
bisogna amare la creatura umana "con tutte le sue debolezze e i suoi
difetti". In realta' Cechov amava la creatura umana "attraverso" l'habitat
in cui veniva collocata. Dell'Italia, dove fu due volte, rammentava
soprattutto l'aura. "La Lombardia mi stupi' tanto che mi pare di ricordarne
ogni albero, e Venezia mi basta chiudere gli occhi per vederla...". Dunque
Stanislavskij volle, pretese, che i personaggi di Cechov vivessero sulla
scena "a nervi scoperti": il testo talora veniva dimenticato, mutato. "Zio
Vania appare impaziente, irascibile, sfibrato dalla scontentezza e dalla
nausea; batte i pugni sul tavolo, si agita, ammazza zanzare (le famigerate
zanzare stanislavskiane), ride nervosamente, si strofina la fronte e si
scompiglia i capelli, rovescia le sedie, si strugge in pianti... Suoni
strazianti, il calpestio dei cavalli su un ponte di legno, lo stridore dei
grilli nella stufa, sottolineano la differenza tra la purezza dei sogni e la
banalita' della vita quotidiana".
Quando Strehler, la cui storia e' scandita dall'aprirsi e dal chiudersi di
infiniti sipari, istitui' - dopo il Piccolo Teatro - il Teatro Azione e il
Teatro d'Europa, pose come pietra di base il metodo Stanislavskij. Mise
cioe' in pratica questa difficile operazione. Gordon Craig l'aveva riassunta
anni prima con una delle sue locuzioni paradossali eppur veritiere: "Per
creare il teatro bisogna uccidere il teatro: gli attori e le attrici devono
morire di peste". A imitazione del pittore, "costretto" a superare la
materia.
*
La vera rivoluzione russa
Le impalpabili atmosfere di Cechov furono rivissute da Stanislavskij
attraverso un "realismo psicologico". E tutto il vastissimo repertorio da
lui affrontato (lo attestano i suoi scritti) fu filtrato dalla coscienza che
egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento,
delle cosiddette "vecchie ricette".
Nella vetrina delle rappresentazioni di Stanislavskij brilla come un
gioiello la prima in Russia di un'opera di Ibsen, Casa di bambola.
Incarnazione quanto mai difficile quella del testo ibseniano, che gli
consentiva di vedere (o lo costringeva a vedere) cio' che l'occhio comune
non vede. Era accanto a lui da qualche anno la giovane attrice Maria
Petrovna Lilina, sposata nel 1889, che gli fu fedele per tutta la vita e
collaboro' fattivamente alle sue ricerche. I vecchi teatranti, considerati
istrioni, diranno del "Teatro dell'Arte" che era una piovra, dove "ogni
trasgressione veniva considerata un delitto". C'era un registro, detto il
"libro dei protocolli" sul quale venivano segnati ritardi, assenze,
infrazioni. Questo rigore fu ripreso da Lee Strasberg quando Stanislavskij
si reco' negli Stati Uniti a divulgare il suo verbo, nel 1923.
All'inizio del secolo Stanislavskij, mentre elaborava il suo "metodo"
sull'attore, fece anche una rivoluzione di ordine estetico. Aboli' le
musiche che rallegravano il pubblico fra un atto e l'altro, ed erano sempre
in dissidio con il testo, cosa intollerabile. Sostitui' lo sfarzoso sipario
di velluto con delle porte scorrevoli che dovevano subito richiudersi al
rintocco del gong finale, affinche' l'illusione non venisse vanificata. Gli
interpreti non avrebbero ringraziato ne' durante la recita ne' in ultimo.
Gordon Craig, che fu a Mosca una prima volta dal 1908 al 1911, e una seconda
nel 1919, dice che questo sistema conferiva all'ambiente del teatro una
specie di misticita'. Fu durante la sua lunga permanenza iniziale che
strinse amicizia con il braccio destro di Stanislavkij - alle prese con
L'uccellino azzurro di Maeterlinck - il fedele Leopold Sulerzickij e con lui
comincio' a elaborare la possibilita' di mettere in scena l'Amleto nel
"Teatro dell'Arte". Tutti gli intellettuali del tempo sognavano di lavorare
con il grande innovatore russo. L'idea dell'Amleto di Craig intrigo'
Stanislavskij al punto che il regista inglese fu costretto a cimentarsi per
circa due anni con i disegni delle scene: ma cio' che premeva di piu' al
maestro era il dissidio fra il mondo della corte e quello del principe
danese. Le anime contavano, bisognava andarci dentro. E Ofelia? Che cosa
farne? E' bella e stupida. No, il filosofo Belinskij la crede pura e
innocente come Desdemona: una vittima. Ma Shakespeare, come la vede? E' una
piccola creatura insignificante? Non e' possibile. Amleto non sarebbe
innamorato di lei. La discussione non approdo' al risultato che
Stanislavskij si aspettava, cosi' non "presto'" a Craig la propria moglie
Lilina per il ruolo di Ofelia. In quel periodo, oltretutto, egli si ammalo'
seriamente di tifo, e i preparativi per lo spettacolo furono interrotti. La
fatica di ottenere l'Amleto secondo i propri canoni ando' in parte
vanificata. "Ho parlato per due giorni e due notti, da solo, con i
personaggi principali dell'Hamlet. Al terzo giorno abbiamo riunito tutta la
compagnia e Nemirovic -Dancenko ha spiegato il mio sistema. Io penso che su
dieci attori, al massimo cinque abbiano capito qualcosa", scrisse.
In effetti le descrizioni dell'atmosfera che regnava sul Primo Studio,
aperto nel 1912 - tre stanze sopra un cineteatro nella periferia di Mosca -
sono quasi raccapriccianti. L'attrice Serafina Birman lo defini'
"un'assemblea di credenti nella religione di Stanislavskij"; Suler disse che
si trattava di un monastero, una scuola all'acqua benedetta, dove la
concentrazione ascetica non doveva essere scheggiata nemmeno dal ronzare di
una mosca; altri definirono il Primo Studio un'officina dove si lavorava, a
volte, dalle dieci del mattino alle due di notte, soffrendo il freddo e la
fame. Le circostanze della vita privata dovevano rimanere tutte fuori dalla
porta.
Il compito principale del "metodo Stanislavskij" era estirpare dal teatro
gli antichi calchi, i virtuosismi, la separazione fra teatro e vita. Facile
a dirsi, ma questo richiedeva un'etica (Etica e' infatti il titolo del suo
ultimo libro, rimasto incompiuto). Per entrare in comunione con il genio di
Shakespeare, di Puskin, Ibsen, Gogol, Moliere, bisogna strapparsi dall'animo
ogni possibile meschinita', calunnie, invidie, intrighi, pettegolezzi,
superficialita', egoismo, altrimenti il teatro diventa una "sputacchiera".
Tutto era basato sull'autocontrollo, sulla presa di contatto con l'atmosfera
comune, con la propria parte, con la volonta' accanita di apprendere.
Stanislavskij fa provare Il Tartufo non per rappresentarlo, ma per studiare.
I suoi allievi non erano esentati pero' dal lavoro manuale. Se gli occorreva
acquisire la conoscenza di una scena di zotici, li mandava a zappare. Quando
mise in scena La potenza delle tenebre si porto' dalla regione di Tula due
mugiki perche' lo "assistessero" con i loro dettami, non si lavassero e
continuassero a indossare i loro puzzolenti stracci. E' vero che
raccogliera' nei libri le sue lezioni, i risultati delle sue ricerche, che
fara' nascere dalla sua costola registi geniali (Vanchtangov, Mejerchol'd,
Ejzenstejn - per parlare solo dei russi - e molto di lui passera' attraverso
i filtri di Chaplin e di Marceau), tuttavia non si puo' negare in
Stanislavskij uomo il senso dell'eccesso.
*
La genesi dell'Actor's Studio
Al tempo della Rivoluzione (1918-1922) il maestro teneva le sue lezioni al
Teatro Bol'soj. Era un grande sostenitore della danza libera di Isadora
Duncan che, senza capir niente di politica, si diceva sovietica. In lei
vedeva riflessa l'azione organica interiore. "Perche' l'arte e' la sintesi
di tutte le conquiste dell'uomo nel suo io spirituale, cioe' nel lavoro del
suo cuore. Chiamiamo queste conquiste la cultura del cuore. E diciamo che
tutti i tentativi dell'osservazione, tutti i tentativi di abituare a
qualcosa il corpo e i pensieri sono la cultura della consapevolezza". Si
faceva aiutare dal fratello Vladimir e dalla sorella Zinaida che
stenografavano le sue lezioni ed erano diventati sacerdoti del suo metodo. A
essi affido', in quel periodo traballante, la continuazione della sua opera,
mentre lui girava per l'Europa e per l'America. In Italia - a Sorrento,
presso Gorkij -, soggiorno' a lungo nel 1924 per studiare, insieme
all'autore, la possibilita' di mettere in scena I bassifondi. L'aria
balsamica del Mediterraneo gli addolciva i ricorrenti effetti di un'antica
tisi mai debitamente curata, e casa Gorkij era cosi' accogliente: un pezzo
di Russia trapiantata tra il profumo degli aranceti che non erano rigidi e
oleografici come quelli del Mar Nero. "Torquato Tasso era di Sorrento, e qui
lo capisci molto bene", diceva Gorkij. Fu in quel periodo che Konstantin
comincio' a scrivere il suo libro piu' famoso: La mia vita nell'arte,
terminato solo nel 1925. Alla sosta negli Usa si deve la "costruzione"
successiva di personaggi mitici quali Clark Gable e, sembrera' strano, James
Dean, usciti da quell'Actor's Studio che arrivo' a educare ben 500 attori
tra superfamosi, famosi e comunque di livello. Vediamo un po' di fare il
punto su questo exploit americano. Quando Stanislavskij giunse a New York
(dopo aver messo per qualche mese le ancore a Praga), comincio' a insegnare
in una chiesa al centro della citta'. In America ogni attore lavorava per
conto proprio, non esisteva alcun indirizzo, chi si poneva domande non
trovava risposte. Tra questi sbandati e scontenti c'era Lee Strasberg, un
polacco ebreo nato nel 1901. Rimase affascinato dalle lezioni del maestro
russo. Il lungo dialogo che intrecciarono nacque, si dice, da una
interrogazione basilare di Strasberg: "L'attore sul palco prova sentimenti
reali o sta semplicemente imitando?". Tutto il cinema d'autore americano
trasse il suo succo da quella frase, dal lavoro dell'Actor's Studio, fondato
da Strasberg nel 1947 (nove anni dopo la morte di Stanislavskij) e, in
seguito, dal viaggio di Lee in Russia a raccogliere dagli eredi diretti del
fondatore del sistema, le testimonianze, a volte sbalorditive, sul modo di
trovare la chiave per introdursi nella psicologia del personaggio, della
vicenda, dell'autore.
Alcuni sostenevano che qualcosa di simile avessero fatto in Scandinavia
Ibsen e Strindberg, i "padri del realismo psicologico moderno". Altri
dissero che, data la sua sapienza e la sua continua evoluzione culturale,
Stanislavskij fosse il nemico primo del "metodo Stanislavskij". Ne temeva
l'immobilizzazione. Che invece non avvenne, grazie anche a coloro che ne
spiccarono i precetti, rielaborandoli, a cominciare da Vsevolod Mejerchol'd.
Una vita cosi' intensa, scavata nel profondo, incise sul cuore di
Konstantin, che si diede a regie d'opera, considerate piu' lievi, quasi
abbozzi affidati alle cure di solleciti allievi. In casa propria allesti' un
piccolo teatro dove mise in scena l'Oneghin di Cajkovskij. Anche Strehler,
negli ultimi anni, dara' il proprio apporto registico all'opera lirica. Si
ammalo' seriamente nel 1935. Ma il vecchio leone non si dava tregua. Ancora
nel '36 inauguro' un nuovo Teatro Studio per l'Opera lirica e il Dramma. Ha
scritto un cronista del tempo: "Se non poteva alzarsi raccoglieva gli
attori, talvolta con il trucco e il costume, intorno al suo letto. Quando
non era in grado di riceverli, si attaccava al telefono. Le sue telefonate
duravano ore e ore. Ascoltava intere parti al telefono". Era posseduto da
una tale smania di trasmettere le proprie esperienze che invocava: "Venite a
derubarmi! I miei armadi si spezzano per i troppi libri, e la testa per i
troppi pensieri! Prendete da me, fin che sono vivo".
Sapeva che alla sua morte, avvenuta il 7 agosto 1938, i burocrati sovietici
avrebbero imbalsamato la sua arte mutevole e inquieta, e gli avrebbero
eretto una marmorea cappella destinata al piu' cupo oblio. Del resto era
quella l'epoca delle grandi purghe, Gorkij era morto (misteriosamente) nel
'36, per Sostakovic era pronta la bolla di "scompigliatore" della musica, il
teatro d'avanguardia di Majakovskij era andato in soffitta da un pezzo. Il
grande allievo, antagonista e, in fondo, devoto amico di Konstantin,
Vsevolod Mejerchol'd, tentava di portare a termine le regie incompiute del
tenacissimo mago, I lupi e le pecore di Ostrovskij, il Rigoletto e l'Edipo
re. Ma neppure un anno piu' tardi sarebbe stato arrestato e deportato,
fucilato nel 1941: mentre sua moglie, l'attrice Zinaida Raich veniva
rinvenuta sgozzata nella cucina della loro casa. In quell'aria di
filisteismo bolso e livellatore, bastava un niente perche' un artista
venisse accusato di tradimento.
Stanislavskij lasciava comunque il suo testamento al mondo. Sarebbe
sopravvissuto ai crolli delle ideologie e dei muri. Tant'e' che ancora se ne
discute, per gloriarlo, "usarlo" o, in taluni rari casi, per demistificarlo.
Sempre ritenendolo termine di confronto.
*
Figlio della grande madre Russia
Konstantin Sergeevic Stanislavskij (pseudonimo di Konstantin Sergeevic
Alekseev) nacque a Mosca il 5 gennaio 1863, e' ricordato come attore,
regista, scrittore molto fecondo, teorico del teatro. E' famoso per essere
stato l'ideatore dell'omonimo "metodo Stanislavskij" da lui descritto in una
serie impressionante di lezioni in Russia, in Europa e in America.
Veniva da una famiglia medio-borghese, con la passione degli spettacoli,
della musica e della vita cultural-mondana. La nonna materna era un'attrice
francese, Marie Varlet, sbarcata a Pietroburgo per fare la soubrette.
Lasciato il teatro, sposo' un architetto, ma trasmise alla figlia la
vocazione alla musica. La madre di Stanislavskij era infatti un'ottima
pianista, fortunatamente andata sposa a un uomo, Sergej Vladimirovic
Alekseev, che assecondava la sua passione e, anzi, fini' per dilatarla
all'intera sua famiglia composta di ben dieci figli. Alcuni fratelli e
sorelle di Stanislavskij furono di volta in volta attori e cantanti.
La vita di quest'uomo geniale si svolse in un periodo molto difficile per la
Russia, ma anche eccezionalmente denso di grandi nomi. Dal 1880 al 1893
erano nati Aleksandr Blok, Andrej Belyj, Sergej Esenin, Anna Achmatova,
Boris Pasternak ed era in piena attivita' Anton Cechov, nato vent'anni
prima, il quale sarebbe rimasto legato a doppia corda al teatro di
Stanislavskij.
Nel 1889 Konstantin sposo' l'attrice Maria Petrovna Lilina, e fu un
matrimonio di reciproca dedizione. Era un uomo bello, alto, gentile di
indole, di una severita' monastica verso se stesso e verso gli altri. Si
dice che comincio' a elaborare il suo "sistema" dopo aver visto recitare nel
1885 e nel 1890 la compagnia Meininger del duca di Sassonia, in tournee in
Russia. La sua esistenza privata fu semplice. Nel 1928 comincio' ad
avvertire i sintomi del mal di cuore che lo porto' alla tomba nel 1938. Fra
le sue interpretazioni rimase memorabile l'Otello. Maria Petrovna Lilina gli
sopravvisse dieci anni, ma non calco' piu' le scene.
*
Quei "Lavori" fondamentali
Tra le pubblicazioni di Stanislavskij citiamo: La mia vita nell'arte (1926);
Lezioni al Teatro Bols'oj (1918-1922); Il lavoro dell'attore su se stesso
(1936); Il lavoro dell'attore sul personaggio (1937); Etica (1938, non
terminato). Nel 1954 usci' a Mosca l'Opera completa in otto volumi.
L'Autobiografia, pubblicata nel 1926, fu tradotta in tutto il mondo. In essa
Stanislavskij non parla solo di se' e del proprio metodo, ma disegna in modo
incomparabile la vita culturale moscovita a cavallo tra l'Ottocento e i
primi tre decenni del Novecento.
Di lui attualmente in commercio troviamo:
Le mie regie. Vol. 1: Tre sorelle - Il giardino dei ciliegi, Ubulibri, 1986,
pp. 356 ill., euro 20,66.
Le mie regie. Vol. 2: Zio Vanja, Ubulibri, 1996, pp. 149 ill., euro 15,49.
Le mie regie. Vol. 3: Il gabbiano, Ubulibri, 2002, pp. 168 ill., euro 15,90.
Lezioni al Teatro Bol'soj, Audino, 2004, pp. 176, euro 16,90.
Il lavoro dell'attore sul personaggio, Laterza, 2007, pp. 324 ill., euro
19,50.
Il lavoro dell'attore su se stesso, Laterza, 2007, pp. 600 ill., euro 34.
Su di lui, reperibili in libreria o su Internet:
Angelo Maria Ripellino, Il trucco e l'anima. I maestri della regia nel
teatro russo del Novecento, Einaudi, 2002, pp. 424, euro 23.
Vasilij O. Toporkov, Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri,
2003, pp. 152, euro 19.
Fausto Malcovati, Stanislavskij. Vita, opere e metodo, Laterza, 2004, pp.
213, euro 10.
Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij. Dagli esperimenti del Teatro d'Arte
alle tecniche dell'Actor's Studio, Marsilio, 2004, pp. 195, euro 18.
Gioacchino Palumbo, I pionieri del teatro del Novecento. Stanislavskij,
Mejerchol'd, Artaud, Grotowski, Bonanno, 2005, pp. 102, euro 16.
Ombretta De Biase, Da Konstantin Stanislavskij a... Marlon Brando, Editoria
& Spettacolo, 2006, pp. 144, euro 10.
Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell'attore al lavoro su di se',
Laterza, 2006, pp. 184, euro 16.
Jean Benedetti, Stanislavskij. La vita e l'arte. La biografia critica
definitiva. Vol. 1: Dalla nascita alla creazione del "sistema" (1863-1908),
Audino, 2007, pp. 223, euro 19.
Jean Benedetti, Stanislavskij. La vita e l'arte. La biografia critica
definitiva. Vol. 2: Dalla diffusione del "sistema" alla morte (1908-1938),
Audino, 2007, pp. 219, euro 19.
Edo Bellingeri, Stanislavskij prova Otello, Artemide, 2008, pp. 302, euro
20.

4. LIBRI. MARCO DOTTI PRESENTA "LA MORTE MODERNA" DI CARL-HENNING WIJKMARK
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 febbraio 2009 col titolo "Indurre
all'eutanasia, questo e' l'obiettivo" e il sommario "Discussioni immaginarie
in un simposio inventato"]

Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna, Iperborea, pp. 119, euro 11.
*
A meta' strada fra l'operetta morale e il pamphlet, La morte moderna, dello
scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark descrive una giornata "qualunque",
in un centro congressi "qualunque", nei pressi dello stretto dell'Oresund,
durante un simposio organizzato dal Fater, inquietante "comitato interno"
del Ministero degli Affari esteri. Il tema e' "La fase terminale della vita
umana", e il libro, scritto nel 1978, e' stato da poco tradotto anche in
Italia per le edizioni Iperborea. A dettare l'agenda del simposio e a
occupare la scena sono le controverse "opzioni" di politica sociale di un
certo Caspar Storm, "esperto di bioetica" che nemmeno troppo velatamente si
dichiara figlio di un positivismo giuridico e di un realismo politico
estremi. Preoccupato dall'allungarsi dei tempi della vita media, dalla
crescente disoccupazione e da un possibile conflitto fra generazioni, Storm
e' uno spin doctor che propone le proprie "ricette" lanciando le sue parole
d'ordine all'interno delle istituzioni, mascherandole dietro altre parole
all'apparenza piu' rassicuranti come "riformismo", "progresso" e "assunzione
di responsabilita'" e, soprattutto, lasciando che, con il mutare dei tempi,
maturino e diano i loro frutti.
Si tratta, pero', di frutti avvelenati, difficili da digerire a cuor leggero
e non solo per Aksel Ronning, l'intellettuale (sorta di alter ego di
Carl-Henning Wijkmark) che nel racconto si fa carico del ruolo di
antagonista rispetto alle idee e al sistema di valori di Storm. Come
evitare, si chiede Storm, che le nuove generazioni non garantite ne' sul
piano economico ne', tantomeno, su quello sociale e soprattutto assillate da
problemi di precarieta' e disoccupazione, si scontrino con schiere informi
di anziani ex-lavoratori che non la vogliono smettere di consumare senza
produrre e di attivissimi pensionati i quali, oltre ad essere garantiti da
iperprotezioni sanitarie e pensionistiche, continuano a rivendicare un ruolo
attivo all'interno della societa'? Uno svedese su quattro, osserva il
"moderatore" che prepara il campo alle proposte di Storm, e' in pensione di
anzianita', mentre uno su otto pur trovandosi in eta' produttiva e' in
pensionamento anticipato, infine ben il settantacinque per cento delle
risorse sanitarie viene letteralmente "sprecato" per la cura di malati
cronici o senza speranza. E' compatibile tutto questo, ci si chiede, con una
moderna politica di assistenza sociale? Il problema, per Caspar Storm e i
membri del Fater e' capire come operare all'interno di un sistema
socialdemocratico senza incorrere negli eccessi ideologici di un Mogens
Glistrup - il politico danese che, per anni, ha sostenuto la soppressione di
ogni forma e tipo di assistenza sociale - o dei sostenitori di Milton
Friedman che, proprio negli anni in cui Wijkmark dava alle stampe La morte
moderna, proproneva le proprie ricette per la riforma di societa' e mercato.
Se per Friedman "nessun pasto e' gratis", per Caspar Storm gratis non lo e'
neppure la morte. E, dal suo punto di vista, fa parte delle piu' amare ma
assolutamente "naturali" verita' il fatto che i piu' deboli, gli "inadatti",
gli "inadattabili" - in uno spettro che va dai portatori di handicap ai
malati terminali, dai lavoratori in pensione ai nullafacenti - non
dovrebbero essere di peso alla societa' e, data la scarsita' delle risorse,
dovrebbero possibilmente togliersi di mezzo da se'. La sacralita' del valore
umano, per Storm, regge finche' ci sono i mezzi, ma in un frangente
storico-economico in cui la scarsita' delle risorse si erge a sistema,
allora la realta' "va guardata in faccia". Nessuna idea di sovversione
politica, pero', anima Storm e i suoi accoliti.
La riforma proposta da Storm riguarda, soprattutto, l'ambito della
"mentalita'" e del comportamento dell'uomo comune e si propone di "aumentare
la domanda di eutanasia all'interno della societa'" preparando cosi' il
terreno a quelle riforme che, altrimenti, verrebbero percepite come radicali
e contrarie alla dignita' umana. Il problema, per i membri del Fater, e'
individuare e far condividere dalla coscienza dell'uomo medio la logica che
presiede al cosiddetto "human value che non e' equivalente a valore umano,
anzi il contrario, l'utilita' che un certo individuo continui a vivere
valutata in denaro". Mascherandosi dietro il paravento della laicita', della
scienza e delle sue sorti (sempre magnifiche e progressive), il Fater
propone due precisi strumenti di riforma: il marketing dell'idea di
eutanasia come "obbligo volontario" e il "lobbing" sulla sua opportunita'
pubblica e sulla sua praticabilita' sociale. "Recht ist vas dem deustschen
Volke nuetzt", diritto e "rettitudine" coincidono con la volonta' e il bene
del popolo, sosteneva Adolf Hitler. E questo positivismo giurico estremo,
debole ma non necessariamente inconcludente, e' esattamente quello che
l'umanista e giusnaturalista Ronning rimprovera a Storm, con una differenza:
se in Hitler la volonta' di ingannare si legava a una catastrofica
megalomania arrivata chissa' come e chissa' perche' nelle stanze del potere,
nel caso dei membri del Fater - e dei loro epigoni di ogni ordine e grado -
quella volonta' si coniuga con una non meno catastrofica e sconcertante
ignoranza della natura perversa del potere stesso.
Si possono non condividere molte delle critiche che, attraverso la voce di
Ronning, Carl-Henning Wijkmark rivolge alla societa' del suo e del nostro
tempo, ma questo non toglie che La morte moderna sia un libro di
straordinaria e, per troppi versi, perturbante attualita'.

5. RILETTURE. ADOLFO BIOY CASARES: DIARIO DELLA GUERRA AL MAIALE
Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale, Bompiani, Milano 1971,
pp. 248. Parla anch'esso di noi oggi, chi lo ha letto sa perche'.

6. RILETTURE. ADOLFO BIOY CASARES: L'INVENZIONE DI MOREL
Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel, Bompiani, Milano 1966, 1974, pp.
152. Parla anch'esso di noi oggi, chi lo ha letto sa perche'.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 202 dell'8 febbraio 2009

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