Nonviolenza. Femminile plurale. 233



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 233 del 5 febbraio 2009

In questo numero:
1. Natalia Aspesi: La barbarie dello stupro in tv
2. Guido Caldiron intervista Tullia Zevi (2008)
3. Giuliana Sgrena intervista Suad Amiri
4. Viviana Mazza: Aydah Al Jahani, una poetessa in tv
5. Alcuni estratti da "Parole di donne irachene" di Inaam Kachachi (2003)
6. Francesco M. Cataluccio: Opere di Wislawa Szymborska e Julia Hartwig

1. RIFLESSIONE. NATALIA ASPESI: LA BARBARIE DELLO STUPRO IN TV
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica" del
29 gennaio 2009 col titolo "La barbarie dello stupro in tv"]

Se lo stupro diventa la prima notizia del piu' importante telegiornale Rai
vuole dire che non si tratta piu' solo di un crimine efferato che puo'
spezzare la vita di una donna, ma di un'arma politica che non tiene conto
del dramma individuale, ma se ne serve per altri fini non tanto occulti. Se
infatti i telegiornali dovessero seguire sempre questo modo di informare,
non ci sarebbe spazio per altre notizie, ne' internazionali ne' nazionali;
visto che nel 2008 i casi di violenza sessuale denunciati (quindi una minima
parte) sono stati 4.465, e a voler essere pignoli la massima parte dei
criminali era italiana (58%), mentre i rumeni, sempre troppi, erano il 9,2%.
A Roma, su 221 stupri denunciati, i piu' inclini a questo tipo di virile
passatempo sono stati ancora gli italiani (35%), ma i rumeni li hanno quasi
raggiunti (31%).
E' da mesi che i nostri telegiornali prima delle stragi belliche, delle
risate del premier, della politica estera e italiana, della crisi
finanziaria, dei licenziamenti, figuriamoci della miseranda cultura, mettono
in primo piano la cronaca nera, con particolare attenzione alle macchie di
sangue o anche di eventuale materia cerebrale, senza mancare i funerali di
vittime di omicidi particolarmente efferati.
Adesso le telecamere, forse per distrarre e invogliare all'ottimismo che
viene dall'horror, si dilungano contentissime sulla barbarie degli stupri: e
non tanto su quello dei Castelli Romani, (autore un panettiere italiano
subito ai domiciliari, malgrado l'indignazione della sua vittima e della sua
famiglia), quanto su quello di Guidonia, particolarmente odioso perche'
perpetrato da un branco di cinque rumeni su una ragazza di 21 anni, dopo
aver picchiato il suo ragazzo (viottolini putrescenti, erbacce, cartacce,
alla ricerca dell'estetica del degrado). Ma non basta, adesso i telecronisti
alzano il tiro anche sull'altra barbarie, cioe' sul tentativo di linciaggio
dei colpevoli, sulle spedizioni punitive a caso contro qualsiasi straniero,
raccogliendo dichiarazioni animalesche da parte dei soliti bravi cittadini
italiani certi che lo stupro sia un costume esotico perpetrato dai soli
stranieri. Perche' se mai capitasse a uno di loro di trovarcisi implicato,
sarebbe certamente colpa della stuprata: come del resto sostenevano nei
primi processi per violenza carnale negli anni '70 certi principi del foro,
puntando il dito indice contro la frastornata disgraziata rea di aver avuto
in passato un fidanzato, prova certa della sua disponibilita' carnale,
mentre la madre dello stupratore, baciandolo e accarezzandolo, gridava
puttana alla povera Circe, anche se sanguinante.
Dieci anni fa la storica Barbara Ehrenreich in un suo studio sul rapporto
tra guerra e ruolo maschile, osservava che gli stupri sono piu' frequenti
dove vi sono norme sociali di accettazione dell'uso della violenza come
mezzo legittimo per ottenere cio' che si desidera. Inoltre se sono in corso
conflitti violenti, tutte le forme di violenza aumentano, compresa quella
sessuale (citato da Daniela Danna in Ginocidio).
Se il nostro e' un paese dove l'informazione televisiva da' il massimo
spazio, senza la minima replica, al tentativo di linciaggio oltre che allo
stupro, se privilegia il clima di violenza della cronaca nera, se alza
l'allarme sicurezza senza saperla gestire, se, vista ormai l'abitudine alla
virtualita' delle promesse, tutti lanciano ricette antistupro disordinate,
inutili e inapplicabili, le donne continueranno a essere violentate: dagli
stranieri, dai rumeni, dagli italiani, dai vicini di casa, dai mariti.
Del resto, in passato - dice sempre la Danna - "la distinzione tra sesso
consenziente e stupro non aveva alcun valore per molti popoli, tra cui i
Romani, dai quali abbiamo preso la parola stuprum che allora significava
ogni atto sessuale fuori del matrimonio". E' drammatico pensare che forse ha
ragione il premier, volendo seguire la sua capacita' di scherzare
amabilmente anche sulle tragedie. Le donne non si libereranno mai dal
pericolo dello stupro: se brutte e vecchie perche' non avranno diritto al
soldato di scorta, se belle perche' anche il soldato e' un uomo, in ogni
caso perche' anche se tutti gli uomini si mettessero in divisa, sarebbero
sempre meno delle donne.
Forse bisognerebbe educare gli uomini sin da piccini al rispetto delle
donne, ma questa idea, cosi' poco politica, cosi' domestica, non viene in
mente a nessuno.

2. MEMORIA. GUIDO CALDIRON INTERVISTA TULLIA ZEVI (2008)
[Dal quotidiano "Liberazione" del 26 gennaio 2008 col titolo "Tullia Zevi:
Quel giorno del 1938 in cui scoprimmo di essere diversi" e il sommario "Alla
vigilia della Giornata della memoria del 27 gennaio e nell'anniversario
delle Leggi razziali varate dal fascismo. A colloquio con una delle grandi
figure dell'ebraismo italiano, prima donna nel ruolo di presidente dell'Ucei
per quindici anni"]

"Quel giorno abbiamo scoperto la diversita'. Cosa volesse dire essere
considerati e apparire come 'diversi'. E direi che abbiamo misurato sulle
nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci e' entrata nella
pelle". Tullia Zevi ricorda cosi' l'estate del 1938 e il momento in cui
apprese che il regime fascista aveva promulgato le leggi razziali. Per lei,
poco piu' che maggiorenne, la vacanza che stava trascorrendo in Svizzera con
la famiglia si tramuto' cosi' nell'inizio di un lungo esodo forzato che
l'avrebbe portata, fino alla fine della guerra, prima a Parigi e quindi
negli Stati Uniti.
E' stata la prima donna a diventare presidente dell'Unione delle Comunita'
Ebraiche Italiane, che ha guidato per oltre quindici anni. Ha conosciuto e
frequentato molti antifascisti, partecipato alla vita del Partito d'Azione
ed e' stata legata da una profonda amicizia con Amelia Rosselli.
Giornalista, ha seguito per la stampa americana il processo di Norimberga ai
gerarchi nazisti e piu' tardi quello contro Adolf Eichmann che si e' svolto
a Gerusalemme, ed e' stata per molti anni corrispondente del quotidiano
israeliano "Ma'ariv". Tullia Zevi non ha mai smesso di animare la vita
culturale e politica italiana continuando a rappresentare un punto di
riferimento per l'ebraismo e per la cultura laica e progressista.
La sua storia l'ha affidata recentemente a Ti racconto la mia storia
(Mondadori), un libro intervista realizzato da sua nipote Nathania Zevi che
attraversa oltre settant'anni di storia a partire dalle Leggi razziali
dell'estate del 1938. Alla vigilia della Giornata della Memoria che ricorda
il 27 gennaio la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz avvenuta
nel 1945 le abbiamo chiesto di riflettere per "Liberazione" sul significato
di questa data e sul valore della memoria storica per combattere il razzismo
che ha attraversato l'Europa e l'Italia e che torna oggi nel dibattito
pubblico e nella nostra societa'.
*
- Guido Caldiron: Signora Zevi, ricordando l'anniversario della liberazione
di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945, il Presidente Napolitano ha
spiegato come la strada per i campi nazisti si e' aperta con le leggi
razziali del 1938. Come ricorda quel momento?
- Tullia Zevi: Non potro' mai dimenticare l'estate del 1938. Ero in vacanza
in Svizzera con i miei genitori e i miei tre fratelli. Seduto davanti a me,
mio padre leggeva i giornali italiani a voce alta, al tempo stesso sconvolto
e incredulo. Quasi non credeva a cio' che stava leggendo: "Ma che cos'e'
questa storia, vogliono farci fare la fine dei topi?". La sensazione di
paura e di pericolo comincio' a insinuarsi in me: dovevo temere che mi
potesse accadere qualcosa solo perche' ero ebrea. Ero "diversa" e per questo
ero in pericolo. Non c'era soltanto la sensazione di essere emarginati, ma
quella ancora piu' terribile di non essere proprio considerati degli esseri
umani.
*
- Guido Caldiron: All'epoca, pur costretta all'esilio, come percepi' la
reazione della societa' italiana alle leggi razziali?
- Tullia Zevi: All'epoca avevo l'impressione che nel resto della societa'
non ci fosse percezione di quanto stava accadendo, come se chi non era
direttamente coinvolto non si rendesse conto dell'impatto concreto di quelle
decisioni, di quelle norme, sulle vite di tante persone. Credo di poter dire
che il concetto di "razza" non era radicato nella cultura italiana e questo
salto improvviso lascio' molti quasi increduli. Certo il fascismo esisteva
gia' da molti anni e le guerre in Africa avevano gia' mostrato tutta la
brutalita' del colonialismo italiano, ma con le leggi razziali si apri' una
nuova profonda ferita nella nostra societa'.
*
- Guido Caldiron: Dopo la guerra lei rientro' nel nostro paese solo nel
1946. Quale realta' trovo' nella comunita' ebraica, una delle piu' antiche
d'Europa?
- Tullia Zevi: Era una realta' sconvolta, ferita dal marchio di diversita'
che le leggi razziali avevano cercato di imporle. Gli ebrei erano e si
sentivano italiani. La mia famiglia era italiana da sempre e non avremmo
saputo dove trovare altrove la nostra origine. Eravamo talmente integrati,
ci sentivamo a tutti gli effetti "oriundi", che quando si apri' questa sorta
di enorme spartiacque tra noi e il resto della societa' fu prima di tutto
una terribile e drammatica sorpresa. L'ebraismo era talmente radicato nella
cultura italiana che non si riusciva nemmeno a immaginare cio' che invece
era accaduto. Certo, prima delle leggi razziali e di Auschwitz c'erano state
le misure contro gli ebrei assunte dalla Germania e l'intera politica di
Hitler fin dall'inizio. Quindi nel 1946 trovai le tracce visibili di questa
ferita e del dolore che aveva lasciato dietro di se'.
*
- Guido Caldiron: A tanti anni di distanza da quella tragedia nel nostro
paese c'e' chi arriva a parlare di popoli geneticamente propensi a
delinquere o di altri che non si possono integrare. Che effetto le fanno
queste parole?
- Tullia Zevi: Il razzismo come il nazionalismo sono come virus dai quali ci
si deve difendere. Sempre. L'unica razza che conosco e' la razza umana. E
l'unico orizzonte che conosco e che giudico possibile e' quello del
confronto e dell'integrazione. Percio' quando nella civilissima Europa, la
stessa nella quale si e' realizzata la Shoah, sento che qualcuno torna a
inoculare il veleno della razza non posso che preoccuparmi. Ma torno ancora
una volta a essere vigile. Credo che ciascuno di noi debba farsi custode del
grado di civilta' espresso dalla societa' in cui vive. Dobbiamo vigilare
perche' la societa' in cui viviamo sia davvero multiculturale, perche' la
diversita' non diventi un marchio infamante.
*
- Guido Caldiron: Quella diversita' che veniva agitata, e viene agitata
ancora oggi, dai razzisti come un pericolo puo' diventare percio' anche il
luogo dell'incontro, della convivenza?
- Tullia Zevi: Il concetto di diversita' deve essere sviluppato e accolto.
La consapevolezza delle diversita' deve rimanere ma come elemento di
liberta' dell'individuo. Sono pero' la coesistenza e l'integrazione delle
diversita' che vanno curate e sviluppate. E in un certo senso arriverei a
dire anche amate. Credo che una societa' civile metta al centro della sua
esistenza l'integrazione armonica delle diversita' che si nutrono l'un
l'altra e insieme crescono.
*
- Guido Caldiron: Da questo punto di vista quale puo' essere oggi il
significato della Giornata della memoria?
- Tullia Zevi: Noi ebrei sopravvissuti alla Shoah abbiamo dovuto imparare a
coesistere con questa ferita. Ma la ferita si riapre ad ogni sollecitazione.
Ci sono cose nella vita che non vanno dimenticate e non per un desiderio di
vendetta, ma perche' la conoscenza del passato e' l'unico antidoto per la
tutela dei diritti umani. E nuovi campi di concentramento possono tornare a
esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze non trovano un terreno
fertile sul quale attecchire. Per questo credo si possa affermare che gli
ebrei ricoprono lo scomodo ruolo di cartina di tornasole e coscienza critica
della democrazia.

3. DOCUMENTAZIONE. GIULIANA SGRENA INTERVISTA SUAD AMIRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 gennaio 2009 col titolo "La rabbia di
Ramallah, la pochezza dell'Anp. Parla la scrittrice Suad Amiri"]

Qual e' stata la reazione dei palestinesi della West bank di fronte al
massacro perpetrato da Israele a Gaza? Lo chiediamo alla scrittrice
palestinese Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for
Architectural Conservation a Ramallah, a Roma per presentare il suo ultimo
libro Niente sesso in citta'. "Per due giorni tutti i palestinesi sono
rimasti incollati davanti alla televisione, senza nemmeno andare al lavoro,
paralizzati dalle immagini trasmesse dalla tv al Jazeera", ci risponde.
"C'e' stata fin dall'inizio grande solidarieta' umana, senza politica. La
politica ha cominciato a emergere con l'intervista rilasciata dal leader di
Hamas Khaled Meshal a Damasco che, con un tono molto arrogante, invitava a
manifestare a favore di Hamas. Questo appello ha allarmato le autorita'
palestinesi. Va aggiunto che Abu Mazen si trovava all'estero e, sbagliando,
non e' rientrato subito".
*
- Giuliana Sgrena: La gente era ammutolita dagli eventi, ma quando ha
cominciato a scendere in piazza?
- Suad Amiri: Fin dalla prima sera, il 27 dicembre, vi e' stata una
fiaccolata, tutte le chiese hanno sospeso le loro cerimonie. Il giorno dopo,
alle 13, senza nessuna convocazione, ci siamo ritrovati tutti in piazza, nel
centro di Ramallah: c'erano tutti i partiti con le loro bandiere, ma non
c'era nessun leader politico. C'era molta polizia e quando dal check point
di al Bireh sono arrivati un centinaio di militanti - molte donne - di Hamas
con le loro bandiere, la polizia voleva fermarli, ma gli altri gruppi lo
hanno impedito urlando slogan unitari. C'era chi proponeva di eliminare le
bandiere di partito e portare solo quelle palestinesi. Piccoli scontri sono
scoppiati tra Hamas e Fatah, per i vecchi rancori. C'era molta depressione,
finche' Amal Khreshe, ex militante comunista, e' riuscita a rianimarci
urlando slogan unitari e dietro a lei, in prima fila le donne, un corteo ha
percorso la citta'.
*
- Giuliana Sgrena: Pero' alla televisione abbiamo visto la polizia che
attaccava i manifestanti.
- Suad Amiri: Si', i giovani che volevano dirigersi ai check point dove
c'erano gli israeliani sono stati bloccati, picchiati e anche arrestati.
*
- Giuliana Sgrena: Perche' non c'era nessun leader politico?
- Suad Amiri: Perche' in Palestina non esiste nessuna leadership, Fatah si
e' disintegrata, e questo e' il risultato prima degli attacchi e dei
bombardamenti di Israele contro Arafat nel 2002-2003 e poi della "guerra
civile" scoppiata a Gaza. La gente e' confusa, l'impressione era che Abu
Mazen non volesse opporsi, solo dopo cinque giorni ha chiamato tutti a
manifestare imponendo la partecipazione dei dipendenti pubblici. La
brutalita' di Israele era contro il popolo palestinese e la solidariet‡ era
con il nostro popolo, non con Hamas.
*
- Giuliana Sgrena: Si puo' dire che il massacro compiuto da Israele, al di
la' delle dichiarazioni di intenti, alla fine abbia rafforzato Hamas?
- Suad Amiri: Hamas adesso ha una grande responsabilita', quella della
ricostruzione, che sicuramente non potra' fare senza l'aiuto internazionale
e per ottenerlo dovra' fare concessioni. Quale percorso si puo' immaginare?
Ci sono due strade possibili: o un governo unitario con Abu Mazen, oppure
Hamas ripercorre la strada fatta dall'Olp negli anni '70 per arrivare al
riconoscimento di Israele.
*
- Giuliana Sgrena: Il problema degli aiuti pero' e' urgente, c'e' chi
propone una forza di controllo alla frontiera egiziana...
- Suad Amiri: Israele e' riuscito a spostare l'attenzione dal blocco del
valico di Erez, che doveva essere tolto dopo l'accordo per la tregua con
Hamas, a quello dei tunnel che invece aveva tollerato. L'Europa con il
boicottaggio imposto al popolo palestinese ha assunto un atteggiamento
stupido e ora si propone di controllare la frontiera di Rafah invece di
controllare il valico di Erez da dove provengono tutti i prodotti consumati
dai palestinesi. Cosi' tutta la pressione si trasferisce sull'Egitto come se
il responsabile non fosse Israele.
*
- Giuliana Sgrena: Qual e' il futuro di Abu Mazen?
- Suad Amiri: Non potra' restare al potere senza un processo di pace che
peraltro Hamas ha eluso. Forse l'elezione di Obama potra' aiutarci, il modo
di pensare nel mondo puo' cambiare a partire dalla maggiore potenza.
Altrimenti saranno gli islamisti fondamentalisti a guadagnare terreno
perche' sono gli unici che resistono all'occupazione e i giovani conoscono
solo quel modo di resistere. Noi laici abbiamo perso gli strumenti per
sostenere una giusta causa, non abbiamo articolato un modo di resistere che
non sia violento, la resistenza pacifica e' considerata da Israele violenza
e repressa allo stesso modo, il prezzo da pagare e' troppo alto.
*
- Giuliana Sgrena: Ma Israele vuole il processo di pace?
- Suad Amiri: No, sono convinta che Israele voglia tutta la nostra terra, ma
siccome non puo' buttarci a mare deve fare di tutto per farci sentire degli
sconfitti - questo e' l'obiettivo dichiarato da diversi esponenti politici e
militari israeliani - umiliandoci e istituzionalizzando il sistema
dell'apartheid.

4. MONDO. VIVIANA MAZZA: AYDAH AL JAHANI, UNA POETESSA IN TV
[Dal "Corriere della sera" del 30 gennaio 2009 col titolo "Peccatrice, ti
uccideremo. Minacce alla poetessa in tv" e il sommario "Ma la saudita Aydah
si avvia alla finale dello show"]

La sagoma nera sta seduta su una grande poltrona rossa e dorata. Invisibile
il volto - pure gli occhi. Si vedono solo le mani bianche, che tagliano
l'aria con gesti ampi, e il microfono che spunta all'altezza della bocca.
Dalla sagoma nera proviene una voce decisa, che recita i versi di una
poesia: "Mi hanno imposto il burqa, ma io sono libera come un uccello. Anche
la spada nascosta nel fodero non e' meno tagliente".
Aydah Al Jahani, quarantenne saudita, e' l'unica partecipante donna rimasta
in gara nel concorso della tv di Abu Dhabi "Il poeta milionario". Il
popolarissimo show, nato nel 2006, giunto alla terza edizione, vede 8
professionisti e dilettanti fronteggiarsi ogni giovedi' sera recitando nel
dialetto del Golfo composizioni da loro scritte di poesia nabati, un genere
di tradizione beduina. Erano 48 all'inizio (altre due donne, entrambe
giordane, sono state eliminate). Aydah ha superato la prima selezione a
dicembre (partecipando con una poesia sui diritti delle donne), e ieri ha
passato la seconda: e' stato il pubblico da casa (oltre 7 milioni di
spettatori) a sceglierla, con il 59% dei voti inviati via sms nel corso di
una settimana. Ora e' una dei 20 poeti rimasti nella fase finale (ancora 6
settimane) a contendersi i 5 milioni di dirham (1 milione di euro) in palio
(e altri ricchi premi).
La tribu' Al Jahani, cui Aydah appartiene, e il suo stesso padre pero' non
sono d'accordo. Il sito saudita Elaph scrive che l'avrebbero minacciata di
morte, perche' poco importa che Aydah nasconda il proprio corpo: la voce
femminile e' in se' erotica e sufficiente a suscitare pensieri peccaminosi.
Secondo un aneddoto sulla vita del Profeta, Maometto l'avrebbe definita awra
e cioe' un'onta, raccomandando a un fedele dal quale era andato a pranzo di
far abbassare la voce alla moglie che lo chiamava gridando dal reparto delle
donne.
Hana Al Hirsi, Pr della compagnia Pyramedia che produce lo show, conferma
che Aydah "ha ricevuto pressioni dalla sua tribu'", ma non minacce di morte.
"Proviene dalla regione del Golfo. La tribu' e' come una grande famiglia e
molti sono contrari che partecipi al programma. Ma il fatto stesso che lo
abbia fatto e' una conquista", dice Al Hirsi al "Corriere". "E d'altra parte
ci sono anche molti che l'appoggiano e che si sono sintonizzati ieri sera
solo per vedere lei".
Aydah ha cominciato a comporre poesie da bambina, unendo dialetto e lingua
colta. A 5 anni pubblico' la prima sul mensile culturale del Kuwait "Al
Yaqdha" (il risveglio). La poetessa si definisce "wahida saudiya" (l'unica
saudita) nella sua prima raccolta del 1999. Da allora ha conquistato premi
letterari e alcuni cantanti del Golfo hanno messo in musica le sue poesie.
Diverso pero' e' apparire di persona in tv davanti a milioni di persone, con
quella "voce incantevole" e quei "modi raffinati", scrive Elaph.
Ma Aydah ha due alleati: il pubblico e il marito. I giurati in studio
(cinque uomini) selezionano ogni giovedi' un poeta che passa al round
successivo: in nessuno dei due round hanno scelto lei. Ma anche gli
spettatori possono dire la loro: sono stati loro a promuoverla.
Ieri tre quarti della platea in studio era composta da donne, rigorosamente
sedute in una sezione separata rispetto agli uomini. Aydah ha accolto la
notizia di essere passata al terzo round (l'ultimo prima della finale del 26
marzo) dicendosi orgogliosa a nome di tutte le donne. La poetessa non scrive
pero' solo sui diritti femminili, ma anche di questioni che riguardano
tutti. "Molte delle composizioni in gara sono su Gaza, sul nazionalismo,
sulla guerra, sulle difficolta' economiche", spiega Al Hirsi. L'ultima
poesia recitata da Aydah, "Dedicato al piccolo Basem", e' la storia vera di
un bambino povero morto di fame e di freddo nel nord dell'Arabia Saudita.
E mentre lei siede sulla scena, nascosta nel suo involucro nero, il marito
seduto tra il pubblico applaude. Prima di poetare, come tutti i partecipanti
Aydah ringrazia sempre Dio. Poi, con quella sua voce matura e forte, rivolge
al compagno parole tenerissime: "Mi inchino, con rispetto, con gratitudine e
con amore, al piu' coraggioso degli uomini, mio marito".

5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "PAROLE DI DONNE IRACHENE" DI INAAM KACHACHI
(2003)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Inaam Kachachi, Parole di donne irachene. Il dramma di un Paese scritto al
femminile, Baldini & Castoldi, Milano 2003 (ed. orig.: Paroles d'Irakiennes,
2003)]

Indice del volume
Premessa; Prefazione; Introduzione; Parole di donne irachene. Quando i
giorni diventano crepuscolo, di Hayat Sharara; Desideri... di Rim Qais
Kobba; Il ritorno del prigioniero, di Buthaina Al-Nassiri; Lee Anderson, di
Lamea Abbas Amara; Voci da paradisi temporanei, di Lotfiya Al-Dilaimi; Le
gallerie della memoria, di Haifaa Zangana; Stoffe, di Gulala Nouri; La
ragazzina, di Alia Mamdouh; Memorie di un'onda fuori dal mare, di Dunya
Mikhall; Vietato entrare - Vietato uscire, di Salam Khayyat; Gli amanti, di
May Mudhaffar; Un uomo dietro la porta, di Maysaloun Hadi; Cronache di
Baghdad, di Noha Al-Rahdi; Postfazione.
*
Da pagina 9
Premessa
Dice la leggenda che Sherazade, nella Baghdad delle Mille e Una Notte, abbia
ingannato la morte con un racconto. La sera, incominciava una storia e
smetteva all'aurora, fino a quando le era permesso parlare.
Le sue nipoti, oggi, usano praticamente la stessa astuzia: ingannano il
destino con racconti che dicono la verita' piu' di tutti i bollettini del
mondo.
Ho voluto trasmettervi i loro racconti inganna-destino. Meritano di essere
letti, come se fossero gli inni che da sempre i dannati della Terra cantano
per la liberta'.
Inaam Kachachi
Parigi, gennaio 2003
*
Da pagina 15
Introduzione
Il nipote che consuma una matita ogni due mesi
Scrivere non e' certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa una vera
impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficolta', materiali ed
etiche, causate dalla guerra - le guerre - e soprattutto dall'embargo.
D'altronde, l'attivita' dell'editore e' quasi una missione impossibile in un
Paese dove manca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E
soprattutto manca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata:
la liberta' di espressione.
Laggiu', dopo aver messo a letto i bambini, le donne scrivono nell'oscurita'
di eterne interruzioni di elettricita'. L'ispirazione raggiunge occhi
affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi una matita di kajal
importata, perche' ha un prezzo esorbitante: come cento biro, tre polli o
ottanta gallette di pane. Insomma, l'intero stipendio di un mese!
Gli iracheni scrivono su fogli di carta scura, scarti di stampa, fogli gia'
usati, vecchi quaderni di scuola. Scrivono una strofa di poesia o il
passaggio di un romanzo su tutto cio' che sia utilizzabile: una vecchia
ricevuta, una fattura non pagata, un sacchetto di carta spiegazzato che una
volta e' servito per portare frutta a casa (per coloro che allora potevano
permetterselo). Scrivono anche sul retro delle ricette mediche...
Una mia vecchia collega giornalista mi ha raccontato che un giorno aveva
dovuto punire il suo nipotino e poi si era ritirata in camera a piangere.
Gli aveva dato una botta sulla mano perche' temperava troppo la matita,
incurante della fatica che a lei costava comprare il prezioso articolo:
anche le matite sono sottoposte all'embargo, poiche' i Signori delle
commissioni Onu sostengono che "la grafite contenuta nelle matite potrebbe
essere usata per scopi bellici" (sic).
La mia amica giornalista dirige ormai una rubrica in un quotidiano del
governo. Per l'equivalente di un pugno di euro al mese. Lei, che ha
terminato l'universita' da una trentina di anni, non ha potuto far
continuare gli studi alla sua unica figlia per mancanza di mezzi:
iscrizione, trasporti, abbigliamento, materiale necessario... tutto questo
e' inaccessibile. La ragazza si e' sposata prima di compiere vent'anni. Ha
messo al mondo un bambino, un monello che consuma un'intera matita ogni due
mesi. Che spreco!
Intrattengo ancora con lei un'assidua corrispondenza. In ogni lettera
aggiungo un foglio bianco per permetterle di rispondermi. Sarebbe troppo
rischioso spedirle un intero quaderno: un plico pesante attirerebbe
l'attenzione e rischierebbe di essere rubato prima della consegna; la mia
lettera non giungerebbe mai a destinazione e sarebbe un vero peccato. Il
mezzo migliore e' ancora quello di affidare il necessario a un viaggiatore
che si reca a Baghdad. E l'accezione di necessario e' consegnata al giudizio
di noi privilegiati, incredibilmente fortunati che abbiamo potuto
trasferirci all'estero. Per loro, laggiu', il necessario puo' andare da un
sacchetto di cotton-fioc o una confezione di aspirina fino all'ultima
raccolta del poeta palestinese Mahmoud Darwish.
La mia amica, per esempio, preferirebbe il libro di Darwish. Si tratta, in
ogni caso, di un rimedio contro l'emicrania. Gli ambienti culturali iracheni
accolgono i libri entrati di nascosto dall'estero con un entusiasmo
paragonabile a quello della terra assetata nei confronti delle poche gocce
di una pioggia avara e sporadica. In Iraq esiste un sistema parallelo, non
ufficiale - che riesce spesso a sfuggire al controllo delle autorita' -
consistente nell'impadronirsi dei libri provenienti dall'estero, "clonarli"
su piccole fotocopiatrici d'occasione arrivate da poco via mare dagli
Emirati Arabi Uniti, e rivendere poi le copie a scrittori, appassionati di
arte e letteratura, universitari o studenti.
Queste copie hanno un prezzo sostenibile per un bilancio medio. E comunque
questo sistema di libreria parallela offre anche un servizio di prestito di
copie a chi non puo' acquistarle. Grazie a quella che comunemente a Baghdad
si chiama "cultura della fotocopia", il popolo iracheno ha potuto conoscere
le opere (di autori stranieri o nazionali) che non erano state approvate
dalle istituzioni pubbliche, le stesse che da trentacinque anni
monopolizzano in Iraq il novanta per cento del mercato editoriale e della
distribuzione.
*
Da pagina 75
Il ritorno del prigioniero, di Buthaina Al-Nassiri
Per cominciare: la casa cui faceva ritorno non era piu' la sua; ne' sua
moglie era piu' la sua; ne' i suoi figli erano piu' i suoi.
L'auto lo deposito' davanti a una casa a un piano, dipinta di bianco e
circondata da un grande giardino. Non aveva mai messo piede prima in questo
quartiere alla periferia della citta'.
Sulla soglia c'era una donna, le vene del collo le pulsavano per il
nervosismo. Il sorriso finto sulle sue labbra nell'accogliere colui che
tornava non riusci' a dissimulare il cipiglio della fronte aggrottata.
Quando l'uomo mise piede in casa, si precipito' verso di lui, poi,
all'improvviso, come trattenuta da una forza invisibile, si fermo' di colpo,
contentandosi di tendergli la mano.
I bambini erano rimasti immobili, seduti sui divani del salone. Il loro
imbarazzo era palese, come se fossero costretti a comportarsi bene e a
mostrarsi educati durante la visita di un ospite sconosciuto che presto se
ne sarebbe andato. Tre li conosceva. Al momento pero' doveva fare uno sforzo
per ricordarne i nomi e sapere chi era chi. Quanto al quarto, il piu'
piccolo, non l'aveva mai visto: non era ancora nato dieci anni prima, quando
era andato via, lasciando sua moglie incinta.
Le presentazioni cominciarono con domande di ordine generale da parte sua e
con risposte evasive da parte loro. Terminarono in un silenzio imbarazzato e
pesante. Senza osare guardarla negli occhi, domando' alla moglie: "Quando
avete comprato la casa?".
La voce della donna cambio', si fece piu' grave: "Non l'abbiamo comprata
bell'e fatta. L'ho fatta costruire pezzo per pezzo. Avevo venduto la casa
vecchia e preso un prestito in banca. Ho sorvegliato di persona i lavori
tutti i giorni. Sono stati momenti difficili, con quattro bambini da tirare
su".
"Hai fatto un lavoro magnifico", disse lui alzando gli occhi verso il
soffitto.
"Ho pagato l'ultima tratta l'anno scorso".
"Non ti avrei mai creduta capace di occuparti di cose concrete. La donna che
conoscevo contava su di me per tutto. Quando pensavo a voi, laggiu',
quest'idea mi tormentava".
"Sono stati momenti difficili. E poi, dieci anni non sono pochi".
"No, in effetti".
"Col tempo, uno cambia...".
"Si', effettivamente".
"Vuoi vedere la casa?" disse lei con entusiasmo.
"Come vuoi".
I mobili della camera da letto non erano cambiati. Era l'unico ricordo della
loro vita passata rimasto intatto - e ne provo' un sentimento di gratitudine
verso di lei. L'armadio era li', con le sue quattro ante, e le sue
decorazioni a fiori e uccelli. Anche la toeletta con lo specchio quadrato
era li', quello specchio in cui non riconobbe i tratti che vi aveva visto
per l'ultima volta dieci anni prima. Adesso vedeva un volto smagrito e
ossuto, una testa canuta, delle spalle spioventi... La sua vera eta' era
stata appesantita da falsi anni supplementari.
Al momento di coricarsi, scopri' lo stesso letto che, un tempo, aveva
ospitato i loro sogni insieme. Quando era prigioniero, aveva spesso sognato
l'attimo in cui vi si sarebbe infilato di nuovo. Ma l'uomo e la donna erano
divenuti estranei. Bado' a non sfiorare il corpo allungato al suo fianco nel
grande letto matrimoniale; aveva notato che lei si teneva discosta,
rannicchiata su se stessa. Fisso' il soffitto illuminato dalla luce della
luna che penetrava dalla finestra. I suoi pensieri presero a viaggiare a
migliaia di chilometri da li', attraversando le frontiere, fino al campo di
detenzione. Vide i compagni che erano rimasti laggiu', li immagino' immersi
in un sonno profondo per compensare la fatica dello star svegli durante il
giorno. Rivide i loro sorrisi furtivi nel fantasticare del ritorno a casa.
Ricordo' il cigolio delle massicce porte di ferro, l'ordine urlato dei
guardiani: "Sveglia". Strappati ai loro sogni, vengono condotti a suon di
bastone in cortile e lui cerca di farsi piccolo in mezzo alla lunga fila di
prigionieri. La voce monotona di un ufficiale senza volto martella: "Il
vostro Paese vi ha abbandonato. Resterete qui, con noi, fino a marcire". I
raggi del sole si fanno sempre piu' cocenti. Le braccia e le gambe sono come
paralizzate, la bocca riarsa. Non ne puo' piu': cade a terra. I guardiani si
accaniscono su di lui tirandolo per le braccia, cosi' forte che per un
attimo crede che si strapperanno. La porta di una piccola cella sepolcrale
si apre. Lo gettano dentro. Lo scatto della porta che si richiude gli
rimbomba a lungo nel cranio. Si accorge che l'altezza della cella lo
costringe a chinarsi per sedersi.
*
Da pagina 99
I primi incontri, di Haifaa Zangana
Intorno a un camino orfano, eccoci riunite. Cerchi e cerchi di donne
costrette alla coabitazione. Cerchi di corpi sformati e di pelli flaccide,
sfibrate dalla paura del futuro, putrefatte dall'incertezza. Cerchi di un
silenzio improbabile, immutabile, beato. Lineamenti svuotati, occhi che
fissano il medesimo punto. Talvolta le vedevo svegliarsi in piena notte,
come per gettare un ultimo sguardo, ai loro giorni e alla Terra. Un addio ai
figli e alla casa, un addio perfino a quella penosa afflizione che strappava
la membrana del cuore e vi si sostituiva.
"Buongiorno".
"Una visita per te".
Oum Wahid gridava con la sua voce penetrante. Non camminava, correva,
gesticolando con le braccia e le mani per aggiustarsi il velo sulla testa e
impedire che cadesse, benche' fosse fissato con un piccolo spillo d'oro...

6. LIBRI. FRANCESCO M. CATALUCCIO: OPERE DI WISLAWA SZYMBORSKA E JULIA
HARTWIG
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso su "Il sole 24 ore"del 18 gennaio
2009 col titolo "Le signore della poesia"]

Czeslaw Milosz e Zbigniew Herbert, i due maggiori poeti del dopoguerra
polacchi (paese che, come ebbe modo di ricordare il russo Iosif Brodskij e'
sempre stato straordinariamente ricco di grandi poeti) sono ormai scomparsi,
lasciandoci molte poesie stupende e il dispiacere di non poter piu' sentire
la loro voce. Restano per fortuna ancora attive e, in quanto innamorate
dell'Italia, spesso presenti nel nostro paese, le due maggiori poetesse
polacche: Wislawa Szymborska (1923), che abita a Cracovia (e che nelle
prossime settimane tornera' in Italia), e Julia Hartwig (1921), che vive a
Varsavia. A differenza di molti poeti loro connazionali, non hanno
conosciuto l'esilio, sopportando con caparbieta' e ironia le mille
difficolta' della vita e della creazione artistica nel socialismo reale
(che, in Polonia, non voleva dire, salvo i primi anni del dopoguerra,
sottostare ai dettami della propaganda del regime, ma fare i conti
quotidiani con la censura).
La Hartwig ha comunque avuto modo di trascorrere due lunghi soggiorni
all'estero: dal 1947 al 1950 in Francia, dal 1970 al 1974 negli Stati Uniti,
al seguito del marito, anch'egli poeta, Artur Miedzyrzecki. Frutto di questi
due soggiorni sono state le splendide traduzioni dei maggiori poeti francesi
e americani, che molto l'hanno influenzata.
La Szymborska invece, almeno fino al Premio Nobel (1996), si e' mossa
pochissimo, preferendo la vita ritirata e solitaria, in ascolto e in cura
della propria malinconia: "Di solito mi descrivono come una persona allegra
(...) perche' quando ho dei crolli, delle preoccupazioni, non frequento la
gente per non mostrare un volto cupo. E sembra che abbia vissuto come una
farfalla, come se la vita non avesse fatto altro che accarezzarmi sul capo".
La Szymborka e' stata famosa nella sua citta' per essere l'organizzatrice di
miracolose lotterie a casa sua. Pomposi ricicli di oggettini, come i suoi
buffi collage, nei quali nessuno, alla fine, se ne andava a mani vuote. Per
ognuno c'era una dedica, una piccola verita' ad personam.
Cosi', quando ci si trova tra le mani un prezioso volume di oltre mille
pagine, come quello che racchiude le Opere di Wislawa Szymborka, curato da
Pietro Marchesani, nelle lettura delle poesie la cosa migliore e' lasciarsi
andare al caso, lasciando per un momento da parte la meta' dedicata alle
brevi, e fulminanti, prose. Se si e' fortunati, ma lo si e' praticamente
sempre, perche' tutte le poesie sono molto belle, puo' capitare di leggere,
in questo tragico inizio d'anno: "Dopo ogni guerra /c'e' chi deve ripulire.
/ In fondo un po' d'ordine / da solo non si fa. // C'e' chi deve spingere le
macerie / ai bordi delle strade / per far passare / i carri pieni di
cadaveri // (...) Non e' fotogenico, / e ci vogliono anni. / Tutte le
telecamere sono gia' partite / per un'altra guerra". E poi il finale
amarissimo sull'ineluttabile necessita' di metterci una pietra sopra: "Chi
sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli / che ne sanno poco.
/ E meno di poco. / E infine assolutamente nulla. // Sull'erba che ha
ricoperto / le cause e gli effetti, / c'e' chi deve starsene disteso / con
una spiga tra i denti, / perso a fissare le nuvole". Questa e' La fine e
l'inizio (1993), che Brodskij tradusse in inglese nel dicembre dello stesso
anno per il "Times Literary Supplement", definendola "una delle cento
migliori poesie del secolo".
La Szymborska, sembra non giudicare mai. Descrive con freddezza, e tagliente
ironia, mettendo a fuoco particolari della realta': ingrandisce cose che
appaiono piccole, ma sono determinanti, smaschera le nostre meschinerie che
vorrebbero farci apparire grandi e sicuri. Ogni suo verso e' una
"microfisica" della vita quotidiana e del potere. Il lettore si ritrova tra
le mani, alla fine della lettura, una realta' scarnificata, priva di orpelli
e sovrastrutture, illuminata da una luce finalmente chiara e distinta. Il
risultato di questa poesia pura, che si potrebbe definire "cartesiana", si
trova riassunta nella breve poesia Tutto (2002): "(...) una parola sfrontata
e gonfia di boria. / Andrebbe scritta tra virgolette. / Finge di non
tralasciare nulla, / di concentrare, includere, contenere e avere. / E
invece e' soltanto / un brandello di bufera".
Il fatto che Szymborska tratti in apparenza di cose quotidiane non deve far
pensare che abbia un "angusto raggio d'azione", suggeriva giustamente Milosz
nella sua celebre Storia della letteratura polacca (McMillan, New York 1969;
traduzione italiana Cseo, Bologna 1983) che pero' notava: "Essa a volte
propende verso la preziosita'. Probabilmente da' il suo meglio dove la sua
sensibilita' ha piu' importanza del suo marchio esistenziale di
razionalismo". Ma la "semplicita'" della Szymborska e' piu' apparente che
reale. La sua e' una poesia di grande forza filosofica e, dietro espressioni
apparentemente semplici o quotidiane, piccoli e sottili ironie, c'e'
l'ostinato orgoglio del pensiero e il senso di una grande responsabilita'
della parola poetica ("ogni parola ha un peso", ricordo' a conclusione del
suo discorso per il Nobel). Una poesia che, con l'ironia, non ha trascurato
l'impegno e la critica. Si veda, ad esempio, Un parere in merito alla
pornografia (1983), da lei letta durante una riunione semiclandestina di
scrittori ridotti al silenzio, un anno dopo il colpo di stato: "Non c'e'
dissolutezza peggiore del pensare. / Questa dissolutezza si moltiplica come
gramigna / su un'aiuola per le margheritine. // Nulla e' sacro per quelli
che pensano. / Chiamare audacemente le cose per nome, /analisi spinte,
sintesi impudiche, / caccia selvaggia e sregolata al fatto nudo, /
palpeggiamento lascivo di temi scabrosi, / fregola di opinioni - ecco quel
che gli piace".
Le sue prose - recensioni, posta dei lettori, feuilleton - sono assai
inferiori e assai lontane dalle poesie, ma sempre una festa
dell'intelligenza e dell'ironia.
Assai piu' simili e organici alle proprie poesie sono invece i Lampi (in
polacco: Blyski) di Julia Hartwig. Brevi epifanie che illuminano
istantaneamente passaggi dell'anima, ricordi, apparizioni di una memoria
condivisa e remota. Istanti di grazia e lucidita' - "Nel purgatorio
dell'inesistenza. Sul precipizio della speranza" (Questo tramonto) - in cui
i pensieri, le riflessioni e i ricordi si condensano in una forma del tutto
nuova e originale, che conserva l'acutezza dell'aforisma senza l'esasperata
ricerca dell'effetto, che coniuga l'eleganza del poema in prosa alla
liberta' da rigidi schematismi formali.
Molte poesie della Hartwig sono scritte come brevi prose (si vedano Anni,
Ammonizione, Vi faro' questo miracolo, Non ho potere). Come la Szymborska,
anche Julia Hartwig diffida della pretesa di racchiudere il mondo in un
sistema compiuto e stabile, preferisce soffermarsi sulla precarieta' e le
evanescenti emozioni "i prati verdi dell'apparenza" (La tua natura), e
rivendicare alla sua poesia, e alla sua vita, il piacere dell'incompiuto:
"Le cose piu' belle sono quelle non ancora finite / Il cielo pieno di stelle
non ancora illustrato dagli astronomi / uno schizzo di Leonardo e una
canzone interrotta dall'emozione / La matita il pennello sospesi in aria" (A
tentoni). La Szymborska ha, per sua stessa ammissione, costruito il suo
personaggio su una tonalita' ironicamente un po' svampita (proprio per
balzar fuori all'improvviso con la sua sottilissima acutezza). La Hartwig
invece mostra immediatamente la sua dolce saggezza e ci raccomanda che:
"L'unica salvezza e' mantenere il ritmo / la visione dell'armonia / che ci
prende tra le sue braccia come bambini / madre innocente di consolazione"
(In corteo).
*
Wislawa Szymborska, Opere, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano, pp.
1186, euro 70.
Julia Hartwig, Sotto quest'isola, a cura di Silvano De Fanti, Donzelli,
Roma, pp. 168, euro 13.
Julia Hartwig, Lampi. Blyski, a cura di Francesco Groggia, Libri
Scheiwiller, Milano, pp. 172, euro 16.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 233 del 5 febbraio 2009

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