Minime. 681



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 681 del 26 dicembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Giuliano Battiston intervista Ramin Jahanbegloo
2. Cecilia Pennacini intervista Jean-Loup Amselle
3. Guido Liguori ricorda John Cammett
4. Valentino Parlato ricorda Michelangelo Notarianni
5. Guido Davico Bonino presenta le "Provinciali" di Blaise Pascal
6. Giorgio De Rienzo presenta "Sulla lettura e sui libri" di Arthur
Schopenhauer
7. Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta"
8. L'agenda "Giorni nonviolenti 2009"
9. L'Agenda dell'antimafia 2009
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. GIULIANO BATTISTON INTERVISTA RAMIN JAHANBEGLOO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 dicembre 2008 col titolo "Confronto
tra diverse intolleranze. Dialogo con Ramin Jahanbegloo" e il sommario "Non
credo che ci sia una contraddizione tra la difesa della diversita' e il
tentativo di trovare un terreno comune e universale dall'altra, dice il
filosofo iraniano. Non si tratta, per esempio, di relativizzare i diritti
umani ma di discutere anche le idee generali che li sostengono"]

Immaginiamo di essere delle rane, ferme sul fondo di un pozzo, che non sanno
dell'esistenza dell'oceano. Potremmo anche credere che quel pozzo sia un
oceano e che quello sia il nostro orizzonte ultimo, ma la differenza tra il
pozzo e l'oceano rimarrebbe comunque immensa. E' con questo esempio che il
filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo giustifica la sua insistenza nel
promuovere una cultura del dialogo, che superi gli arroccamenti identitari e
sappia conciliare il radicamento culturale con un sentimento di appartenenza
collettiva all'umanita' e di responsabilita' verso gli altri. Sa bene,
Jahanbegloo, che le dichiarazioni di universalismo suonano sospette, perche'
sono state spesso usate come pretesti per mascherare politiche
annessioniste, finendo con il radicalizzare il particolarismo identitario.
Ma continua a credere che l'unico modo per opporsi all'attuale "scontro
delle intolleranze" passi per il riconoscimento dell'"unicita'" dell'uomo. E
che questo passi a sua volta per il "riconoscimento reciproco delle
differenze". Il sentiero non e' facile, ammette Jahanbegloo, ma e' l'unico
che vale la pena seguire se vogliamo uscire dal pozzo. Abbiamo incontrato il
filosofo iraniano a Roma, dove, invitato dalla rivista "Reset", ha
presentato il suo Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio, euro 10).
*
- Giuliano Battiston: Lei ha sostenuto che "la filosofia non e' soltanto
avere un forte senso della realta' (nei termini in cui Hegel scriveva che
'la filosofia e' il proprio tempo appreso con il pensiero'), ma anche sapere
come resistere ad essa". Significa che possiamo usare la filosofia anche per
contrastare le politiche repressive e il dogmatismo religioso?
- Ramin Jahanbegloo: Almeno a partire da Socrate la filosofia e' sempre
stata una forma di resistenza a tutti i generi di dogmatismo e ha avuto il
compito di resistere ai pregiudizi, al fanatismo e all'intolleranza. Questo
non significa che i filosofi non possano essere intolleranti, e alcuni di
loro lo sono senz'altro; ma la filosofia come esercizio critico del
pensiero, come strumento per non attestarsi sulle verita' stabilite e per
ripensare sempre di nuovo le verita' e' per sua natura antidogmatica. Ed e'
innanzitutto un'avventura dialogica. Una delle eredita' piu' rilevanti della
tradizione filosofica e' quella di aver contribuito a stabilire il dialogo,
che laddove si e' verificato ha prodotto risultati eccezionali, come nel
caso di Cordoba, da cui e' emerso il Rinascimento europeo. Anziche' temere i
musulmani, come si fa in Europa, o demonizzare i cristiani e l'Occidente,
come accade in Medio Oriente, oggi dovremmo ristabilire questo dialogo e
dare vita a una nuova Cordoba. Ci sono ottime ragioni per farlo, ragioni che
eccedono la semplice opportunita' politica.
*
- Giuliano Battiston: Ma affinche' si possa ristabilire questo dialogo ci
deve essere innanzitutto cio' che lei definisce "tolleranza dialogica". Ci
vuole spiegare meglio cosa intende con questa espressione?
- Ramin Jahanbegloo: Per molti la tolleranza equivale a confinare le
comunita' "altre" in ghetti mentali o fisici, che impediscano il contatto.
Io penso invece a una forma di tolleranza che esclude l'indifferenza o la
passivita', e che si da' solo quando si accetta in modo reciproco che ci sia
una forma di interazione, un confronto; il dialogo puo' avere inizio solo
laddove si riconosce che l'"altro" e' pari a noi e ha le capacita' per
risponderci e insegnarci qualcosa. Per questo credo che per ottenere un
effettivo pluralismo culturale non si debba insistere soltanto sulla
molteplicita' dei valori e delle culture, ma anche sulla necessita' di
istituire un confronto dialogico ed empatico tra questi valori e culture, in
modo da riconoscere un terreno comune, dei valori condivisi. Gli esseri
umani cominciano a rispettarsi reciprocamente quando capiscono che ogni
cultura e' portatrice di un'eredita' comune. La mutualita' del
riconoscimento, la solidarieta' e la reciprocita' ci permettono non solo di
dare vita a una globalizzazione produttiva, che deve essere basata
sull'apertura e sulla tolleranza dialogica, ma anche di evitare, attraverso
un esercizio critico riflessivo, l'auto-chiusura nei ghetti mentali, i piu'
pericolosi.
*
- Giuliano Battiston: In Leggere Gandhi a Teheran lei scrive che al cuore
dell'esperienza di Cordoba c'e' "l'aspirazione all'universale e il rispetto
della diversita'". Ma come conciliare le due dimensioni evitando
l'universalismo "egemonico" e la tendenza ad assimilare l'altro, il
relativismo morale e l'essenzialismo culturale che reifica le identita'? E'
sufficiente affidarsi a quello che nel dibattito con Richard Rorty ha
definito "universalismo soft"?
- Ramin Jahanbegloo: Non credo che ci sia necessariamente una contraddizione
tra la difesa della diversita' da una parte e il tentativo di trovare un
terreno comune e universale dall'altra. L'universalismo "soft" infatti e'
una forma di universalismo che, tenendo conto della rilevanza delle
particolarita' e delle diversita', non si impone attraverso messaggi
unidirezionali e monodimensionali. Proprio in quanto "soft" e non "hard",
questo universalismo puo' essere la base sulla quale costruire un confronto,
un terreno comune tra culture diverse che non ceda al relativismo. Prendiamo
il caso dei diritti umani: non si tratta di relativizzarli, ma di rendere
suscettibili di discussione anche le idee universali che li sostengono. Come
se il minimum morale, necessario per ogni conversazione civile e per evitare
la barbarie, potesse realizzarsi pienamente soltanto su una strada che non
sia a senso unico, laddove sia consentito confrontare le diverse
interpretazioni di questo minimum. La diversita' delle culture e il dialogo
interculturale contribuiscono a realizzare l'universalismo, non lo
ostacolano.
*
- Giuliano Battiston: Lei distingue tra il modello indiano di secolarismo -
un modello simmetrico che promuove il dialogo e comportamenti non settari
verso le religioni - e quello francese della laicite', monolitico ed
esclusivista piuttosto che pluralista e inclusivo. Ci spiega meglio qual e'
la differenza?
- Ramin Jahanbegloo: I casi anche recenti della storia francese dimostrano
l'attaccamento a un vecchio modo di giudicare le questioni del pluralismo e
della cittadinanza. Molto diverso da quello adottato in India, dove, sulla
base di una secolare tradizione di convivenza tra lingue, culture e
religioni diverse, la diversita' viene accettata con molta piu' facilita' e
naturalezza, e lo status quo politico e culturale, soprattutto dopo
l'indipendenza, si fonda sull'equivalenza delle religioni e delle fedi e
sull'uguale rispetto verso di esse. La costituzione indiana infatti non
privilegia, in nome della razionalita', della Rivoluzione francese o della
laicite', un unico modello al quale subordinare gli altri. Ed e' per questo
che l'India, pur con molte zone d'ombra, rappresenta un esempio di
coesistenza pacifica, come dimostra oggi la coabitazione tra un presidente
musulmano e un primo ministro sikh, e in passato il fatto che tra gli
indiani che combattevano al fianco di Gandhi per l'indipendenza e la
modernizzazione del paese ci fossero anche molti musulmani, come Khan Abul
Gamal Ghaffar Khan: si trattava di creare una nuova diversita' indiana, non
una nuova India destinata solo a indu', cristiani o sikh.
*
- Giuliano Battiston: Recentemente lei si e' dedicato all'esplorazione dei
modi in cui e' possibile "diventare globali" e costituire, attraverso il
"mutuo riconoscimento delle differenze", una cittadinanza che oltrepassi
quella legata allo stato-nazione. In che modo questo "mutuo riconoscimento
delle differenze" si lega al concetto gandhiano di nonviolenza?
- Ramin Jahanbegloo: Negli ultimi tempi ho introdotto anche il concetto di
solidarieta' delle differenze, perche' credo che mutualita' e solidarieta'
possano funzionare soltanto se pensate insieme. Entrambi questi concetti
sono intimamente legati alla nozione di nonviolenza cosi' com'e' stata
pensata da Gandhi o Martin Luther King. Nel processo di riconoscimento
dell'altro in quanto tale ci si immerge infatti in un confronto dialogico
che richiede il superamento di qualunque forma di violenza (sociale,
politica, culturale), o in altri termini l'oltrepassamento della dialettica
hegeliana del servo/padrone, che implica comunque una violenza formale.
Nella dialettica a cui io mi riferisco e' invece il processo stesso a creare
nuove forme di nonviolenza, perche' l'esercizio del dialogo annulla o
depotenzia la violenza e sollecita il confronto reciproco e il
riconoscimento di una responsabilita' comune, indicando la necessita' di
completarci a vicenda, culturalmente, ma direi anche spiritualmente.
*
- Giuliano Battiston: In altri termini sembra di capire che dovremmo
adottare il punto di vista di Gandhi, che desiderava una casa con porte e
finestre aperte, metafora della necessita' di aprirsi all'"altro" senza
timori. Cosa puo' insegnarci, oggi, il modello etico-politico di Gandhi, a
cui ha dedicato diversi libri?
- Ramin Jahanbegloo: Gandhi avrebbe molto da insegnare anche all'Europa
odierna, perche' i desideri che lei ricordava la riguardano. Anche l'Europa,
infatti, dovrebbe aprire le proprie porte all'alterita' e all'immigrazione,
senza temere di perdere la propria identita', perche' e' solo attraverso la
coesistenza interculturale che potra' crearsi una nuova idea di Europa, e
insieme ad essa una nuova cultura. Come quella di cui e' espressione Barack
Obama, un presidente nero e insieme bianco, votato da ebrei e
ispanoamericani, che hanno riconosciuto in lui proprio il simbolo di questa
coesistenza. Mi auguro che molto presto anche in Europa potremo avere come
presidente o primo ministro una persona di provenienza araba o indiana, e
spero che, finalmente, questa non sara' considerata un'aberrazione, bensi'
una buona opportunita'.
*
- Giuliano Battiston: Un'ultima domanda di carattere piu' personale: con
l'accusa di tramare contro il governo iraniano, nel 2006 lei e' stato
incarcerato per centoventicinque giorni nella sezione 209 - destinata ai
prigionieri politici - della prigione di Evin a Teheran. Cosa risponde a
quanti l'hanno definita "un cavaliere della Nato culturale"?
- Ramin Jahanbegloo: Innanzitutto si suppone che la Nato sia
un'organizzazione militare e politica, non culturale. In secondo luogo e'
lontanissima da me l'idea di poter essere un cavaliere, se non nel senso di
don Chisciotte. Al di la' di questo, credo che quell'esperienza mi abbia
insegnato l'importanza di rifiutare la logica che vuole che alla violenza si
risponda con la violenza. Ho imparato che non si deve assecondare il
sentimento della rivalsa. Mandela in questo rappresenta un esempio
illuminante: pur avendo trascorso ventisette anni in prigione, quando ne e'
uscito non ha cercato la vendetta personale o collettiva, ma ha spinto il
paese verso la coesistenza. Sebbene il suo progetto di verita' e
riconciliazione non sia completamente riuscito, rimane importantissimo,
perche' vi erano inclusi anche coloro che dovevano giustificare le violenze
compiute, come in una terapia di gruppo. Quel che e' stato fatto in
Sudafrica a livello nazionale potrebbe essere esteso a livello globale con
il dialogo interculturale.
*
Postilla. Accenni alla vita e a alcune opere del filosofo iraniano Ramin
Jahanbegloo
Nato a Teheran nel 1961, Ramin Jahanbegloo si e' formato alla Sorbona di
Parigi e poi al Center for Middle Eastern Studies di Harvard. Collaboratore
della rivista "Esprit", tra il 1997 e il 2001 ha insegnato al Dipartimento
di Scienze politiche dell'Universita' di Toronto per poi diventare direttore
del Dipartimento di Studi contemporanei del Cultural Research Bureau di
Teheran. In Iran e' stato tra i fondatori della rivista "Goftegue"
(Dialogo). Nell'aprile 2006 e' stato arrestato con l'accusa di condurre
attivita' contro il governo iraniano. Liberato dopo cinque mesi, fino al
2007 ha insegnato presso il Center for the Study of Developing Societies di
New Delhi, prima di tornare quest'anno all'Universita' di Toronto, dove e'
professore di Scienze politiche e Research Fellow presso il Centre for
Ethics. Tra i suoi libri: Conversation with Isaiah Berlin (1992), Gandhi:
Aux sources de la non-violence (1998), Penser la nonviolence (1999), Iran:
Between Tradition and Modernity (2004), The Clash of Intolerances (2007),
The Spirit of India (Penguin 2008), Beyond Violence (2008, con Roberto
Toscano).

2. RIFLESSIONE. CECILIA PENNACINI INTERVISTA JEAN-LOUP AMSELLE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 dicembre 2008 col titolo "Parla
Jean-Loup Amselle. L'addio al meticciato. Il paradosso contemporaneo -
spiega l'antropologo francese - e' che mentre gli etnologi e gli scienziati
sociali insistono sulla mutevolezza dell'identita' etnica e culturale, le
"minoranze" rifiutano totalmente questo orientamento, affermando la purezza
della loro discendenza, spesso per avanzare rivendicazioni territoriali"]

Responsabile di avere indotto un dibattito fondamentale per le scienze
umane, il libro intitolato L'invenzione dell'etnia e' curato da Jean-Loup
Amselle e Elikia M'Bokolo (Meltemi, 2008) e ha denunciato la natura storica,
costruita e talvolta finzionale del concetto, appunto, di etnia. Attraverso
l'analisi di alcuni casi africani, gli autori - storici e antropologi -
descrivono i processi che hanno portato all'emergere, durante
l'amministrazione coloniale, di determinati gruppi, nonche' i successivi
irrigidimenti, gli scontri e la moltiplicazione delle identita' etniche.
L'etnicizzazione del mondo appare in effetti in costante aumento, sia nelle
ex colonie sia in Occidente, dove le politiche migratorie e l'esigenza di
gestire e controllare la convivenza tra gruppi di diversa origine rischiano
di riprodurre percorsi ed errori gia' compiuti in passato. Il problema si e'
posto drammaticamente in Italia nei confronti degli immigrati di prima o di
seconda generazione, cosi' come verso i rom - una forma di alterita'
radicata all'interno del nostro corpo sociale, che ripetutamente e' stata
oggetto di attacchi xenofobi. Nei confronti degli immigrati gli
atteggiamenti variano tra l'esigenza di ribadire i confini fra le culture,
riproponendo classificazioni fondate per lo piu' su semplificazioni storiche
o su stereotipi razziali, e un ideale multiculturalista che ricerca una
convivenza in grado di promuovere la diversita', ma nel fare cio' ribadisce
ancora una volta l'esistenza di categorie fisse e immutabili. I problemi
dell'identita' e della sua complessa e spesso controversa definizione
continuano dunque a riproporsi in maniera drammatica: e' questo il tema
dibattuto durante il Festival di Antropologia di Ivrea, nel corso del quale
abbiamo incontrato Jean-Loup Amselle, che dei concetti di identita', etnia e
cultura e' stato negli ultimi decenni uno dei critici piu' attivi e
innovatori.
*
- Cecilia Pennacini: Nel mondo globalizzato le rivendicazioni basate su
presupposti etnici (oltre che religiosi) si stanno moltiplicando. E' un
fenomeno recente, che tuttavia era gia' emerso anche se con modalita' e
caratteristiche diverse nel passato coloniale. Come spiega questo ritorno
alle etnie?
- Jean-Loup Amselle: Effettivamente l'etnicizzazione del mondo e' un
fenomeno globale che si estende sempre di piu'. Se prendiamo ad esempio
l'America Latina, osserviamo il riemergere sulla scena politica delle
popolazioni originarie, gli Amerindi, e la crescita dei movimenti
indigenisti. In Bolivia e' un fenomeno recente promosso dal presidente
Morales, lui stesso di origini amerindie. Qualcosa di simile si osserva
anche in Ecuador e in Peru', tuttavia sono fenomeni che partono dall'alto,
dalle elite, e si dirigono verso il basso. Per rimanere sul continente
americano, anche l'elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti e'
stata interpretata da molti come un evento straordinariamente importante non
tanto per via della politica che avviera', quanto perche' e' un nero. In
Francia i moti scoppiati nelle periferie parigine sono stati descritti come
la rivolta dei "Black" e dei "Beure" (giovani di origini africane o arabe),
occultando l'aspetto sociale ed economico della protesta. Si e' persino
detto che erano giovani la cui instabilita' psicologica derivava dal fatto
di provenire da famiglie poligame. Questo intensificarsi del discorso etnico
va posto in connessione con le ideologie post-coloniali.
*
- Cecilia Pennacini: Quindi l'attribuzione di un'appartenenza etnica, di
un'etichetta, puo' giungere dall'alto, come avveniva nelle colonie, oppure
dal basso, a partire da esigenze interne al gruppo. Spesso, infatti, sono
gli stessi gruppi a rivendicare una loro identita', come nel caso dei
movimenti indigenisti in America Latina o anche delle richieste di
riconoscimento espresse in Australia dagli Aborigeni o in Canada dai
superstiti degli Indiani e degli Eschimesi. Cosa vogliono ottenere questi
gruppi attraverso simili rivendicazioni?
- Jean-Loup Amselle: Le rivendicazioni dal basso in termini di etnia e di
identita' servono, il piu' delle volte, ad alimentare richieste economiche
relative alla terra; mirano spesso a proteggere i gruppi dalle compagnie
petrolifere e dallo sfruttamento dei territori oggetto di rivendicazione.
Credo, pero', che questo modo di vedere le cose possa nascondere una
trappola, dal momento che occulta ed espelle le lotte sociali, economiche o
per i diritti umani, sostituendovi la lotta per i diritti culturali dei
gruppi. Che richiedono legittimamente un loro riconoscimento, ma fondando
tale richiesta su una base etnica rischiano in futuro di rimanere ancora una
volta intrappolati all'interno dei confini identitari che avevano
rivendicato, andando incontro a nuovi problemi. La rivendicazione
identitaria e' dunque un'arma potente ma a doppio taglio.
*
- Cecilia Pennacini: In effetti l'antropologia e la storia stanno
dimostrando in maniera sempre piu' convincente la natura costruita delle
identita' etniche. Piu' studiamo la storia dei gruppi piu' diveniamo
consapevoli dei processi di costruzione e decostruzione identitaria, e anche
delle trappole connesse ai processi di etnicizzazione.
- Jean-Loup Amselle: Precisamente. Proprio per questo, nel corso di
un'indagine di terreno condotta nel Mali meridionale su di un insieme di
popolazioni vicine - Peul, Bambara, Malinke, Senufo e Minyanka - ho deciso
di ricorrere al concetto di meticciato, che poi ho sviluppato in Logiche
meticce. L'Africa era stata a lungo considerata il continente delle etnie,
ciascuna delle quali era ritenuta possedere un sistema religioso, politico
ed economico fisso. Si pensava che queste etnie fossero strettamente
delimitate e che fossero all'origine dei molteplici conflitti che
insanguinano ancora il continente africano. Tuttavia attraverso le mie
indagini ho potuto constatare che prima della colonizzazione le appartenenze
etniche, culturali ed identitarie erano estremamente malleabili. Non si era
Peul, Bambara o Malinke' per l'eternita' ma lo si diventava: i Peul potevano
diventare Bambara e poi Malinke', i pagani potevano diventare musulmani per
poi ritornare al paganesimo, societa' di villaggio potevano trasformarsi in
regni per ricadere poi nell'anarchia segmentaria, societa' di
auto-sussistenza potevano aprirsi al mercato per poi ricadere
nell'autarchia. Tutto questo contraddiceva l'immagine di un'Africa
irrigidita nella tradizione, che si apriva solo con grande difficolta' alla
modernita' coloniale e post-coloniale, la stessa immagine utilizzata da
Nicolas Sarkozy nello scandaloso discorso pronunciato a Dakar, in Senegal,
nel giugno del 2007, quando il presidente francese disse che l'africano non
riusciva a entrare nella storia.
*
- Cecilia Pennacini: Tuttavia, nella sua opera successiva, Connessioni, lei
ha deciso di abbandonare il paradigma del meticciato, sostituendolo con la
metafora delle connessioni, di derivazione elettrica e informatica. Cosa
l'ha motivata?
- Jean-Loup Amselle: Cio' che imbarazza nella nozione di meticciato e' la
sua base biologica: per pensare il meticciato bisogna sottintendere che
all'origine ci siano gruppi puri, siano esse razze o culture. Come nella
zootecnia, per "meticciare" o ibridare bisogna in primo luogo selezionare
delle razze pure da cui nasceranno forme piu' resistenti. Per questo sono
passato all'idea delle connessioni, che e' piu' neutra. Io penso che ogni
cultura sia il prodotto di connessioni, cioe' di derivazioni operate a
partire da una rete di significanti, che e' piu' vasta della cultura
propriamente detta. Di conseguenza per me tutte le culture scaturiscono
dalla torsione di significati inglobanti e dalla trasformazione di questi
significanti in significati locali. Oggi la rete dei significanti possibili
e' molto piu' vasta che in passato ed e' almeno in parte controllata dalla
cultura occidentale, dunque osserviamo fenomeni come l'occidentalizzazione
del mondo, la sua "McDonaldizzazione" o la "Coca-colonizzazione". Tuttavia,
vorrei sottolineare che questo fenomeno di omogeneizzazione non e'
ineluttabile ed e' indissolubilmente connesso a fenomeni che lo contrastano.
Ad esempio mentre alcune lingue scompaiono molti pidgin (lingue che
mescolano tradizioni locali con le lingue dei colonizzatori), stanno
nascendo.
*
- Cecilia Pennacini: Esiste anche un fenomeno di moda, legato al consumo
"etnico" e al mercato di prodotti ibridi, meticci, frutto dell'incontro tra
culture diverse. Come valuta questo fenomeno?
- Jean-Loup Amselle: Tutto l'universo del consumo, in generale, e' oggi
investito dai temi del meticciato e delle connessioni, nell'alimentazione e
nella cucina ad esempio, dove non c'e' ristorante trendy che non mescoli le
specialita' piu' tradizionali di ogni paese con ingredienti esotici, in modo
da produrre un fusion food molto apprezzato dalle classi medie urbane che io
chiamo "ethno-bobo" (la giovane borghesia bohemienne). Nei cosmetici le cose
vanno nella stessa direzione, cosi' come nell'abbigliamento, bsterebbe
pensare agli United Colors of Benetton. Gli esempi si potrebbero
moltiplicare. Il meticciato e' dunque di moda, ma bisogna interrogarsi
riguardo alle ragioni di questo successo. Inoltre se l'Occidente si tuffa,
nel bene o nel male, nella cultura meticcia, nel sud del mondo le cose sono
molto diverse. Nell'Africa sub-sahariana, ad esempio, la purezza razziale e
culturale e' altamente valorizzata mentre il meticciato e l'imbastardimento
sono violentemente respinti. Come ho gia' detto, nei contesti contemporanei
la purezza razziale serve molto spesso a sostenere rivendicazioni politiche
o economiche.
*
- Cecilia Pennacini: Dunque esistono due percezioni diverse, quella dei
movimenti di rivendicazione identitaria da un lato e quella degli
antropologi e degli storici dall'altro. In che modo queste due prospettive
potrebbero incontrarsi?
- Jean-Loup Amselle: E' un paradosso profondo perche' nel momento stesso in
cui gli antropologi e gli scienziati sociali insistono sulla plasticita'
dell'identita' etnica e culturale, i protagonisti direttamente interessati
dal fenomeno rifiutano totalmente questo orientamento affermando la purezza
della loro discendenza. A questo punto ci si potrebbe domandare se il
meticciato non sia un lusso per i ricchi che non hanno nulla da perdere, e
che possono dunque decostruire le loro identita'. Al contrario per i poveri
e i dominati la difesa dell'identita' etnica e culturale e' una necessita'
strategica, un "essenzialismo strategico", come ha detto Gayatri Spivak.
Questo spiega anche il fatto che gli organismi internazionali, come le
Nazioni Unite o l'Unesco, spingono gli attori sociali del sud a dare alle
loro rivendicazioni una connotazione identitaria. In conclusione, la nozione
di meticciato e' contestabile sul piano intellettuale ed e' respinta da
numerosi attori sociali del sud. E' inoltre una nozione dalla "geometria
variabileª", che costituisce un nodo sociale controverso, il cui utilizzo o
rifiuto non e' significativo se non all'interno di un contesto dato.
*
- Cecilia Pennacini: L'antropologo torinese Francesco Remotti, nel suo
intervento al Festival dell'Antropologia, ha provocatoriamente proposto di
abbandonare la nozione di identita' etnica. Lei in quanto etnologo, studioso
di una disciplina fondata su questa nozione, come risponderebbe a tale
proposta?
- Jean-Loup Amselle: Per me il punto fondamentale e' mostrare che le
identita' sono fluide e negoziabili. La gente costruisce la propria
identita' giorno per giorno, nei rapporti personali, nelle conversazioni,
attraverso strategie estremamente dinamiche, che fanno perno su categorie
utilizzate a seconda della situazione, passibili di essere negate in
contesti differenti. Non si tratta, dunque, a mio parere di abolire la
nozione di identita' quanto di contestualizzarla, opponendosi a una sua
formulazione fissa e a-temporale. Tuttavia questo sta divenendo sempre piu'
difficile anche per via dell'introduzione dei test del Dna - utilizzati ad
esempio dagli afroamericani che richiedono risarcimenti dei danni subiti a
causa della tratta - per dimostrare l'origine etnica di popolazioni che si
sono in realta' profondamente mescolate con altri gruppi. E questo tipo di
procedimento irrigidisce ulteriormente le classificazioni identitarie.
*
Postilla. Il primo appuntamento dell'antropologia con il pubblico, tra
interventi, immagini, musica e danza
Jean-Loup Amselle e' docente presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences
Sociales e direttore dei prestigiosi Cahiers d'Etudes Africaines. Tra i suoi
saggi, Logiche meticce. Antropologia dell'identita' in Africa e altrove,
1999; Connessioni. Antropologia dell'universalita' delle culture, 2001,
entrambi editi da Bollati Boringhieri. L'intervista si e' svolta nel corso
del primo Festival di Antropologia organizzato a fine novembre
dall'Associazione Noema e dalla Citta' di Ivrea, che ha avuto per tema
"Identita' e Africa". Come ha sostenuto lo storico dell'antropologia
Francesco Remotti (che a questo tema ha dedicato il volume Contro
l'identita', Laterza, 1996), il successo dell'iniziativa ha mostrato un
bisogno generalizzato di servirsi anche dell'etnologia - oggi considerata
non solo un sapere critico ma anche un'impresa collettiva cui partecipano
insieme studiosi, testimoni e attori sociali - per analizzare le societa'
multuculturali dei nostri giorni. Ne viene fuori una riflessione
estremamente attuale nei temi ma anche nei linguaggi che adotta, sempre piu'
spesso orientati a forme di comunicazione che hanno a che fare con la vita
vissuta, come i film, le immagini, la musica e la danza; percio' il Festival
ha dedicato ampio spazio all'espressione musicale e all'antropologia visiva.

3. MEMORIA. GUIDO LIGUORI RICORDA JOHN CAMMETT
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo agosto 2008 col titolo "Se ne va
John Cammett nel segno di Gramsci"]

Noto in tutto il mondo per la Bibliografia gramsciana, e' morto l'altro
giorno John M. Cammett, storico statunitense e decano degli studi gramsciani
nel suo paese. Nato nel '27, Cammett aveva iniziato la propria vita
lavorativa in fabbrica, a Detroit: operaio e sindacalista, aveva trovato
nello studio il modo di continuare in forme nuove il proprio impegno
politico e ideale di comunista. In Italia aveva incontrato gia' alla fine
degli anni '50 Gramsci e il Pci. Nel 1967 usci' per i tipi della prestigiosa
Stanford University Press il suo Antonio Gramsci and the Origins of Italian
Communism, prima monografia in lingua inglese su Gramsci. Laureatosi alla
Columbia University, ha insegnato a lungo presso la City University of New
York. E' alla fine degli anni '80 che il nome di Cammett conobbe - nel
settore degli studi gramsciani - una larghissima notorieta' internazionale,
come promotore (con Joseph Buttigieg e Frank Rosengarten) della
International Gramsci Society. Egli presento' inoltre, nel 1989, la
bibliografia mondiale degli scritti su Gramsci a cui lavorava da anni (la
Bibliografia e' ora disponibile in rete, a cura della Fondazione Gramsci).
Attraverso i seimila titoli (oggi diciassettemila) redatti in 26 lingue
(oggi 40) raccolti da Cammett fu tangibile come Gramsci fosse divenuto il
saggista italiano moderno piu' conosciuto nel mondo. Benche' non piu'
giovane e in lotta da anni con gravi malattie, la scomparsa di Cammett
addolora e sorprende chiunque lo abbia conosciuto. Da sempre impegnato nella
sua titanica impresa bibliografica, ma disponibile e legato ai suoi ideali e
al suo lavoro, Cammett lascia un esempio di studioso e di militante ormai
raro e forse per questo ancora piu' da rimpiangere.

4. MEMORIA. VALENTINO PARLATO RICORDA MICHELANGELO NOTARIANNI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 agosto 2008 col titolo "Michelangelo,
dieci anni fa"]

Esattamente dieci anni fa, il 27 agosto del 1998, Michelangelo Notarianni
improvvisamente ci lascio'. Ricordo la telefonata, all'alba, di Paola e poi
la corsa nella casa di via Pavia, dove Michelangelo giaceva ancora,
fulminato da un infarto.
Dieci anni fa.
Michelangelo era una personalita' ricca e poliedrica di indubbio peso nella
cultura italiana degli ultimi cinquant'anni; importanti i suoi scritti - non
solo quelli raccolti nel volume curato da Marcello Cini, La memoria a
rischio, edito dalla Manifestolibri - e soprattutto il suo lavoro
nell'editoria, prima all'Isedi per i classici dell'economia e poi agli
Editori Riuniti.
La storia di Michelangelo e' complessa, ma io qui mi vorrei fermare alla sua
presenza al giornale, "Il manifesto", dove il suo ruolo, molteplice, fu
straordinario. Michelangelo era, anche se l'immagine e' troppo tecnica, uno
straordinario sismografo della cultura e della politica. Prima di tutti noi
sentiva e segnalava i sussulti che agitavano e innovavano i mondi, allora
fortemente intrecciati, della politica e della cultura. E a lui "Il
manifesto" deve i notevoli successi, anche di diffusione, realizzati in
quegli anni.
Michelangelo nelle riunioni di redazione (che allora erano piu' mattiniere),
e non solo, dava sempre suggerimenti e stimoli. Io parlavo continuamente con
lui, era per me l'interlocutore prezioso e necessario. La sua scomparsa ha
lasciato un vuoto che sento ancora. Molte volte mi dico: ma con chi posso
parlare di questo nuovo problema? E quel che qui scrivo non e' una critica
ai compagni che oggi fanno il giornale, ma un senso di vuoto che ancora, per
me, e per tutti quelli che hanno lavorato con lui, continua. Anche per
questo adesso torno a rileggere i suoi scritti, a ricordare le nostre
conversazioni. Sono passati dieci anni e Michelangelo c'e' ancora e ancora
ci manca.

5. LIBRI. GUIDO DAVICO BONINO PRESENTA LE "PROVINCIALI" DI BLAISE PASCAL
[Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 13 dicembre
2008 col titolo "Pascal, diciotto stoccate contro i Gesuiti" e il sommario
"Classici. Filosofia. Le lettere Provinciali, la piu' grande opera di
polemica teologica dell'eta' moderna, scritte per difendere la causa dei
giansenisti di Port-Royal"]

Aveva ventidue anni appena Blaise Pascal (alvernate d'alta borghesia, nativo
di Clermont-Ferrand) quando dopo studi serrati brevetto' (ma allora non si
diceva, ne' si faceva) nel 1645 la sua "macchina aritmetica", capace di
svolgere ogni tipo di operazioni "con un movimento regolato senza penna ne'
tavolette". Poi vennero gli esperimenti e le ricerche sul vuoto, e gia'
nell'ottobre '47 i primi scritti in merito, seguiti da innumeri verifiche,
che hanno nel Puy-de-Dome presso Clermont il loro luogo privilegiato.
Scrivo tutto questo per dire che colui, che per noi profani e' l'autore di
quel capolavoro assoluto delle Pensees, era prima ancora uno dei piu'
brillanti scienziati e inventori del suo tempo. Stava nel 1654 lavorando sul
calcolo delle probabilita' ed aveva appena pubblicato il Trattato del
triangolo aritmetico, quando a trentun anni decide radicalmente di cambiare
vita, stabilendo di seguire rigorosamente "due massime principali - cito la
sorella biografa Gilberte - ossia la rinuncia a tutti i piaceri e a tutte le
superfluita'". Poi, dopo una notte d'estasi, il giovane scienziato "mondano"
si ritira a Port-Royal des Champs, la celebre abbazia dei Giansenisti, di
cui si sente sodale sotto vari punti di vista e presso i quali la sete, che
ormai lo divora, di altre e piu' profonde certezze trova ampio e documentato
sostegno teologico con cui placarsi.
Accade nel frattempo che al duca di Liancourt venga rifiutata l'assoluzione
da un prete di Saint-Sulpice per le sue aperte simpatie per i portroyalisti.
Il giansenista Antoine Arnauld ne prende le difese con due lettere al
signore di Francia ingiustamente punito e ad un suo illustre pari, il duca
di Luynes - che suscitano lo sdegno dei Gesuiti. Arnauld e' attaccato a sua
volta e sta per essere condannato dal tribunale ecclesiastico della Sorbona.
E' a questo punto che entra in campo (23 gennaio 1656) Blaise Pascal con una
Lettera a un provinciale, redatta di getto, e coperta dall'anonimato, per
porre la sua sottile intelligenza e i tesori della sua verve polemica al
servizio della causa di Arnauld e dei giansenisti, contro i gesuiti,
naturalmente. E' la prima pietra di un edificio possente, le diciotto
Provinciali, che si snodano l'una dopo l'altra da quella fine del gennaio
'56 alla fine del marzo successivo, sono all'incirca 250 pagine di
un'edizione odierna in un normale corpo tipografico: ma scandite in diciotto
puntate, che destano su due fronti opposti, del rigorismo e del cosiddetto
casuismo, uno "scandalo" enorme. E sono, senz'ombra d'enfasi retorica, la
piu' grande opera polemica - e di serrata polemica cristologica e teologica,
si badi - dell'eta' moderna.
Carlo Carena, eccezionale antichista non accademico (nel senso che ha sempre
rifiutato, con pascaliana fermezza, la carriera universitaria, che avrebbe
potuto percorrere d'un sol piede), dopo un iter di commentatore e traduttore
avviato a trent'anni e costellato di Eschilo, Plutarco, Senofonte, Agostino,
San Paolo, Erasmo, a limitarci agli autori piu' impegnativi, aveva pensato
di festeggiare il proprio settantanovesimo genetliaco con una traduzione
esemplare dei Pensieri pascaliani (2004), corredata da un imponente e
perspicuo apparato di 420 pagine (la prefazione era del compianto Giovanni
Raboni). Ora ha celebrato il suo nuovo compleanno con una traduzione e un
commento delle Provinciali, sempre nell'einaudiana "Pleiade" (pp.
LXXVII-734, euro 100, introdotta dal manzonista, sottile ed arguto,
Salvatore Silvano Nigro).
Vorrei raccomandare questo (doppio) capolavoro (d'autore e curatore) ai
nostri esigui ed esili polemisti d'oggi: si potranno confrontare, si parva
licet, con una varieta' di registri di scrittura (e dunque di ritmi, toni e
timbri, giacche' il polemismo esige - anche da parte del lettore - una
particolare scansione declamatoria) che e' semplicemente strabiliante.
Pascal trascorre dal finto candore ad una blanda, quasi servizievole ironia
con un mimetismo sorprendente. Indulge, quand'e' necessaria, allo stupore ed
alla meraviglia dell'interrogazione retorica: ma i Gesuiti, che si
permettono di "scusare" persino il furto e l'omicidio, hanno poi davvero una
morale?
Ma quando si tratta di discutere dell'amore di Dio, allora la sua voce si fa
grave e solenne: giacche' il timore di lui e' la strada piu' diritta per
approdare alla sua Carita'. E lo sdegno si scatena in lui tremendo quando lo
accusano di scherzare sulle cose sante per poi scegliere, magari nella
lettera successiva, non molto distante quanto alla stesura materiale, il
registro di una quasi affabile conciliazione.
Dopo la diciottesima lettera del 24 marzo 1657 Pascal decide di tacersi.
L'auctoritas gesuitica ha subito da lui dei durissimi colpi: e solo due anni
piu' tardi qualcuno comincera' a fare il suo nome come autore dei diciotto
pamphlets. Era l'anno stesso in cui un ventinovenne fiorentino errabondo,
Cosimo Brunetti, prese a tradurli proprio a Parigi: Pascal, che ha soli
trentasei anni, e' in campagna, forse a Port-Royal, prostrato in tutte le
sue forze, cosi' debole da non poter camminare senza bastone. Morira' a
Parigi all'una del mattino del 19 agosto 1662 a trentanove anni e due mesi
d'eta'.

6. LIBRI. GIORGIO DE RIENZO PRESENTA "SULLA LETTURA E SUI LIBRI" DI ARTHUR
SCHOPENHAUER
[Dal "Corriere della sera" dell'8 ottobre 2008 col titolo "Uno scritto
polemico. Schopenhauer nichilista: quant'e' dannoso leggere"]

Arthur Schopenhauer, Sulla lettura e sui libri, La vita felice, pp. 61, euro
6,50.
*
Con una incisiva nota introduttiva di Andrea Felis leggiamo, nella
traduzione di Valerio Consonni (con testo tedesco a fronte), il XXIV
capitolo dei Parerga und Paralipomena di Arthur Schopenhauer, dedicato alla
lettura e ai libri. La tesi che il filosofo sostiene va inquadrata nella
polemica tardo-settecentesca contro i libri di intrattenimento culturale che
riescono a creare un "falso movimento" di conoscenza, perche' "quando
leggiamo, un altro pensa al posto nostro" e il lettore ripete semplicemente
(e inutilmente) "il suo processo mentale". Puo' essere attuale (e
istruttivo), pur nella sua esasperazione nichilista, il ragionamento di
Schopenhauer. "Veramente la nostra testa", scrive, "durante la lettura,
altro non e' che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine si
dileguano, cosa resta? Di qui deriva che chi legge proprio molto e durante
quasi l'intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell'assenza del
pensiero, e lentamente smarrisce la facolta' del pensare da se'. Proprio
questo e' il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere". Da
qui la terapia drastica di imparare a non leggere, di liberarsi, come
interpreta Felis, dalle "letture nocive e velenose che distruggono lo
spirito". Da qui il dettato addirittura di un'"arte del non leggere",
perche' i libri (anche quelli buoni) producono non solo un inutile esercizio
delle facolta' cognitive, ma offrono al lettore un pericoloso "spettacolo
dell'universalita'", che e' solo illusorio.

7. STRUMENTI. PER ABBONARSI AD "AZIONE NONVIOLENTA"

"Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata da
Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito
sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363
intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo
an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'".
Per informazioni e contatti: redazione, direzione, amministrazione, via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e
15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

8. STRUMENTI. L'AGENDA "GIORNI NONVIOLENTI 2009"

Dal 1994, ogni anno le Edizioni Qualevita pubblicano l'agenda "Giorni
nonviolenti". E' disponibile l'agenda "Giorni nonviolenti 2009": una copia,
10 euro.
Richiedere a: Qualevita Edizioni, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi
(Aq), tel. e fax: 0864460006, cell.: 3495843946,  e-mail: info at qualevita.it,
sito: www.qualevita.it

9. STRUMENTI. L'AGENDA DELL'ANTIMAFIA 2009

E' in libreria l'Agenda dell'antimafia 2009, curata dal Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato": una copia, 10 euro.
Per richieste:
- Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Via Villa
Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 0917301490, e-mail:
csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it
- Di Girolamo Editore, corso V. Emanuele 32/34, 91100 Trapani, tel. e fax:
923540339, e-mail: info at ilpozzodigiacobbe.com, sito:
www.digirolamoeditore.com e anche www.ilpozzodigiacobbe.com

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 681 del 26 dicembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it