Voci e volti della nonviolenza. 256



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 256 del 4 novembre 2008

In questo numero:
Annamaria Rivera: Per una postura relativista

ANNAMARIA RIVERA: PER UNA POSTURA RELATIVISTA
[Ringraziamo di cuore Annamaria Rivera (per contatti:
annamariarivera at libero.it) per averci messo a disposizione il seguente
saggio "Per una postura relativista. Oltre il dualismo natura/cultura"
pubblicato in Bruno Barba (a cura di), Tutto e' relativo. La prospettiva in
antropologia, Seid, Firenze 2008, pp. 19-34.
Annamaria Rivera, antropologa, vive a Roma e insegna etnologia
all'Universita' di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani
di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la
ricerca con l'impegno sociale e politico. Attiva nei movimenti femminista,
antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi
attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l'analisi delle
molteplici forme di razzismo, l'indagine sui nodi e i problemi della
societa' pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di
concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi. Fra le opere di Annamaria
Rivera piu' recenti: (con Gallissot e Kilani), L'imbroglio etnico, in
quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001; (a cura di), L'inquietudine
dell'Islam, Dedalo, Bari 2002; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza
razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003; La guerra dei simboli. Veli
postcoloniali e retoriche sull'alterita', Dedalo, Bari 2005]

1. Una premessa quasi-politica
Le controversie pubbliche sono figlie del loro tempo. Lo e' anche la
polemica contro il relativismo culturale, che negli anni piu' recenti e'
ritornata in voga sull'onda del "nuovo ordine mondiale", delle dottrine e
delle guerre volte a consolidarlo. E' indubbio che oggi le relazioni delle
potenze egemoni e dei loro apparati ideologici con le aree e i paesi
subalterni o dominati siano tornate ad essere marcate da una crescente, se
non radicale, asimmetria, che si riflette, anche e pesantemente, nella
dialettica interna ai paesi occidentali fra le maggioranze e le minoranze
sociali e culturali: la polemica contro il relativismo serve, fra l'altro, a
colmare lo smarrimento e il vuoto concettuale e progettuale di fronte
all'eterogeneita' e alla complessita' culturali delle societa' occidentali
odierne.
Non e' casuale, quindi, che proprio oggi il relativismo sia divenuto il
bersaglio di assolutisti d'ogni genere: clericali e neoconservatori, ma
anche universalisti e razionalisti dogmatici.
Il ritorno del tema antirelativista nelle polemiche pubbliche sembra essere,
almeno in Italia, l'effetto della convergenza di due filoni principali: la
condanna del relativismo morale da parte di alte gerarchie cattoliche - un
motivo vetusto, che riemerge periodicamente - e l'offensiva contro il
relativismo culturale mutuata dalla nuova destra americana e dalla sua
dottrina della superiorita' della "civilta' occidentale", da difendere
ideologicamente e praticamente con ogni mezzo. Nel lessico neoconservatore
statunitense, infatti, il rifiuto del relativismo equivale all'asserita
indiscutibilita' del fondamentalismo cristiano e della dottrina, per alcuni
versi correlata, della guerra preventiva e globale. Infine, una matrice
secondaria e' costituita dal vecchio etnocentrismo di marca evoluzionista e
positivista, che permane fra i nostalgici, anche di sinistra, delle grandi
narrazioni.
La variante francese di questo genere di querelle da' un altro nome al
medesimo bersaglio, definendolo "comunitarismo". La polemica
anticomunitarista - piu' diffusa, costante e martellante di quanto non sia
in Italia quella antirelativista - assolve una funzione analoga: stabilisce
il discrimine fra le identita' inaccettabili e l'identita' accettabile se
non obbligatoria, quella "repubblicana" (v. Levy 2005); connota in senso
peggiorativo manifestazioni identitarie e rivendicazioni di minoranze
svantaggiate o discriminate, implicitamente affermando che la sola comunita'
legittima e' quella nazionale; stigmatizza come degenerazione comunitarista
ogni istanza di riconoscimento che si sottragga allo "spirito francese" e al
linguaggio dominante. Uno dei temi che caratterizzano entrambe le polemiche
e' il riferimento negativo al multiculturalismo all'anglosassone,
rappresentato, soprattutto in Francia, come la sentina di ogni deviazione
particolarista e "tribalista". La finalita' e' difendere ed esaltare la
superiorita' del modello d'integrazione "repubblicano", che, com'e' noto,
poggia su una concezione della cittadinanza che postula, in sostanza, un
cittadino astratto, atomizzato, spogliato da ogni particolarita'.
Il riferimento polemico ad una formula, "relativismo culturale", che fino a
tempi recenti era confinata nei lessici specialistici si colloca nel solco
di un'esaltazione dell'universalismo che da alcuni decenni si manifesta
tanto piu' sfrenatamente quanto piu' esso va rivelandosi come una maschera
del dominio. La pretesa di esportare i valori universali sulla punta dei
missili a lunga gittata e la reazione nei termini di una controffensiva, di
segno islamista, ugualmente e simmetricamente fondata su verita' assolute e
indiscutibili, hanno creato un ambiente internazionale del tutto ostile alle
piccole verita' esitanti e provvisorie, perseguite attraverso l'impervia
strada del dubbio, del ripensamento critico, del confronto con altri punti
di vista.
Le guerre postmoderne, asimmetriche e non-convenzionali per eccellenza, piu'
che mai prive di legittimita' normativa e d'ogni prospettiva di
riconoscimento dell'avversario, quindi di negoziato, non possono che
accompagnarsi con l'enfatica enunciazione di assoluti totalitari. Nella
guerra preventiva, totale e infinita, l'avversario diviene Nemico, a tal
punto destoricizzato da assumere le sembianze di un fantasma ontologico: e'
il male assoluto, l'avversario dell'umanita', se non una sorta di catastrofe
naturale endemica che va combattuta con ogni mezzo. Correlativamente anche
l'altro interno assume sfumature da nemico ed entrambi sono spesso definiti
secondo categorizzazioni di tipo metafisico o naturalistico (1).
*
2. Contro le dicotomie artificiose, per una postura dubbiosa e relativista
In questo trionfo di fondamenti e di assoluti, e' davvero esiguo lo spazio
riservato alle ontologie minori, alle epistemologie dubbiose, ai processi di
conoscenza che privilegiano vissuti e biografie, contesti locali e memorie
soggettive, mediante una riflessivita' guadagnata lasciandosi umilmente
attraversare dagli sguardi altrui. Percio' questo spazio va saggiamente
amministrato, come fosse un orticello prezioso da ripulire e coltivare ogni
giorno, e da lasciare ai posteri a testimonianza di un microcosmo che seppe
resistere all'assedio di fondamentalismi e assolutismi.
Lo spazio del relativismo culturale, divenuto l'etichetta spregiativa di
cio' che tenta di sfuggire alle ingiunzioni assolutistiche del nuovo ordine
globale, deve essere esso stesso sottratto alla nicchia senza storia e senza
spessore problematico in cui e' stato relegato. E forse e' bene che sia
liberato dal peso del proprio stesso nome, che non gli appartiene piu',
pervertito come e' dalle ingiurie del tempo e da polemiche pubbliche
strumentali e grossolane. Queste, fra l'altro, caricano l'espressione
"relativismo culturale" di un significato pesantemente etico, nel migliore
dei casi con l'intento di criticare concezioni del mondo reputate deboli o
addirittura scettiche, nel peggiore, allo scopo di screditare tutto cio' che
cerca di sfuggire all'ordine del discorso dominante.
Per sottrarre il relativismo alla cappa ideologica e alle connotazioni
sommarie e grossolane che gli sono polemicamente attribuite, e' opportuno
ricordare - per cominciare - che l'orientamento filosofico che gli e'
opposto non e' l'universalismo ne' il razionalismo, ma la convinzione della
superiorita' e del valore di modello della propria forma di vita, la
concezione della conoscenza come sistema di verita' assolute, definitive,
astoriche, la credenza in principi altrettanto assoluti e immutabili in
campo morale. Il dispositivo retorico del quale si serve la polemica
antirelativista, infatti, mira ad insinuare l'idea che dubitare che la
propria forma di vita particolare possa essere assunta a metro di misura
universale significhi svendere i propri modelli, principi e valori,
dichiarare che essi sono infondati o intercambiabili, disconoscere le
conquiste della razionalita' occidentale, rifiutare ogni principio
universale, assumere un atteggiamento scettico o nichilista in campo morale.
D'altra parte, non si puo' negare che posizioni radicalmente relativiste
corrono il rischio di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o
addirittura di produrre ineguaglianze sociali attribuendo differenze. Esse,
inoltre, possono scivolare verso una concezione statica e deterministica
delle culture ed occultare il dato di fatto che qualsiasi cultura e'
attraversata da relazioni di potere, asimmetrie e conflitti fra le classi,
le caste, i generi, le generazioni.
Ma questi sono gli esiti possibili, non ineluttabili, del relativismo che,
come qualsiasi orientamento, puo' irrigidirsi, divenire dogmatico,
trasformarsi da disposizione epistemica, in posizione dottrinale.
Sarebbe forse necessario inventare un altro termine per nominare quella
pratica, quello sguardo, quella postura - postura, non posizione, come
precisa saggiamente Francois Jullien (2006) - che ha permesso a generazioni
di ricercatori di cogliere e di restituire qualche frammento dell'infinita
varieta' delle forme di vita; che ha fatto si' che la cultura europea fosse
attraversata, nel corso di tutta la sua storia, dalla linea feconda del
dubbio, dell'incertezza di se', del senso della propria limitatezza, della
critica del proprio particolare, del desiderio e del riconoscimento
dell'altro: una vena che, scorrendo da Protagora a Montaigne, da Rousseau a
Levi-Strauss, continua tuttora a fluire, benche' da sempre minacciata da
guerre di religione, ordini totalitari, scontri di civilta'.
Inventare un altro nome da dare a quella postura potrebbe servire a liberare
cio' che finora abbiamo chiamato "relativismo culturale" dalla gabbia delle
dicotomie cui e' stato incatenato: relativismo versus universalismo,
razionalismo, oggettivismo, "continuismo" e costruttivismo culturali, come
recita una retorica diffusa anche in ambienti specialistici.
Soffermiamoci su qualcuna di tali artificiose dicotomie. Benche' il
relativismo culturale sia storicamente legato ad una filiazione
culturalista - quella boasiana - che in effetti ha finito, in alcuni casi,
per intendere le culture come totalita' autonome, compatte, autosufficienti,
incomunicanti, perfino incommensurabili, sul piano concettuale e' alquanto
arbitrario sostenere che esso ineluttabilmente si leghi ad una concezione
tipicamente culturalista, dunque essenzialista, discontinuista e
determinista.
Infatti, si puo' far valere una postura relativista e nondimeno intendere le
culture come entita' storiche fluide, mutevoli, collocate in un continuum.
Per contro, si puo' sostenere assolutismo e primatismo occidentale e nel
contempo concepire le culture come universi autonomi, separati, non
comunicanti (il teorema dello "scontro di civilta'" ne e' un esempio).
D'altra parte, si puo' propugnare l'universalismo e al tempo stesso ritenere
che i "nostri principi e valori universali" debbano essere imposti con la
forza a societa' e culture altre, intese come monadi immutabili, sottratte
alla storia, irriducibilmente differenti dalla "nostra cultura". Gia' quel
"nostri" rivela l'impostura: se l'universale e' proprieta' esclusiva del
noi, che puo' esportarlo ed imporlo agli altri, e' dubbio il suo carattere
di universalita'. Peraltro, alcuni principi e valori sono si'
universalizzabili, ma nella misura in cui si riconoscono gli altri e si
ammette che la loro capacita' di enunciare delle verita', per quanto
parziali, sia equivalente alla nostra, e se si concede che anch'essi siano
portatori di qualche principio o valore degno d'essere universalizzato. Come
ha scritto Charles Taylor, "e' ragionevole supporre che quelle culture che
hanno dato un orizzonte di significato a un gran numero di esseri umani, dai
caratteri e dai temperamenti piu' diversi, per un lungo periodo di tempo -
che hanno, in altre parole, dato espressione al loro senso del buono, del
santo, del degno di ammirazione - possiedano quasi certamente qualcosa che
merita da parte nostra ammirazione e rispetto, anche se e' accompagnato da
molte cose che dobbiamo aborrire e respingere. Ma forse possiamo dirlo anche
in un altro modo: ci vuole una suprema arroganza per scartare a priori
questa possibilita'" (in Habermas e Taylor 1998, p. 62).
*
3. L'etnocentrismo critico di Ernesto de Martino
Nel tempo in cui l'universalismo rivela sempre piu' il suo carattere
formale, astratto, in fondo particolarista "poiche' si riassume
nell'affermazione (...) dell'assoluta superiorita' etica e razionale
dell'Occidente su tutte le altre culture" (Caille' 1995, p. 196),
l'enunciazione a sua volta convenzionale del relativismo culturale potrebbe
essere una trappola o una scappatoia illusoria. Alcuni hanno provato ad
articolare diversamente, in modo non dicotomico, i termini
universalismo/relativismo, cercando nel contempo di sfuggire alla secca e
sterile alternativa fra etnocentrismo e relativismo culturale.
Fra i contemporanei che hanno tentato l'impresa e' d'obbligo citare Ernesto
De Martino e la sua proposta di un "etnocentrismo critico".
Conviene premettere che a connotare l'opera demartiniana sono, anzitutto, il
pathos col quale egli vive la "pungente esperienza dello scandalo sollevato
dall'incontro con umanita' cifrate" (1977, p. 393), e l'ammissione esplicita
del proprio disagio, del senso di colpa e del rimorso "davanti al 'fratello
separato' e alla dispersione irrelata delle culture sul nostro pianeta"
(ibidem). Tutto cio' si riflette nella sua ricerca di campo, nei resoconti
etnografici, nella scrittura, conferendo loro un peculiare stile
"autobiografico" (Gallini 1977), che anticipa di molti anni il tema e la
pratica della riflessivita' (e dell'impegno politico) nella ricerca
etnografica: "l'oggettivita' per l'etnografo non consiste nel fingersi sin
dall'inizio della ricerca al riparo da qualsiasi passione, col rischio di
restar preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle inconsapevolmente
operare nel discorso etnografico (...) ma si fonda nell'impegno di legare il
proprio viaggio all'esplicito riconoscimento di una passione attuale (...)"
(De Martino 1994, p. 20).
Inoltre, fin dalle prime opere (almeno da Naturalismo e storicismo
nell'etnologia), de Martino aveva condotto una serrata polemica contro il
positivismo, il naturalismo, il "realismo ingenuo", rigettando
esplicitamente ogni forma di etnocentrismo dogmatico, e i corollari del
pregiudizio e del razzismo; a tal punto che alcuni commentatori hanno visto
nel libro del 1948, Il mondo magico, un documento relativista, benche' non
in contrasto con quella che poi si andra' definendo come la linea principale
del suo pensiero: "rigorosamente razionalista e programmaticamente fedele ai
valori della civilta' occidentale" (Dei 1987, p. 2).  Altri, al contrario,
hanno denegato perfino le tracce di un relativismo di tipo gnoseologico e
metodologico (2).
In ogni caso, con il relativismo culturale di matrice statunitense egli
intrattiene un rapporto complesso, ambivalente, perfino tormentato, si
potrebbe dire, come emerge soprattutto dalle note raccolte nell'opera
postuma, La fine del mondo. In una di queste, per esempio, riprendendo un
tema piu' volte visitato, egli riconosce "l'istanza positiva rappresentata
dal relativismo e dalla etnopsichiatria proprio come raccomandazione di
giudicare integrazione e disintegrazione all'interno di una cultura, e non
in base ad un modello astratto della 'natura umana' ricavato dalla civilta'
occidentale contemporanea e fatto valere dogmaticamente per tutte le altre
possibili culture" (1977, p. 16).
In un'altra nota della stessa opera, De Martino si mostra a tal punto
critico da additare il relativismo come "il pericolo dell'umanesimo
etnografico" (ivi, p. 396). Solo l'occidente, egli argomenta, "ha prodotto
un vero e proprio interesse etnologico, nel senso di una esigenza di
confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e
aliene" (ibidem); solo la civilta' occidentale ha "portato alla coscienza il
principio conoscitivo e operativo di una origine e di una destinazione
integralmente umana dei beni culturali, di una determinazione storica di
questi beni, di un ethos specificamente e universalmente umano" (ivi, p.
397). Di conseguenza: "Per un verso (...) e' impossibile dire qualche cosa
sul significato delle culture degli etne se non ci si impegna sul senso
della civilta' occidentale; per un altro verso proprio questo senso, una
volta dichiarato e giustificato, apre al dialogo con il significato delle
altre culture in quanto fondato sul postulato della comune umanita'" (ivi,
p. 395).
Nondimeno, egli assume acutamente il dilemma costituito dalla dialettica
soggetto/oggetto e dal tema delle categorie e delle passioni del soggetto
osservante. E si chiede come sia possibile sciogliere l'alternativa
paradossale che ogni incontro etnografico impone al ricercatore: prescindere
totalmente dalla propria storia culturale, rinunciando alle proprie
categorie conoscitive e tradendo cosi' la vocazione specialistica, oppure
esporsi al rischio di valutazioni etnocentriche. Nell'elaborazione piu'
matura della sua proposta, egli risponde che "L'unico modo di risolvere
questo paradosso e' racchiuso nello stesso concetto dell'incontro
etnografico come duplice tematizzazione, del 'proprio' e dell''alieno'.
L'etnografo e' chiamato cioe' ad esercitare una epoche' etnografica che
consiste nell'inaugurare, sotto lo stimolo dell'incontro con determinati
comportamenti culturali alieni, un confronto sistematico ed esplicito fra la
storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale
occidentale che e' sedimentata nelle categorie dell'etnografo (...): questa
duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena e'
condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui
il 'proprio' e l''alieno' sono sorpresi come due possibilita' storiche di
essere uomo (...). In questo senso l'incontro etnografico costituisce
l'occasione per il piu' radicale esame di coscienza che sia possibile
all'uomo occidentale (...)" (ivi, p. 391).
Ma il "radicale esame di coscienza" dei limiti della razionalita' e
dell'umanesimo occidentali per de Martino non puo' condurre oltre i confini
della nostra civilta'. Esso deve mirare tanto alla ridefinizione delle
categorie, all'allargamento della nostra razionalita' e autocoscienza cosi'
da ricomprendervi l'alterita'; quanto ad un rinnovamento dello stesso
umanesimo, tale da conferire un "nuovo possibile senso" al "processo di
occidentalizzazione in un'epoca in cui l'occidentalizzazione borghese,
coloniale, missionaria" e' drammaticamente rifiutata (De Martino 1980, p.
140).
Pur posto di fronte alla travolgente critica pratica espressa dai movimenti
anticolonialisti, pur acutamente consapevole che la razionalita' strumentale
occidentale ha gia' prodotto un'immane sciagura - lo sterminio nazista - e
continua a covare in se' i germi della catastrofe (3) - "quella di cui il
fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l'immagine reale" (1977,
p. 470) - De Martino resta fedele, in fondo, all'idea del primato, razionale
e morale, dell'occidente. Rintracciare le ragioni, molteplici e complesse,
della sua fedelta' a questa idea esula dal nostro sintetico excursus:
possiamo solo alludere frettolosamente allo spettro dell'irrazionalismo, che
egli paventa come esito del relativismo, all'incapacita' di trascendere in
modo netto la matrice crociana della sua formazione, all'impossibilita'
storica d'immaginare una teoria dell'emancipazione dei subalterni e della
liberazione dei colonizzati che nasca dal seno della "storia aliena" e che
rinnovi la stessa tradizione europea.
*
4. Oltre il dualismo e l'universalismo particolare, per un'antropologia
simmetrica
Altri studiosi hanno egualmente proposto formule volte a  liberare il
"relativismo" dalle sue concrezioni ideologiche e dalle false dicotomie
nelle quali e' stato imprigionato: da chi, come Raimon Panikkar, preferisce
adoperare "relativita' culturale", intendendola come la capacita' di
pronunciare enunciati che hanno un senso e una pretesa di verita' in
relazione ad un contesto definito; a Tzvetan Todorov (1989, p. 513), il
quale indica la prospettiva di un umanesimo critico, entro il cui orizzonte
l'universalita', sempre soggetta a revisione, sia lo strumento d'analisi, il
principio regolatore che permette il confronto fecondo fra particolari; per
arrivare ad Alain Caille', Philippe Descola e altri ancora, i quali
ricorrono alla formula di universalismo "relativista" o "relativo".
Dal canto suo, Bruno Latour (1997), il cui ragionamento si muove su un
terreno piu' squisitamente epistemologico, propone l'espressione relativismo
"relativo" o "relativista", onde prendere le distanze dal relativismo
assoluto e nel contempo rimarcare che la pratica del relativismo mira
anzitutto a stabilire relazioni e rendere commensurabili le forme di vita.
Quanto a Descola, antropologo specialista delle societa' amazzoniche, la sua
opera del 2005, Par-dela' nature et culture, e' attraversata da
un'importante riflessione intorno al regime epistemologico, fondatore di
tutti gli sviluppi dell'antropologia, che lo stesso Latour ha definito
"universalismo particolare". Secondo Descola, per superarlo, l'antropologia
deve riconoscere, mettere a distanza ed abbandonare la dicotomia
natura/cultura e il paradigma naturalistico moderno che la ha costituita.
Ammettere che questo e' solo "l'une des expressions possible des schemes
plus generaux gouvernant l'objectivation du monde et d'autrui" (ivi, p. 13)
le permettera' d'includere fra i suoi oggetti non solo l'anthropos, ma anche
ogni "collettivita' degli esistenti" che gli e' legata e che finora
l'antropologia ha sempre considerato solo come parte dell'entourage degli
umani (ivi, p. 15).
Descola si chiede come sia possibile sottrarsi al dilemma del naturalismo,
piu' precisamente, all'oscillazione fra la speranza monista
dell'universalismo naturale e la tentazione pluralista del relativismo
culturale. E propone di sperimentare una prospettiva che conduca a
conciliare le esigenze dell'inchiesta scientifica con "le respect de la
diversite' des etats du monde" (ivi, p. 418). A questa prospettiva egli da'
il nome di universalismo relativo, precisando, anch'egli, che intende
l'aggettivo nel senso di cio' che fa riferimento ad una relazione:
"L'universalisme relatif ne part pas de la nature et des cultures, des
substances et des esprits, des discriminations entre qualites premieres et
qualites secondes, mais des relations de continuite' et de discontinuite',
d'identite' et de difference, de ressemblance et de dissimilitude que les
humains etablissent partout entre les existants au moyen des outils herites
de leur philogenese. (...) L'universalisme relatif n'exige pas que soient
donnees au prealable une materialite' egale pour tous et des significations
contingentes, il lui suffit de reconnaitre la saillance du discontinu, dans
les choses comme dans les mecanismes de leur apprehension, et d'admettre, au
moins par hypothese, qu'il existe un nombre reduit de formules pour en tirer
parti, soit en ratifiant une discontinuite' phenomenale, soit en
l'invalidant dans une continuite'" (ivi, p. 419).
Mi sembra che il ragionamento dell'antropologo francese, sorprendentemente
affine, nella critica del paradigma naturalistico, al primo De Martino, vada
al cuore della questione piu' di altri. Se in apparenza il suo intento
principale e' dimostrare che il dualismo natura/cultura, costitutivo anche
dell'antropologia, e' relativo ad un contesto del tutto particolare - la
modernita' occidentale - ed e' privo di senso per la maggior parte delle
culture, in realta' egli tocca, piu' in generale, un nodo decisivo della
questione universalismo/etnocentrismo/relativismo.
Il pensiero occidentale moderno ha collocato in due sfere ontologiche
nettamente distinte il mondo degli umani e quello dei non umani. Cosi'
facendo, si e' precluso la possibilita' di compiere un'opera di traduzione e
di mediazione, privilegiando cio' che Latour (1997, p. 21) ha definito opera
di purificazione.
Come gia' aveva rimarcato Levi-Strauss (1978, pp. 69-79) nel discorso in
commemorazione di Rousseau pronunciato nel 1962, e' attraverso la
separazione radicale fra umanita' e animalita' che l'uomo occidentale
inaugura quel "ciclo maledetto" che in seguito sara' la base per escludere
dalla sfera dell'umanita' un gruppo umano dopo l'altro e costruire un
umanesimo riservato a minoranze sempre piu' ristrette. Piu' tardi egli
avrebbe ripreso lo stesso tema nella famosa conferenza presentata all'Unesco
nel 1971 ("Race et culture"), e ripubblicata in Le regard eloigne' (1983),
affermando che questa radicale separazione "ha consentito che fossero
respinte, al di fuori di frontiere arbitrariamente tracciate, frazioni
sempre piu' vicine di umanita'" (1984, p. 46). Anche Levi-Strauss, come de
Martino ed altri, auspica la costruzione di un umanesimo "saggiamente
concepito", consapevole che nessuna prospettiva davvero universalista puo'
nascere dalla radicale messa a distanza e reificazione della natura e da un
rapporto con gli altri viventi fatto di violenza e sfruttamento.
E' una riflessione che non riguarda solo l'alternativa
etnocentrismo/relativismo ma che impone una radicale revisione dello stesso
concetto di cultura ed una ridefinizione dello stesso relativismo. La
nozione antropologica di cultura si e' modellata, infatti, secondo una
logica contrastiva che oppone natura a cultura; e questa a sua volta e' il
prodotto di un pensiero dualistico, storicamente assai circoscritto, essendo
apparso tardivamente nel corso della stessa storia europea. Se dal piano
concettuale passiamo a quello epistemologico, dobbiamo constatare che una
postura relativista coerente richiederebbe uno sguardo piu' critico e
attento sia verso la pluralita' dei sistemi simbolici per mezzo dei quali le
diverse culture umane concettualizzano la continuita' o la discontinuita'
fra i viventi, sia verso il fatto che specie diverse dalla nostra
conoscono - come gia' trent'anni fa scriveva Edmund Leach - "costumi" e
"abitudini", in definitiva, attitudini ed elaborazioni culturali: "(...)
probabilmente e' valido per tutte le creature viventi, non semplicemente per
l'uomo, il principio secondo cui la comprensione dell'ambiente si ottiene
solo attraverso l'esperienza, cioe' passando per la cultura, e non e'
qualcosa di insito nella natura biologica dell'animale" (Leach 1980, p.
788).
Seguendo questa linea di pensiero, possiamo ipotizzare che lo specismo sia
il padre dell'etnocentrismo e che per guadagnare un'efficace postura
relativista si debba accettare di mettere in discussione la linea di
demarcazione istituita dal pensiero occidentale moderno, che lo si connoti
come umanesimo occidentale (Levi-Strauss), che lo si definisca come marcato
dal paradigma naturalistico (Descola), che se ne individui la matrice
fondante nella Grande Partizione (Latour) fra natura e societa', fra
oggettivita' e soggettivita'.
E' su questa medesima linea che si muove il ragionamento di Latour (1987)
che, per quanto non sempre limpido (e talvolta condotto con uno stile
formale influenzato dal vituperato scientismo), ha il merito di affrontare
in modo non convenzionale la questione relativismo/universalismo, muovendo
da una premessa affine: la partizione, egli scrive, fra Noi, gli
occidentali, e tutti gli altri, fra la Civilta' e le culture, e' stata
possibile perche' si e' istituita una netta partizione fra gli umani e i non
umani (ivi, p. 132), e questa, a sua volta, ha permesso la creazione
artificiale dello scandalo degli altri (ivi, p. 140).
Il relativismo assoluto, continua Latour, mette la natura fra parentesi e
presuppone culture separate, incommensurabili, non gerarchizzabili. Con il
relativismo culturale la natura entra in scena, ma le culture sono
considerate punti di vista piu' o meno precisi su una natura unica e
universale. Per l'universalismo particolare e' una sola societa', la nostra,
a definire il quadro generale della natura e a collocare le altre societa'
in rapporto a questo quadro. Al contrario, il relativismo "relativo" o
"relativista" non mette fra parentesi la natura, rende commensurabili i
"collettivi natural-culturali" e in tal modo permette la
traduzione-mediazione e la negoziazione intorno a degli universali relativi
(4). E' praticando quest'ultima forma di relativismo, piu' modesto ma piu'
empirista (ivi, p. 153), che l'antropologia puo' diventare simmetrica.
Finora gli antropologi - che pure quando studiano gli altri analizzano la
totalita' della loro esistenza - allorche' hanno cercato d'indagare sul
"noi", si sono limitati ad analizzare gli aspetti sociali e culturali piu'
marginali della societa' alla quale appartengono. Per aspirare a divenire
davvero simmetrica, l'antropologia dovrebbe, invece, acquisire la capacita'
di affrontare non solo le credenze che ci sono estranee, ma soprattutto le
conoscenze, anche scientifiche, alle quali noi aderiamo totalmente (ivi, p.
125).
*
5. Riflessivita', universali transculturali e nozioni-ponte
Tutto cio' rimanda al tema della riflessivita', che, se e' stato ampiamente
accolto dall'antropologia, non sempre e' problematizzato a sufficienza,
talvolta e' semplicemente enunciato, con il rischio che anch'esso si
trasformi in una retorica. Nondimeno, aver messo in discussione
l'oggettivita' dello sguardo antropologico e la neutralita'
dell'interpretazione e della traduzione, relativizzando le stesse pratiche
della disciplina, e' stato un grande passo in avanti verso un'antropologia
simmetrica o meno asimmetrica. Almeno da Clifford Geertz in poi, per la gran
parte degli antropologi e' ormai scontato che non si tratta piu' di riferire
il punto di vista nativo, come sostenevano i primi teorici del relativismo,
ma d'interpretarlo, traducendolo in funzione delle concezioni locali e sulla
base di una "descrizione densa" delle pratiche, tale da incorporare
l'universale nel particolare (v. Ambrosi 2005).
L'antropologia ha mostrato che esistono universali - o invarianti -
transculturali e translinguistici: tutte le culture cercano di conferire
ordine e senso alla natura, alla realta' empirica, alla societa', al cosmo e
per questo hanno elaborato sistemi di classificazione e di rappresentazione
intelligenti e coerenti.
La ricerca e la valorizzazione di tali universali non e' incompatibile con
una postura relativista, tutto il contrario: la possibilita' di far emergere
degli universali e d'inventare dei dispositivi universalizzanti che rendano
possibile la comunicazione e la traduzione fra mondi culturali differenti e'
data precisamente dalla capacita' di sospendere le proprie categorie,
evitando di proiettarle su quella cultura; o almeno di farne un uso cauto e
flessibile, dubbioso e critico, accettando l'ipotesi di rimetterle in
discussione, di allargarle o perfino di abbandonarle. Il problema non e'
solo che in quelle categorie "e' sedimentata la storia culturale
occidentale", per riprendere de Martino, ma che vi si sono depositati
impensati o non-ancora-pensati, proprio perche' esse risentono della Grande
Partizione, del paradigma naturalistico, e si sono definite senza gli altri
o addirittura per opposizione agli altri. Per esempio, non tutte le
tradizioni culturali condividono nozioni o concetti quali "dio", "anima",
"anima/corpo", "spirito", "persona", "felicita'", "religione". Scoprirne la
non universalita', relativizzarli, coglierne la parzialita' e particolarita'
permette non solo di decentrarsi e di allargare la propria coscienza, ma e'
anche una condizione per la comprensione e l'analisi antropologica.
Per esempio, se, di fronte ad un certo sistema di credenze e di pratiche
rituali, adopero la categoria "chiusa" di religione, com'e'
convenzionalmente definita nell'ambito di studi specialistici, e' possibile
che neppure riesca a riconoscere la rilevanza ed a comprendere l'insieme di
certe credenze-pratiche che dovrei analizzare. Se invece assumo una postura
relativista, insieme a un atteggiamento volto all'empatia, e' probabile che
riesca ad elaborare nozioni-ponte, necessarie a tradurre ed a negoziare
significati, al fine di comprendere insieme agli altri. Per dirla con
Francois Jullien (2006), non si tratta semplicemente di abbandonare le mie
categorie per provare a pensare con la mente dell'altro, ma di compiere
l'esercizio di de-categorizzare per ri-categorizzare.
Facciamo un esempio, partendo da una premessa. Uno degli argomenti preferiti
da certi detrattori del relativismo non troppo rozzi consiste nel porre la
domanda retorica: "Si deve essere relativisti anche nei confronti di
pratiche come le mutilazioni dei genitali femminili?" (5). Per accettare la
sfida di una domanda simile, conviene intanto premettere che cercare di
rendere intelligibili un certo sistema simbolico, un certo costume, una
pratica sociale differenti dai nostri non equivale a condividerli, ad
approvarli, ad accettarli, ma a decifrarne le logiche concettuali,
simboliche, sociali ed a ricostruirne la genesi e i mutamenti storici.
Per procedere con cautela ed intelligenza, conviene interrogarsi sulla
stessa sigla Mgf: l'etichetta "mutilazioni dei genitali femminili",
legittimata dagli organismi internazionali, che vi comprendono gradi e forme
le piu' varie d'intervento, nella sua fredda, apparente oggettivita' allude
ad una deturpazione, ad una deformazione. Al contrario, per chi guardi dal
punto di vista della tradizione somala, per esempio, la circoncisione o
cucitura (com'e' denominata nelle lingue locali) - che e' parte di un
cerimoniale di passaggio - e' volta a rimodellare i corpi femminili secondo
un ideale socialmente condiviso di bellezza e di purezza.
Infatti, le stesse idee di mutilazione e di integrita'/non-integrita' dei
corpi sono relative ai diversi contesti sociali e culturali. In un buon
numero di societa' occidentali, per esempio, sottoporsi a mutilazioni
chirurgiche, anche assai gravi, al fine di correggere o mutare il proprio
sesso anatomico, e' socialmente accettato e/o legittimato come un diritto
personale.
Quest'opera di decentramento e quindi di relativizzazione delle diverse
forme di modellizzazione dei corpi, comprese le proprie, e' preliminare ad
ogni tentativo di comprensione e di analisi, ma non e' affatto sufficiente.
Limitarsi ad evocare la tradizione locale, rifugiarsi nel guscio della
descrizione e del riferimento al contesto, quando si tratta degli altri,
puo' essere l'indizio di una forma piu' sottile di etnocentrismo o almeno
un'espressione di benevolenza venata da implicita presunzione della propria
superiorita' culturale e morale; in ogni caso, puo' essere un espediente per
sfuggire ai dilemmi conoscitivi e morali di fronte a valori, costumi e
comportamenti collettivi diversi dai nostri, perfino perturbanti.
La pratica delle modificazioni dei genitali femminili, dunque, andrebbe
descritta e analizzata tenendo conto non solo delle tradizioni locali e
delle loro implicazioni socio-culturali, ma anche dei mutamenti, in alcuni
casi drammatici e sconvolgenti, che investono le aree in cui un tempo essa
era ampiamente diffusa, socialmente accettata e legittimata, con l'attivo
consenso delle donne. Insomma, sarebbe d'obbligo analizzarne gli
sfrangiamenti, la parziale perdita di legittimita', il rifiuto attivo da
parte di gruppi di donne che, in vari paesi africani, si organizzano per
persuadere altre donne ad abbandonarla e a contrastarla. E non solo: come ho
scritto altrove (Rivera 2005, pp. 81-85), sarebbe opportuno assumere,
rendere espliciti, mantenere aperti, come parte della stessa ricerca, i
dilemmi epistemologici e morali che questa pratica, come altre, ci impone.
Una volta compresa, per approssimazione, la logica concettuale, simbolica e
sociale di questo costume, una volta indagate le dinamiche attuali e il
punto di vista dei vari attori/attrici sociali, in primo luogo le donne,
potremmo proporne un'interpretazione negoziata. Potremmo perfino azzardarci
a valutare, insieme ai soggetti direttamente interessati, se, in contesti
d'immigrazione, il tentativo di "ridurre il danno" delle Mgf, favorendone
un'estrema stilizzazione, anche con il sostegno - consapevole, discreto,
rispettoso - di strutture sanitarie pubbliche, costituisca un compromesso
accettabile fra etnocentrismo e relativismo, fra rispetto dei diritti umani
e riconoscimento di peculiarita' culturali.
L'ipotetico antirelativista potrebbe obiettare polemicamente che io stessa
ho adoperato finora categorie che, pur pretendendo d'essere neutre,
puramente descrittive, recano l'impronta di una tradizione intellettuale
particolare: "sistema simbolico", "credenze", "costume", "sistema
cerimoniale", "rito di passaggio"...; e che probabilmente sono estranee ai
contesti locali cui appartengono le cosiddette Mgf. Sarebbe un'obiezione
fondata: se, infatti, volessi intraprendere una con-ricerca sulla pratica
delle Mgf in situazioni d'immigrazione dovrei predispormi a  negoziare con
le mie interlocutrici aggiustamenti, correzioni, revisioni di quelle
categorie che ci permettano di intenderci, di dialogare e di elaborare
un'interpretazione condivisa. Tutto cio' senza pretendere una traduzione
reciproca perfetta: i malintesi, le contraddizioni, le smagliature, i
dilemmi morali ed epistemologici, come ho detto, vanno integrati, resi
espliciti, tematizzati all'interno della stessa ricerca.
*
6. A parziale conclusione (politica ed epistemologica)
In una frase folgorante, a conclusione del suo intervento su "Razzismo e
cultura", pronunciato al primo Congresso degli scrittori e degli artisti
neri (Parigi, 1956), Frantz Fanon indica una strada per la soluzione del
dilemma universale/particolare: "Per concludere, l'universalita' risiede in
questa decisione di accettare la reciproca relativita' di culture diverse,
una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale" (Fanon 2006, p.
55).
A giusta ragione, egli parla non di universalismo ma di universalita', non
di relativismo ma di relativita', e subordina la possibilita' del mutuo
riconoscimento della relativita' della propria cultura ad una condizione
politica: l'abolizione dello statuto coloniale. Sarebbe scorretto astrarre
il ragionamento di Fanon dalle condizioni storiche nelle quali fu prodotto -
la rivoluzione anticoloniale algerina. Eppure quello scritto contiene un
nucleo di verita' (una verita' parziale, se volete) non solo politica ma
anche epistemologica: ammettere la relativita' della propria cultura e'
l'esito di una decisione reciproca, che presuppone una certa simmetria fra i
soggetti che la assumono; questa simmetria e' possibile in virtu' di un
processo politico: il superamento del rapporto di dominazione.
Oggi difendere cio' che ho definito postura relativista e' anzitutto un atto
politico, non solo perche' e' il tentativo di resistere ad una polemica
pubblica di segno autoritario ed etnocentrico, ma soprattutto perche' e' il
frutto di una consapevolezza guadagnata nella pratica di campo: le
condizioni storiche per sviluppare un'antropologia simmetrica e riflessiva
risiedono, in definitiva, nella prospettiva - che in gran parte trascende la
volonta' e la facolta' dell'antropologo/a - di stabilire relazioni umane,
sociali, politiche, quindi epistemologiche, connotate da relativa
uguaglianza e simmetria.
La difesa del relativismo da parte degli antropologi puo' ben poco di fronte
al disordine mondiale, all'assolutismo imperiale ed ai loro riflessi in ogni
nicchia del vivere sociale, quindi in ogni ambito della pratica etnografica;
cosi' poco da correre in ogni momento il rischio di tramutarsi in vana
declamazione retorica. Per evitare questo rischio, non si puo' che tenere
sempre aperta la dialettica fra empatia e conoscenza, fra relativizzazione e
riconoscimento reciproci, e sempre viva la tensione performativa fra la
comprensione del particolare-singolare-locale e la coscienza del
non-realizzato dell'universale.
*
Note
1. Conviene ricordare, a tal proposito, che la naturalizzazione del sociale
e del culturale e' uno dei dispositivi basilari del razzismo.
2. E' la posizione di Placido Cherchi (1997), il quale rifiuta anche "la
distinzione tra un De Martino relativista sul piano gnoseologico e un De
Martino relativista sul piano etico-deontologico" (p. 24, nota 9).
3. De Martino non sembra, pero', sfiorato dall'idea che la catastrofe del
nazismo, della persecuzione e dello sterminio sia stata precisamente la
figlia legittima della razionalita' strumentale, delle norme e degli
strumenti messi a disposizione dallo sviluppo della modernita', come
efficacemente ha ricordato Zygmunt Bauman (1992). Egli sembra condividere
l'idea, corrente al suo tempo, del nazismo come "barbarie", come irruzione
di pulsioni arcaiche e idee irrazionaliste.
4. Egli scrive: "Etablir des relations; rendre commensurable; regler des
instruments de mesure; instituer des chaines metrologiques; rediger des
dictionnaires de correspondances ; discuter de la compatibilite' des normes
et des standards; etendre des reseaux calibres; monter et negotier les
valorimetres, voila' quelque-uns des sens du mot relativisme (Latour 1997,
p. 153).
5. Scelgo non per caso questo esempio. A riproporre la polemica
antirelativista e' stata, fra le altre, la controversia pubblica che si
accese nel 2004 intorno alla proposta del medico dell'ospedale fiorentino di
Careggi, Omar Abdulcadir, direttore del "Centro per la prevenzione e la cura
delle complicanze legate alle Mgf": egli aveva suggerito di sperimentare
nelle strutture sanitarie pubbliche un'estrema stilizzazione
dell'infibulazione - una puntura di spillo - come male minore di fronte al
rischio del perdurare delle forme piu' estreme di quella pratica. La
proposta di Abdulcadir, che aveva ricevuto sostegni istituzionali
autorevoli, una volta rimbalzata sulla scena mediatica divenne oggetto di
una querelle dai toni molto accesi ed infine fu sconfitta. Per una
ricostruzione critica della controversia, si veda Pasquinelli 2007. Piu' in
generale, per un'analisi antropologica delle modificazioni dei genitali
femminili, si vedano la stessa Pasquinelli e Fusaschi 2003.
*
Riferimenti bibliografici
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resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio - I libri di Reset, Venezia.
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razionalismo e il relativismo", in: Id., Il tramonto del politico. Crisi,
rinuncia e riscatto delle scienze sociali, Dedalo, Bari, pp. 191-225.
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Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori,
Napoli.
- Dei Fabio, 1987, Le zucche del missionario Grubb. Ernesto De Martino fra
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- De Martino Ernesto, 1977 (2002), La fine del mondo. Contributo all'analisi
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Gilroy), DeriveApprodi, Roma, pp. 45-55.
- Fusaschi Michela, 2003, I segni sul corpo. Per un'antropologia delle
modificazioni dei genitali femminili, Torino, Bollati Boringhieri.
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- Todorov Tzvetan, 1989, Nous et les autres. La reflexion francaise sur la
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 256 del 4 novembre 2008

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