Minime. 628



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 628 del 3 novembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Cessi la partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista in
Afghanistan
2. 4 novembre: uscire dalla subalternita' al potere militare (2003)
3. Il 4 novembre a Viterbo: "ogni vittima ha il volto di Abele" (2003)
4. Comitato "Nepi per la pace": Opporsi a tutte le guerre, ricordare tutte
le vittime
5. Annamaria Rivera: Immaginare gli altri
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. CESSI LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLA GUERRA TERRORISTA E
STRAGISTA IN AFGHANISTAN

Scriviamolo una volta ancora: Cessi la partecipazione italiana alla guerra
terrorista e stragista in Afghanistan. Cessi la violazione del diritto
internazionale e della legalita' costituzionale.
S'impegni l'Italia per salvare le vite umane, non per sopprimerle.
S'impegni l'Italia per la pace, la democrazia e i diritti umani di tutti gli
esseri umani.
S'impegni l'Italia per il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti.
S'impegni l'Italia contro la guerra, i suoi strumenti e i suoi apparati.
Scriviamolo una volta ancora: Cessi la partecipazione italiana alla guerra
terrorista e stragista in Afghanistan. Cessi la violazione del diritto
internazionale e della legalita' costituzionale.

2. INIZIATIVE. 4 NOVEMBRE: USCIRE DALLA SUBALTERNITA' AL POTERE MILITARE
(2003)
[Riproponiamo il seguente intervento gia' apparso nel nostro foglio nel
2003]

La proposta che il 4 novembre le persone di volonta' buona impegnate per la
pace promuovano iniziative pubbliche di ricordo delle vittime delle guerre,
e commemorazioni dinanzi ai sacrari e ai monumenti ai caduti, in cui quegli
esseri umani assassinati siano onorati con l'impegno solenne ad opporsi alle
guerre ed ai loro strumenti e apparati; e in silenzio reverente e solenne, e
severo ed austero, con la mera presenza ed ascolto, si smascheri l'ipocrisia
e l'infamia del chiassoso e cialtrone festeggiare le strutture che quelle
persone hanno assassinato; e' proposta che chiama quanti hanno orecchie per
ascoltare a un gesto limpido e corale, di impegno e di esame di coscienza.
Vorremmo venisse ripresa e riproposta ovunque in Italia l'iniziativa gia'
realizzata lo scorso anno a Viterbo di una cerimonia pubblica il 4 novembre
di deposizione di un omaggio floreale e di un recarsi e sostare in
meditazione composta e silente dinanzi a lapidi e sacelli delle vittime
delle guerre, cola' rinnovando un impegno di pace perche' mai piu' nessuno
quell'atroce sorte debba subire, celebrazione in tutto alternativa alle
fanfare e alle menzogne che connotano le cerimonie in quella data promosse
in complicita' alle strutture che quelle vittime hanno assassinato.
Si puo' e si deve uscire dalla subaternita' al potere militare e promuovere
una coscienza di pace che si traduca - come peraltro gia' previsto nel
corpus legislativo italiano - nella promozione di un modello di difesa - la
difesa popolare nonviolenta - che inveri il dettato costituzionale che
"ripudia la guerra"; e che si traduca altresi' nella decisione del disarmo e
della smilitarizzazione, poiche' le armi servono a uccidere, gli eserciti
servono a uccidere, e uccidere esseri umani e' il crimine piu' grande ed
occorre che si cessi di commetterlo e di permettere che commesso sia; e che
si traduca ancora e infine in aiuto a chi di guerre e violenze e' vittima
presente ancora in vita (o potenziale e di gia' nel terrore) - un aiuto
necessario e urgente affinche' la morte e la sofferenza non lo divori, e con
lui l'umanita' intera.
Si puo' e si deve far cessare l'ignobile festeggiamento delle "forze armate"
che offende le vittime dalle forze armate assassinate; si puo' e si deve
cominciare ad agire, anche con gesti simbolici e memoriali, di
coscientizzazione propria ed altrui, di presa in carico e testimonianza
personale - come appunto anche la realizzazione da parte dei movimenti di
pace, umanitari e per la nonviolenza della commemorazione pubblica delle
vittime delle guerre -  l'idea che il quattro novembre, ricordo che non
cicatrizza della "inutile strage", cessi di essere per i pubblici uffici e
nel comune sentire occasione per una vile idolatria dei poteri uccisori e
delle ideologie della morte, e diventi piuttosto la cerimonia dell'impegno
contro le guerre e contro gli strumenti e apparati alle guerre intesi; la
festa dell'abolizione delle forze armate.
Poiche' - come ha scritto una volta Heinrich Boell - ogni vittima ha il
volto di Abele; e solo costruendo la pace si ricordano e si onorano in
commozione e devozione filiale, fraterna e sororale, le vittime di tutte le
guerre; e solo impedendo nuove guerre si adempie al messaggio che dai luoghi
al ricordo di quelle vittime deputati promana: la voce del coro degli
assassinati, che chiede ancora e ancora pace, e luce, e vita.

3. INIZIATIVE. IL 4 NOVEMBRE A VITERBO: "OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE"
(2003)
Una delegazione del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo il 4 novembre
2003, anniversario della conclusione della prima guerra mondiale, si
rechera' alle ore 8 a deporre un omaggio floreale ai monumenti che ricordano
le vittime di guerra in piazza del Sacrario a Viterbo.
Tale iniziativa, consistente nella deposizione dell'omaggio floreale e in un
minuto di meditazione silenziosa, intende essere momento di memoria e pieta'
verso le vittime di tutte le guerre e di affermazione del dovere di opporsi
a tutte le uccisioni e a tutte le guerre, nell'inveramento di quanto sancito
dalla Costituzione della Repubblica Italiana all'art. 11 laddove si afferma
nitidamente che "L'Italia ripudia la guerra".
Quanti - istituzioni, associazioni, persone - vorranno associarsi a tale
iniziativa saranno i benvenuti purche' si attengano ai seguenti criteri:
l'assoluta assenza di simboli di parte e di messaggi estranei all'intento di
memoria e pieta' per le vittime, la compostezza e il silenzio piu' rigorosi.

4. RIFLESSIONE. COMITATO "NEPI PER LA PACE": OPPORSI A TUTTE LE GUERRE,
RICORDARE TUTTE LE VITTIME
[Riceviamo e diffondiamo il seguente comunicato del 2 novembre 2008 del
Comitato "Nepi per la pace" dal titolo completo: "Celebrazioni del 4
novembre: uníoccasione per opporsi a tutte le guerre e ricordare tutte le
vittime"]

Nella lettera del 18 ottobre 1965 ai giudici del processo che lo vedeva
imputato per aver sostenuto l'obiezione di coscienza, don Lorenzo Milani,
una delle personalita' piu' limpide e coerenti della nonviolenza e figura di
riferimento per l'intero mondo della scuola italiana afferma: "Abbiamo
dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non
monografie da specialisti) e siamo riandati a cento anni di storia italiana
in cerca d'una guerra giusta. D'una guerra cioe' che fosse in regola con
l'articolo 11 della Costituzione. Non e' colpa nostra se non l'abbiamo
trovata".
E cosi' noi. Il prossimo 4 novembre assisteremo ancora una volta ai
festeggiamenti, mai termine fu piu' improprio, in ricordo della prima guerra
mondiale. Festeggiamenti esaltati dalla retorica e punto di forza della
mistificatoria propaganda di quel regime fascista che mentre sopprimeva ogni
liberta' in Italia e con le leggi razziali avviava alla deportazione i
cittadini ebrei italiani, faceva della guerra di aggressione a nazioni e
popoli il punto centrale della sua politica, con le conseguenze che tutti
dicono di conoscere ma che spesso si dimenticano.
La prima guerra mondiale fu una guerra ingiusta, come tutte le guerre,
un'inutile strage.
Le vittime italiane furono piu' di 600.000, oltre un milione i feriti e tra
questi piu' di 600.000 mutilati. I morti in totale nei paesi coinvolti nel
conflitto furono quasi 10 milioni. Tutto questo si sarebbe potuto evitare
attraverso soluzioni diplomatiche, senza alcun spargimento di sangue, come
aveva suggerito Giolitti ed e' documentato storicamente.
Oggi l'Italia e' ancora una volta un paese in guerra. Chiamiamo
ipocritamente missione di pace la guerra in Afghanistan, a cui prendiamo
parte con enorme sperpero di risorse pubbliche e disprezzo delle vite umane
dei nostri soldati e dei civili, soprattutto bambini, in aperta violazione
dell'articolo 11 della nostra Costituzione che afferma: "L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
Quello stesso articolo tanto caro a don Milani come a tutti i democratici e
alle persone che hanno a cuore la pace. Il comitato "Nepi per la pace"
insieme al Movimento Nonviolento, a Beati i costruttori di pace e Peacelink
rivolge un appello alle istituzioni, agli insegnanti, agli studenti, agli
organi d'informazione, perche' il 4 novembre diventi una giornata di studio
e di memoria, una giornata di ripudio di tutte le guerre, in ricordo di
tutte le vittime e in solidarieta' con tutte le persone e i popoli coinvolti
nei conflitti. Iraq, Israele, Palestina, Cecenia, Congo, Tibet, Afghanistan,
sono solo alcuni tra i tanti teatri di guerra nel mondo, dove si continua a
morire e che poco o nulla scuotono le nostre coscienze.
Facciamo nostro questo impegno insieme alla richiesta del ritiro immediato
dei soldati italiani dall'Afghanistan.

5. RIFLESSIONE. ANNAMARIA RIVERA: IMMAGINARE GLI ALTRI
[Ringraziamo di cuore Annamaria Rivera (per contatti:
annamariarivera at libero.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio
su "Immaginare gli altri. Etnografia e racconti di vite migranti" pubblicato
in A. De Lauri, L. Achilli ( cura di), Pratiche e politiche dell'etnografia,
Meltemi, Roma 1998, pp. 47-62.
Annamaria Rivera, antropologa, vive a Roma e insegna etnologia
all'Universita' di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani
di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la
ricerca con l'impegno sociale e politico. Attiva nei movimenti femminista,
antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi
attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l'analisi delle
molteplici forme di razzismo, l'indagine sui nodi e i problemi della
societa' pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di
concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi. Fra le opere di Annamaria
Rivera piu' recenti: (con Gallissot e Kilani), L'imbroglio etnico, in
quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001; (a cura di), L'inquietudine
dell'Islam, Dedalo, Bari 2002; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza
razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003; La guerra dei simboli. Veli
postcoloniali e retoriche sull'alterita', Dedalo, Bari 2005]

1. Biografie e soggettivita' in relazione
Oggi l'antropologia, piu' che le altre scienze sociali, e' traversata da
profondi ripensamenti e da acute incertezze metodologiche ed
epistemologiche. Il risvolto positivo di questa crisi, intorno alla quale
v'e' un dibattito aperto e interessante, mi sembra essere la propensione a
praticare il "dubbio radicale", alla maniera di Bourdieu (1992), cosa che
puo' avere anche esiti fruttuosi sul piano della ricerca e dell'analisi.
Tuttavia, nel tempo presente e' arduo definire in base a quali requisiti un
ricercatore possa definirsi un etnografo. Se mi ponessero la domanda,
risponderei, dubbiosamente, alla maniera di Ernesto de Martino: l'etnografo
e' "un cercatore di umane, dimenticate istorie". E' uno che ascolta e
registra delle storie, osserva e prende nota dei contesti in cui sono
narrate, ponendosi e considerandosi egli stesso come parte del contesto.
Forse e' solo quest'ultima postura a rendere peculiare il lavoro
dell'etnografo che aspira a fare dell'antropologia, rispetto a quello di
altri ricercatori di campo.
Secondo la mia esperienza, e' questo il modo piu' proficuo per entrare in
relazione con quelli che convenzionalmente sono detti immigrati: cercare di
costruire qualche forma di con-ricerca, che sia basata principalmente sul
metodo biografico, sulla registrazione-trascrizione-analisi di racconti di
vita. E cio' soprattutto se s'intende affrontare il tema - che a me sta
particolarmente a cuore - della dialettica fra rappresentazioni sociali dei
migranti ed autorappresentazioni.
Ritengo che questo metodo, che intende valorizzare la relazione fra le
soggettivita' implicate, compresa quella del ricercatore, possa permettere
di cogliere e di dar conto efficacemente delle identita' mobili, plurali,
tendenzialmente "ibride" di coloro che si e' soliti chiamare immigrati e di
noi stessi, ricercatori "nativi" coinvolti e sconvolti dagli effetti dei
processi detti di globalizzazione e dalla crisi delle epistemologie
tradizionali.
Sul metodo biografico nella ricerca sociale v'e' una letteratura cosi' vasta
che neppure provo a citarla. In particolare, le autobiografie, anche
scritte, e le storie di vita dei migranti costituiscono un genere ben
consolidato che, almeno in Italia, si e' affermato addirittura prima di una
sufficiente conoscenza empirica del fenomeno della "nuova immigrazione". E'
un metodo che, se ben padroneggiato, puo' permettere di sottrarsi al rischio
dell'oggettivazione ma anche della tipizzazione e dell'esemplarizzazione,
riconoscendo singolarita' e soggettivita' a chi racconta di se' (vedi Tari'
2004).
Non ci si puo' accontentare, tuttavia, di collezionare un certo numero di
autonarrazioni ben strutturate, pretendendo che da sole esse ci rivelino
qualche verita' antropologica. La condizione stessa per raccogliere storie
(o racconti) di vita e' data dalla possibilita' di creare, preliminarmente,
uno spazio comune - al ricercatore e ai suoi "oggetti" - d'intelligibilita'
condivisa, una relazione umana che sia anche scambio di significati e
processo comune di conoscenza: della propria reciproca umanita' e dei propri
mondi sociali, culturali e morali.
*
2. Empatia e immaginazione
Creare comunanza attraverso il mutuo rispetto e riconoscimento, anche delle
differenze, presuppone lo sforzo di immaginare gli altri. E questo
tentativo, a sua volta, non puo' fare a meno dell'empatia. Sulla scia della
tradizione fenomenologica dell'Einfuehlung, intendo l'empatia come una
tensione per approssimarsi intellettualmente ma anche emotivamente ai
vissuti, alle forme di vita, alle realta' sociali altrui.
Il concetto di empatia come attitudine metodologica ed euristica non e' del
tutto estraneo alla storia del pensiero antropologico. Per risalire ai
classici, basti pensare alle riflessioni di Siegfried Nadel circa i
presupposti concettuali e metodologici dell'inchiesta etnografica. Perfino
per un neofunzionalista come lui, che non aveva rinunciato alla finalita'
della costruzione di solidi modelli esplicativi, la ricerca non poteva non
passare attraverso una fase d'intensa partecipazione dell'etnografo alla
situazione data e dalla sua capacita' di esercitare una comprensione
intuitiva ed empatica "simile a quella del romanziere".
L'empatia e' una postura - oltre che un'esplicita indicazione di metodo -
che stava gia' in Ernesto de Martino (sul cui pensiero l'influenza della
fenomenologia e' ben attestata), benche' poi non sia stata sufficientemente
commentata e valorizzata, a mio parere, anche dai suoi piu' importanti
seguaci ed estimatori. Si pensi al celebre passo cui ho fatto cenno - "Io
entravo nelle case dei contadini pugliesi come un compagno, come un
cercatore di umane, dimenticate istorie..." -, un passo citatissimo ma non
abbastanza meditato, mi sembra. Se sfrondato da cio' che deve alla temperie
dell'epoca, alla fede nel "sol dell'avvenir", alle circostanze storiche, al
peculiare rapporto di de Martino con la politica del movimento operaio, quel
passo ci apparira' come una suggestione metodologica ed epistemologica
assolutamente anticipatrice: il soggetto epistemico e' anche un soggetto
affettivo, sembra dirci implicitamente de Martino.
Ma e' tutta la sua opera ad essere attraversata da temi, suggestioni,
sfumature che anticipano quell'antropologia dialogica che sembra essere oggi
l'unico modo possibile di fare antropologia: l'esplicitazione e la
valorizzazione della dialettica soggetto-oggetto della ricerca, la
persuasione dell'ineliminabilita' della soggettivita' del ricercatore e
delle sue passioni, la proposta d'una epoche' metodologica delle categorie
che gli sono familiari, per "diventare, per cosi' dire, l'etnologo di se
stesso" (1980, p. 184), infine l'impegno politico come parte profondamente
costituitiva della ricerca etnografica.
In definitiva, e pur con i limiti di un eurocentrismo che mai egli riuscira'
davvero a trascendere (vedi Rivera 2006 e 2007), in de Martino sono presenti
le premesse di temi e di posture che solo negli anni piu' recenti saranno
sviluppati: l'intensita' con la quale egli vive la "pungente esperienza
dello scandalo sollevato dall'incontro con umanita' cifrate" (de Martino
1977, p. 393), la consapevolezza che "senza il pathos del rimorso e della
colpa davanti al fratello separato" (ibidem) non vi e' possibilita' alcuna
d'incontro con i cosiddetti altri, si riflettono profondamente nella sua
ricerca di campo, nei resoconti etnografici, nella scrittura, conferendo
loro un peculiare stile "autobiografico", in quegli anni del tutto atipico
se non eccentrico.
*
3. Immaginare concretezza
Esplicito subito che, a mio avviso, converrebbe compiere lo sforzo di
alleggerire "empatia" dal carico dell'ispirazione piu' o meno scopertamente
religiosa (del tutto esplicita, nel senso del personalismo cristiano, nella
teoria della "simpatia" di Max Scheler, per esempio): un retaggio che
potrebbe indurre ad occultare l'asimmetria, l'ineguaglianza, gli scarti di
potere, in questo caso fra l'etnografo e i suoi "informatori".
Le biografie dei migranti ci restituiscono soggetti concreti alle prese non
solo con "problemi d'identita'", di ridefinizione quotidiana di strategie di
mediazione fra ambiti dell'esperienza disparati e talvolta acutamente
contrastanti, ma anche alle prese con problemi materiali, con le condizioni
d'un reale storicamente determinato che spesso non e' loro propizio.
L'empatia, quindi, non puo' riguardare solo i loro universi affettivi,
morali e culturali, ma deve permettere all'etnografo/a d'immaginare: chi
sarei io, come mi comporterei se, in un mondo dominato dal neoliberismo,
fossi nato/a nella parte "sbagliata" del pianeta e fossi costretto/a o
indotto/a ad emigrare? Come rielaborerei i miei riferimenti morali,
culturali, cognitivi, sociali se fossi un/a migrante sans papiers
obbligato/a ad un'esistenza clandestina e/o ad accettare condizioni di
lavoro semi-schiavili, in un paese che avevo immaginato piu' o meno
accogliente, civile e generoso? Quali strategie adotterei per difendermi
dalle immagini negative di me stesso/a che mi restituisce la societa'
d'arrivo? Come riadatterei le mie affiliazioni sociali e i miei referenti
identitari in una situazione caratterizzata da precarieta' materiale,
incertezza di status, rifiuto od ostilita' sociale?
*
4. Immedesimazione/distacco critico
L'empatia non va intesa, ingenuamente, come volontaristica assimilazione al
proprio "oggetto", semmai si configura come uno sforzo, una meta, un
processo dialettico fra immedesimazione e distacco critico. Ingenuo,
illusorio, scarsamente operativo sarebbe pensare che l'empatia annulli la
distanza fra se' e l'altro. Nessuna relazione intersoggettiva puo' essere
del tutto trasparente, meno che mai quella fra l'etnografo/a e i propri
"oggetti" d'indagine, che solitamente e' connotata da qualche forma e grado
di asimmetria, piu' o meno accentuata: per quanto si cerchi di realizzare
un'etnografia dialogica che riduca l'asimmetria, le relazioni di potere
restano piu' o meno differenziali. Ne' l'identificazione sarebbe
auspicabile: e' la dialettica fra immedesimazione e distacco che mi permette
di familiarizzare l'estraneo e relativizzare il familiare.
Nel nostro caso, l'estraneo non e' veramente tale: sono piuttosto le sue
rappresentazioni sociali a restituirlo connotato da qualche forma
d'alterita' irriducibile; a renderlo esotico e' l'immagine dominante d'una
modernita' con un solo volto, quello occidentale.
Alla luce dell'esperienza, penso che la dialettica "familiarizzare
l'estraneo / relativizzare il familiare" vada resa piu' problematica e
complessa: le biografie dei migranti spesso ci restituiscono un altro volto
di cio' che ci e' familiare e un'altra dimensione di cio' che ci e' divenuto
estraneo e che ci era familiare.
Una parte considerevole delle biografie dei migranti ci parlano, infatti, di
valori, norme collettive e stili di vita tanto familiari quanto rimossi
dalle nostre pratiche sociali e dal nostro immaginario: solidarieta',
convivialita', reciprocita', logica del dono appartengono alla nostra stessa
storia, tanto quanto l'etica del lavoro e del sacrificio, il familismo, la
segregazione femminile in spazi - anche di potere - privati.
Non si tratta di riesumare il vecchio paradigma di stampo evoluzionista che
interpretava valori, costumi e pratiche sociali degli altri quali
sopravvivenze, attardamenti che noi ci saremmo lasciati alle spalle per
sempre, ma di cogliere dimensioni che la ruspa della modernita' neoliberista
ha artificiosamente seppellito o svalorizzato, senza estirparne del tutto le
radici, per cosi' dire.
Una delle molte e complesse ragioni della xenofobia puo' essere individuata
nel fatto che una parte considerevole dei migranti siano percepiti, sia pur
confusamente, come estranei e incompatibili con l'etica "edonistica"
dominante e con l'illusione della raggiunta prosperita': essi ricordano un
passato "di sacrifici" che si e' voluto rimuovere e che pure ritorna sotto
le sembianze delle tante esistenze che contraddicono il racconto delle
magnifiche sorti e progressive.
E a proposito dell'altro volto di cio' che ci e' familiare: solo per fare un
esempio, le biografie dei migranti ci costringono a prendere atto d'una
capacita' individuale di padroneggiamento dei piu' avanzati strumenti di
comunicazione molto piu' elevata e diffusa della nostra, che spesso agisce
come fattore non gia' di atomizzazione sociale ma d'incremento di relazioni
e affiliazioni sociali. Non tenerne conto ci impedirebbe di comprendere che
quelle che approssimativamente - e spesso arbitrariamente - definiamo
"tradizione" e "modernita'" non sono polarizzazioni antinomiche, ma stanno
in un rapporto di stretta interconnessione.
*
5. Riflessivita'
Tutto cio' rimanda al tema-chiave della riflessivita'. La riflessivita'
esige che il testo etnografico - anche allorche' e' costituito da una
raccolta commentata di storie di vita - contenga un resoconto delle concrete
condizioni di produzione di quella specifica conoscenza e dei modi
attraverso i quali si sono create e sviluppate relazioni dialogiche (Marcus
2000, pp. 69-70).
Non dobbiamo nasconderci, tuttavia, che "riflessivita'" sembra essere
divenuta oggi una parola tanto inflazionata da suonare come una formula
magica, che basterebbe pronunciare per risolvere incertezze e crisi
metodologiche ed epistemologiche. In realta', come avverte opportunamente
Michael Hertzfeld (2006, p. 56), la riflessivita' e' in un certo senso un
lusso che puo' permettersi solo l'etnografo/a: un lusso spesso
auto-indulgente.
Per attenuare il rischio che anch'essa divenga una retorica, occorre che
l'etnografo/a metta in discussione i propri assunti culturali e si dia la
pena d'illustrare l'incontro etnografico e i suoi limiti: basandosi
"sull'imperfetta connessione di due codici differenti" (ibidem), l'incontro
comporta sempre esitazioni, dubbi, fallacie, perfino insuccessi. Si aggiunga
che la reciprocita' non sempre e' garantita: per quanto l'etnografo/a sia
ben intenzionato a porsi in relazione empatica con i propri "informatori",
non e' scontato che incontri un'eguale attitudine positiva (Vianello 2007,
p. 161).
*
6. Mobilita'/confinamenti
E' opportuno rimarcare l'importanza di non disgiungere l'interrogazione sui
temi riguardanti referenti e processi culturali e strategie identitarie
dalla considerazione delle condizioni economiche, sociali, di status - e
dall'assunzione della categoria di classe - per non correre il rischio
dell'esaltazione, comune a tanta antropologia postmoderna, di soggettivita'
nomadiche felicemente coinvolte in va-e-vieni territoriali e identitari. La
stessa, piu' pensosa, riflessione sulle "trasmigrazioni" e sulla liminarita'
culturale spesso trascura "il grado in cui i trasmigranti restano legati
alla nazione, alla cultura, all'etnicita' e, non da ultima, alla loro classe
d'appartenenza" (Grillo 2006, p. 108).
Occorre non dimenticare che "l'ecumene globale" e' dominato dal
neoliberismo, come soggiunge opportunamente Grillo (ivi, p. 117), e che ai
"trasmigranti" spettano per lo piu' lavori flessibili, informali, precari,
deregolati. Il che puo' produrre condizioni di perenne illegalita' e
incertezza e/o la scelta del definitivo ritorno in patria; o ancora "il
continuo spostamento, nel corso di tutta la vita, tra un paese e l'altro,
una citta' e l'altra, un lavoro e l'altro". E cio' determina la formazione
di "un perpetuo e clandestino sotto- o semi- proletariato transnazionale"
(ivi, p. 119).
Lo stesso concetto di trasmigrazione, sebbene piu' atto a cogliere i
caratteri delle migrazioni odierne, potrebbe indurre a trascurarne il
risvolto tragico: dietro chi ce l'ha fatta v'e' la scia dei cadaveri di
coloro che non sono riusciti neppure ad emigrare - altro che trasmigrare! E
la transnazionalita' - un'altra parola-chiave delle indagini
socio-antropologiche sulle migrazioni globali - e' una pratica che possono
permettersi solo quei migranti che sono riusciti, piu' o meno
avventurosamente, piu' o meno legalmente, a guadagnare l'altra sponda.
Si pensi alla condizione paradossale dei migranti subsahariani: condizione
transmigrante per eccellenza, ma in un senso assai diverso da quello
conferito dall'ottimismo d'una certa letteratura postmoderna. Le nuove
misure europee di controllo e di repressione dell'immigrazione detta
clandestina e l'esternalizzazione delle frontiere in paesi della sponda
meridionale del Mediterraneo impediscono loro sia di lasciare il suolo
africano sia di sostare in paesi africani che non siano i propri, dai quali
ultimi, peraltro, sono costretti a fuggire. In tal senso essi sono i forzati
della trasmigrazione, costretti come sono a vagare per mesi o per anni sul
territorio africano, violando avventurosamente le frontiere, nella speranza
di poter un giorno guadagnare la sponda "buona" del Mediterraneo.
E' dunque opportuno rimarcare che la liberta' di movimento e' consentita
solo a una minoranza degli abitanti del pianeta: la consistente maggioranza
della popolazione mondiale e' costituita da "forzati dell'immobilita'"
(Cuttitta 2007, p. 10), dei quali i piu' sono giovani. Per loro e'
"impossibile superare nella materiale effettivita' della vita reale quelle
stesse distanze spaziali (...) che la globalizzazione del processo
tecnologico ha invece ridimensionato, o addirittura annullato sul piano
virtuale" (ibidem).
La proliferazione e la delocalizzazione di confini e frontiere, materiali e
immateriali, territoriali e di status, e' anche la risposta reattiva ai
milioni, di giovani soprattutto, che non si rassegnano ad accettare la
stridente contraddizione fra una mobilita' virtuale sconfinata e l'obbligato
confinamento entro le frontiere nazionali.
*
7. Ordinario/eccezionale
E' anche per queste ragioni che la con-ricerca basata sul metodo biografico
ci costringe a confrontarci con il tema della dialettica ordinario
/eccezionale.
Come e' ben noto, la maggior parte dei migranti che risiedono in Italia da
"regolari" sono stati "clandestini". Il che vuol dire che chi e' riuscito ad
approdare nel nostro paese ha dovuto, piu' o meno rischiosamente, violare
confini e frontiere, insomma compiere un tragitto esistenziale che si
colloca nella sfera dell'eccezionale. L'eccezionale puo' apparirci sotto le
sembianze dell'ordinario solo perche' le politiche, la propaganda e quindi
il senso comune hanno naturalizzato un fatto squisitamente storico: il
configurarsi di "un mondo-frontiera" (Cuttitta 2007), nel quale i confini
s'infittiscono divenendo sempre piu' complessi, variegati  e disseminati. E'
solo per assuefazione da martellamento mediatico che si puo' ormai percepire
come ordinario lo stillicidio di storie d'esodi rischiosi, avventurosi o
fatali.
Non fosse altro che per questo, l'etnografo/a che cerca, fra i migranti,
storie di ordinary people, si trova spesso al cospetto di biografie
eccezionali o vissute come tali. D'altro canto, lo stesso autonarrarsi e'
sempre una forma d'individuazione, di distinzione o addirittura un atto
sovversivo rispetto al proprio ambiente sociale. Nel caso dei migranti lo e'
anche rispetto alla tendenza dominante nella societa' d'approdo a
cancellarli come individui e persone, annegando la singolarita' di ciascuno
nel mare magnum di categorie culturali, etniche o addirittura razziali,
astratte e spesso modellate su pregiudizi, stereotipi, cliche'.
Come nel caso delle tante storie di vita, orali e scritte, delle "classi
subalterne", raccolte in Italia fra gli anni Sessanta e Ottanta, anche, e
forse di piu', le biografie dei migranti sembrano attraversate dal tentativo
di opporre la vita alla storia attraverso il desiderio (Tari' 2004) o
comunque per mezzo di un atto volontaristico: che sia per desiderio di
conoscenza, di una vita migliore, di un lavoro piu' libero e remunerativo,
di una societa' meno oppressiva, oppure che sia per l'atto, sempre in
qualche misura deliberato, della fuga da guerre, catastrofi, pericoli,
minacce, migrare e' perseguire un avvenire diverso dal destino assegnato
dalla storia e dalla geografia.
E' un tema tanto importante quanto trascurato da quegli studi che
prediligono una lettura "idraulica" delle migrazioni, considerandole effetto
di cause esclusivamente oggettive, economiche e/o demografiche, invece di
considerarle anche come la somma d'innumerevoli storie individuali, progetti
personali, traiettorie esistenziali. Che si tratti delle diaspore coatte di
coloro che fuggono da conflitti, persecuzioni, eventi catastrofici, oppure
degli esodi individuali di soggetti che aspirano a dare una nuova
prospettiva alla propria esistenza, migrare implica sempre un atto
deliberato di sottrazione a condizioni intollerabili o vissute come tali.
*
8. "Comunita'"/"cultura"/"campo"
Puo' considerarsi etnografica una ricerca basata su storie di vita, nella
quale il campo, classicamente inteso, non e' centrale o comunque e'
costituito, per cosi' dire, da un insieme di "piccoli campi"? Una ricerca
nella quale, per meglio dire, in fondo e' il narratore della propria storia
che definisce il "campo" o i campi dell'etnografo/a?
Faccio un esempio. Se ho deciso di raccogliere racconti di vita fra migranti
magrebini che hanno compiuto una doppia migrazione - dal proprio paese al
Sud d'Italia e da qui al Nord, dalla condizione di braccianti informali o
venditori ambulanti a quella di operai nell'industria - come si configurera'
il mio "campo"? Anzitutto sara' necessariamente multilocale. In primo luogo
perche', come ci ha insegnato Abdelmalek Sayad (2002), emigrazione e
immigrazione sono due facce della stessa medaglia - l'immigrato e' anche un
emigrato - e dunque l'antropologia dell'immigrazione non puo' che essere
anche un'antropologia dell'emigrazione. In secondo luogo, perche' la
transnazionalita' non ha solo una dimensione spaziale e territoriale, ma
anche una forte valenza sociale e relazionale: le affiliazioni familiari ed
amicali d'origine s'intrecciano, in modi spesso assai complessi e intricati,
con le nuove affiliazioni, formali e informali, che si creano nella societa'
d'approdo.
Questo intreccio appare ancora piu' denso nella tipologia specifica alla
quale ho fatto cenno: in questo caso, la scala della comunita'
sentimentale - quella in cui, nella percezione e raffigurazione soggettiva,
s'intrecciano affetti, ricordi, nostalgie, relazioni - va dal luogo
d'origine alla citta' o paese del Sud d'Italia in cui si sono vissuti i
primi anni da "immigrato", spesso "clandestino", fino alla citta' del Nord
dove si e' realizzato il proprio "progetto" migratorio divenendo salariati e
riuscendo cosi', in molti casi, a formarsi anche una famiglia. Di solito,
quest'ultimo e' il livello "piu' freddo" della scala sentimentale.
Introdurre l'aggettivo "sentimentale" puo' forse contribuire a de-reificare
e rendere piu' fluide nozioni quali "comunita'" e "reti", anche per mezzo
dell'esercizio dell'immedesimazione: se dovessimo descrivere le nostre
affiliazioni e relazioni sociali, parleremmo di "comunita'" e di "reti"?
Oppure descriveremmo selettivamente la molteplicita' variegata delle
relazioni che per noi contano, la loro pluralita' nello spazio, nel tempo,
nella memoria, nell'intensita' affettiva, nell'importanza anche strumentale?
Probabilmente faremmo riferimento al nostro entourage familiare, se ne
abbiamo uno, ma anche ai rapporti d'amicizia, di solidarieta', d'aiuto
reciproco - nel paese in cui viviamo e in quelli che frequentiamo - infine,
alle relazioni professionali, di lavoro, d'impegno sociale o politico...
Sicuramente non parleremmo di "comunita'".
La crisi della nozione sociologica di "comunita'" e' in stretta connessione
con la crisi dei concetti antropologici di "cultura" e di "campo", entrambi
legati a un'epoca dominata dai nazionalismi, dalla centralita' dello
Stato-nazione, dal colonialismo, dalla presenza di luoghi definiti,
territori circoscritti, radicamenti piu' o meno stabili e profondi. Oggi, la
rilevanza dei fenomeni e processi di transnazionalita', di
deterritorializzazione, di circolazione su scala planetaria non solo di
merci e capitali, ma anche di persone, messaggi, segni, simboli, rende piu'
arduo ritrovare e soprattutto pensare delle "comunita'" - se non
immaginate - ma anche "culture" e "campi", cioe' unita' di analisi
coincidenti con dimensioni spaziali ben definite e delimitate. Se e' vero
che la relazione fra l'antropologia e la localita' - intesa nei suoi aspetti
contestuali, relazionali, simbolici - e' stata una relazione reciprocamente
costitutiva, oggi in crisi (Appadurai 2001; Auge' 1997), credo che anche il
"campo" etnografico vada radicalmente ripensato.
*
9. Antropologia e senso comune
Un'ultima notazione si puo' fare, a sostegno della scelta di privilegiare il
metodo biografico nella ricerca con i migranti.
La ricostruzione, concordata e negoziata, del percorso di vita del soggetto,
per cogliere la sedimentazione della vita sociale nella sua storia
individuale, oggi sembra uno strumento analitico d'una certa efficacia anche
alla luce di un'ulteriore considerazione: nell'epoca dell'informazione
elettronica globale e della crisi tanto della "comunita'" quanto "di
qualsivoglia radicata 'arte della memoria'", le rappresentazioni collettive
sembrano essere "filtrate con la massima efficacia attraverso
rappresentazioni personali", piuttosto che attraverso riti collettivi e
performance pubbliche (Marcus 2000, p. 72).
Ancora: questo genere di ricerca, assumendo come centrale il tema della
dialettica rappresentazioni/autorappresentazioni dei migranti, finisce
inevitabilmente per assumere una valenza non solo conoscitiva ma anche
politica: e', fra l'altro, un dispositivo per decostruire la retoriche
correnti che reificano culture e identita', quando non inventano "razze", e
imprigionano gli altri entro le gabbie di etichettamenti, di definizioni
spesso svalorizzanti.
La con-ricerca si configura dunque anche come una decostruzione pratica
della categoria di "immigrati": una categoria totalizzante che, come ha
osservato Etienne Balibar (Balibar, Wallerstein 1990, pp. 294-295), combina
criteri "etnici" (relativi alla provenienza e alla supposta lontananza o
alterita' culturale) con criteri di classe, ed e' per cio' niente affatto
neutra. "Immigrati" non si e', si diventa nel momento in cui si e' catturati
all'interno del sistema di potere, di norme e di modelli attraverso i quali
la societa' d'approdo costruisce, in modi cangianti, la figura del migrante:
con le leggi, le norme scritte, le convenzioni non scritte, e attraverso i
mezzi di comunicazione e informazione, fra i maggiori, piu' efficaci e
performativi veicoli e costruttori di retoriche convenzionali e di
rappresentazioni negative degli altri.
E, poiche' sono i dispositivi legislativi, nazionali e internazionali a fare
gli "immigrati", e' improbabile che si possa fare della buona etnografia
delle migrazioni senza una loro conoscenza approfondita.
Se, sulla scia di Michael Hertzfeld (2006), intendiamo l'antropologia come
critica sistematica e studio comparativo del senso comune, la comparazione
fra le rappresentazioni sociali e le autorappresentazioni dei migranti quali
emergono dalle loro biografie non solo puo' contribuire a decostruire
pregiudizi e luoghi comuni, ma puo' altresi' configurarsi come un piccolo
tassello di quel "discorso di resistenza critica nei confronti dell'egemonia
concettuale e cosmologica di questo senso comune globale" (ivi, p. 17) che
Hertzfeld auspica divenga l'antropologia.
*
Riferimenti bibliografici
- Appadurai A., 2001 (1996), Modernita' in polvere, Meltemi, Roma.
- Auge' M., 1997 (1994), Pour une anthropologie des mondes contemporains,
Flammarion, Paris.
- Balibar E., Wallerstein I., 1990 (1988), Razza, nazione, classe. Le
identita' ambigue, Edizioni Associate, Roma.
- Bourdieu P.,1992, Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati
Boringhieri, Torino.
- Hertzfeld M., 2006 (2001), Antropologia. Pratica della teoria nella
cultura e nella societa', Seid, Firenze.
- Cuttitta P., 2007, Segnali di confine. Il controllo dell'immigrazione nel
mondo-frontiera, Eterotopie-Mimesis, Milano.
- De Martino E., 2002 (1977), La fine del mondo. Contributo all'analisi
delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino.
- De Martino E., 1980 (1962), Note lucane, in: Id., Furore, simbolo, valore
(introduz. di L. M. Lombardi Satriani), Feltrinelli, Milano, pp. 171-185.
- Grillo R., 2006, Betwixt and Between: traiettorie e progetti di
transmigrazione, in: M. Benadusi (a cura di), Dislocare l'antropologia.
Connessioni disciplinari e nuovi spazi epistemologici, Quaderni del Ce.R.Co,
Guaraldi, Rimini, pp. 105-131.
- Marcus G., 2000 (1994), Dopo la critica dell'etnografia: la fede, la
speranza e la carita', in: R. Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale
oggi, Meltemi, Roma, pp. 64-77.
- Rivera A., 2006, De Martino e Basaglia: la dialettica del se' e
dell'altro, in "Il de Martino", n. 18 (2006), pp. 17-28.
- Rivera A., 2007, Storie etnografiche e "culture subalterne", in Adamo S.
(a cura di), Culture planetarie? Prospettive e limiti della teoria e della
critica culturale, Meltemi, Roma, pp. 111-132.
- Sayad A., 2002 (1999), La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato
alle sofferenze dell'immigrato, Raffaello Cortina, Milano.
- Tari' M. (a cura di), 2004, "Qui noi viviamo". Migranti. Storie di vita,
in "Il de Martino",  n. 15 (novembre 2004).
- Vianello M., 2007, La spada di fuoco, Dedalo, Bari.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 628 del 3 novembre 2008

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per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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