Minime. 619



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 619 del 25 ottobre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. La domandina del facinoroso
2. Diana Napoli: La strana disfatta. Elegia sulla fine della cultura
3. Per il 4 novembre giorno di lutto
4. Luigi Cancrini: La schiava
5. Le anime belle
6. Il poker e il bluff
7. Nicola Tranfaglia ricorda Vittorio Foa
8. Enrico Peyretti presenta "Tutto me stesso prima di morire" di Carlo Massa
9. Enrico Peyretti presenta "La mia vita per la pace" di Max Josef Metzger
10. Enrico Peyretti presenta "Un cattolico a modo suo" di Pietro Scoppola
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. ULTIMORA. LA DOMANDINA DEL FACINOROSO

Gentile, egregio, illustre signor il Presidente,
a presentar domanda vengo con la presente
a un posto anche part-time come facinoroso.

Del santo manganello, del tosto sfollagente
so l'uso, e meno pugni come se fosse niente:
mi assuma, gesummio, che sono bisognoso.

Se penso a certa gente che lei ministri ha fatto
(e c'e' chi si e' creduto che fosse uscito matto)
mi dico: che mi manca? anch'io sono un razzista

mi dia quest'occasione che sara' soddisfatto
chissa' che poi un domani se bene m'arrabatto
mi trova un portierato, o mi fa giornalista.

2. EDITORIALE. DIANA NAPOLI: LA STRANA DISFATTA. ELEGIA SULLA FINE DELLA
CULTURA
[Ringraziamo Diana Napoli (per contatti: dianastoria at hotmail.com) per questo
intervento]

A cosa serve la cultura?
Serve a fare un "Auto da fe'". Serve a dare alle fiamme una biblioteca
impestata dalle ombre di una gonna blu inamidata.
Kien incendia la sua biblioteca ridendo: la nobile e alta cultura, un
importante sistema filosofico da Confucio ad Aristotele, l'Oriente e
l'Occidente, nelle fiamme sotto un soddisfatto sorriso, l'ironico sorriso di
chi scopre che la cultura non rende forse piu' umani.
A cosa servono i mirabili sistemi filosofici? Tutti i Kant, tutti gli
Spinoza, e Rosalyn Tureck che suona Bach e Dante e Rousseau e Walter
Benjamin e Adorno? Hanno forse impedito la disfatta? Dove sono? E dove sono
mai coloro che li hanno letti?
Minima Moralia.
Non so cosa accadra' della scuola pubblica italiana, di certo il bilancio
non e' lusinghiero, considerando i risultati attuali: una democrazia che va
a scuola "in massa" da mezzo secolo e che ha eletto una classe dirigente le
cui priorita' educative sono state le classi differenziate per stranieri, i
tagli e le proposte per cui i piemontesi in Piemonte, i liguri sul mare e
guai ai non lombardi che varcano le soglie della Lombardia.
Noi siamo andati a scuola e ci siamo innamorati dell'uomo finalmente libero
di Rousseau. Abbiamo sorriso sulla nostra finta salute che Italo Svevo ha
smascherato, ci siamo smarriti sulle letture freudiane di Michel de Certeau,
abbiamo seguito i parcours de la reconnaissance di Ricoeur e abbiamo
protestato per una protesta che non continuava insieme a Jean Amery. Abbiamo
pianto il suo suicidio come sulla banalita' del male, ci siamo persuasi che
la Giustizia era stata violata e ogni volta ne abbiamo sofferto e lo abbiamo
detto, scritto, letto e cercato di insegnarlo.
Abbiamo creduto che il sapere fosse la sola corazza possibile dell'uomo.
Abbiamo pensato che il nichilismo potesse essere sorpassato: che la
scrittura continuasse a marcher attraverso l'Europa nei libri di Sebald, che
luoghi come Newark non esistessero solo per ospitare in una fugace notte
d'amore la nascita dell'infelice terrorismo di Miriam. Che potesse esserci
la possibilita' di profferire un giudizio estetico, che si potesse
finalmente trovare un concetto che ci permettesse di riappropriarci di una
finalita' del mondo. Abbiamo creduto che, nei momenti di sconforto, i nostri
passi stanchi fuggenti vestigia umane stampate sull'arena avrebbero seguito
la nostra solitudine pensosa. Abbiamo creduto che gli uomini non partissero
mai da zero. Che possedessero l'idea del bene perche' l'hanno contemplata e
non si puo' contemplare il bene e scordarsene del tutto: una sua traccia
rimarra' sempre a indicarci la bellezza.
Abbiamo creduto che le filastrocche di Rodari potessero essere lette anche
dai grandi e che i morti si commemorano solo per amore dei vivi. Abbiamo
conservato l'ultimo discorso di Matteotti al Parlamento, nella quasi
certezza che non avremmo piu' letto di simili sedute. Siamo stati grati alla
Resistenza e a chi e' stato in grado di tramandarcene il tesoro e
conserviamo nella nostra biblioteca di Kien tutti i Marc Bloch, i Vercors, i
Rene' Char, i Primo Levi, republiques du silence e Benjamin che pure decise
di morire prima. Abbiamo letto Pierre Vidal-Naquet e Castoriadis. Abbiamo
commemorato Piero Gobetti e letto Saviano che ha "fatto" lo scrittore.
Abbiamo perso un sacco di tempo. Dovremo bruciare le nostre biblioteche e
portarle al monte di pieta', farci curare al sanatorio "lassu'" dove il
tempo non scorre insieme alle lancette dell'orologio e sederci in compagnia
di Hans Castorp e vedere come tutto l'umanesimo si sbriciola sotto i colpi
del fallimento.
Dovremmo smetterla di passeggiare alla sera nei pochi luoghi privi di
illuminazione per provare la serenita' di connettere con semplice sentimento
della nostra esistenza il cielo stellato sopra di noi, che abbiamo amato
guardare e che amiamo pensare come sarebbe visibile pienamente in un luogo
come Barbiana, e la legge morale in noi.
Abbiamo perso il nostro tempo. Vedremo bruciare sub speciae aeternitatis i
versi di Paul Celan e confesseremo finalmente, tra le fiamme, la nostra
ignoranza e la nostra disumanzzazione quasi totale e il nostro fallimento di
fronte all'incedere di confini che avevamo dimenticato potessero esistere,
di fronte a mozioni che parlano, senza vergogna e sorridendo soddisfatti, di
"discriminazione positiva e temporanea". Il sapere non servira' nemmeno di
conforto, perche' lo daremo alle fiamme e lo vedremo finalmente ridursi in
cenere perche' in ogni caso siamo arrivati in ritardo e, come per il
condannato a morte di Weiss, la luce e' sempre piu' debole e la carta su cui
scrivere e' oramai terminata.
Abbiamo atteso davanti alla legge e ci e' stata sussurrata dal guardiano
della grande porta la sentenza: la soglia ci era solo destinata ed e'
inutile attendere ancora. Ridiamo mentre vediamo le fiamme levarsi, ridiamo:
"le rire peut parfois sembler barbare. Admettons. Il n'empeche que
l'individu peut de temps a' autre donner un peu d'humanite' a' cette masse
qui la lui rendra un jour avec usure" (Walter Benjamin).

3. ANNIVERSARI. PER IL 4 NOVEMBRE GIORNO DI LUTTO

Fini' quell'inutile strage
giurarono i superstiti: mai piu'.

Altre ne vennero poi
ed oggi ancora.

Non vi sara' salvezza per l'umanita'
se non si aboliscono le armi
se non si aboliscono gli eserciti
se non si ripudia per sempre la guerra.

4. RIFLESSIONE. LUIGI CANCRINI: LA SCHIAVA
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 24 ottobre 2008 col titolo "Un monumento al
clandestino"]

La prostituta nigeriana che fugge di fronte ad un'auto della polizia e muore
travolta da un'auto che va per la sua strada e che nulla poteva fare per
evitare questo incidente dovrebbe diventare, in una nazione davvero civile,
il simbolo del tempo che stiamo vivendo. Un tempo amaro e crudele.
Parigi 1793. I giacobini (la parola che tanto odio suscita in chi oggi da
destra ci governa) ottengono dall'Assemblea nazionale la legge che riconosce
pari diritti, nella Repubblica nata dalla rivoluzione, ai neri e ai bianchi,
ai colonizzatori e ai colonizzati, abolendo di fatto e per la prima volta
nella storia dell'uomo la schiavitu'. Una schiavitu' che sembrava naturale
negli Stati Uniti e nell'Inghilterra dove tanto pur si parlava di
democrazia, che non creava problemi alla Chiesa Cattolica ne' alle altre
religioni e che fu presto ristabilita in Francia da Napoleone: al tempo in
cui Beethoven cancello' la dedica della Sinfonia n. 3, Eroica, fatta al
nuovo imperatore dei francesi, strappando, per la rabbia, la prima pagina
della sua partitura. Una schiavitu' di cui noi cittadini europei pensavamo
fosse scomparsa. Una schiavitu' di cui la povera ragazza nigeriana ci dice
che esiste ancora. Di cui lei puo' essere considerata un simbolo.
Schiavo era, finche' la schiavitu' era in vigore, un essere umano privo di
diritti formali (il diritto di cittadinanza e dunque di voto e di
partecipazione alla cosa pubblica) e sostanziali (alla salute e alla casa,
al lavoro e all'istruzione). Riconosciuti dalla nostra Costituzione ai
cittadini italiani ed europei, questi diritti sono riconosciuti solo in
parte e solo per la parte che riguarda i diritti sostanziali agli emigrati
regolari. Non sono riconosciuti affatto a quelli irregolari di cui si
dimentica tranquillamente (cinicamente, irresponsabilmente) la vicenda (il
dramma) che li ha spinti a cercare la solidarieta' di uomini e di donne nati
in luoghi piu' protetti (da Dio, dalla fortuna, dal capitale) e che sono da
questi costretti a vivere in una condizione perfettamente analoga (e a volte
perfino peggiore) a quella degli schiavi. Immersi in una spirale di odio e
di diffidenza. Travolti perfino dal punto di vista di quello che un tempo
era "il diritto", dalla follia (apparentemente) lucida dei governanti di un
Paese che e' arrivato a considerare reato o almeno aggravante di reato la
loro richiesta d'aiuto (o di asilo). Il loro investire quello che hanno in
un viaggio della speranza destinato a distruggere, in una gran parte dei
casi, tutti i loro sogni. Dando fondo a tutte le loro risorse.
E' in questa luce che, ancora una volta, dobbiamo valutare il significato
simbolico di questa morte. L'unica risorsa di cui disponeva la povera
ragazza di cui nessuno sa neanche il nome erano i suoi vent'anni e la
capacita' del suo corpo giovane di suscitare un interesse sessuale negli
uomini del paese in cui sognava di arrivare. Vendere il proprio corpo per la
strada con l'aiuto interessato dei delinquenti che sfruttavano la sua
vergogna e la sua sconfitta era, per lei, l'unica possibilita' di realizzare
il suo sogno. Il suo progetto. Osservata da questo punto di vista la vicenda
e' il simbolo della condizione della donna e di tanti bambini del terzo
mondo per cui prostituirsi, oggi, e' un tentativo disperato di sopravvivere:
per se' o per la propria famiglia di origine quando chi ti compra paga
qualcosa ai tuoi genitori o i tuoi fratelli. Dicendoti chiaro, come in tanti
casi e' stato provato, che chi ha ricevuto dei soldi per il tuo sacrificio
potrebbe subire gravi danni per la tua colpa se tu da chi ti ha pagato
tenterai un giorno di liberarti. Di fuggire.
L'ultimo riferimento di ordine simbolico della vicenda sta nel contrasto
forte fra la freddezza della notizia giornalistica o televisiva e il vero e
proprio dramma vissuto dalle persone che hanno investito e ucciso la ragazza
che fuggiva.
Come se solo la vicinanza alla sofferenza e al corpo della persona potesse
dare il senso dell'immensita' della tragedia in cui tutti siamo immersi: di
cui riusciamo a non accorgerci e a non sapere finche' il caso non ci mette
di fronte al modo in cui la tragedia si fa ferita o morte, urlo di dolore o
silenzio rassegnato. Interrompendo per un attimo, per poche persone, il
sogno in cui tutti abbiamo bisogno di credere: l'idea di una societa'
giusta, in cui queste cose non esistono, in cui la schiavitu' non esiste
piu' da tempo. L'idea e il sogno che sono gli alleati piu' potenti di tanti
(troppi) che oggi ci governano spingendo la gente (che vota) a non vedere e
non pensare.
L'idea folle che nasce da tutte queste riflessioni potrebbe essere quella
che si basa sul bisogno opposto, il bisogno di vedere e di ricordare.
Erigendo un monumento all'emigrato clandestino nel luogo di questa tragedia.
Dando il nome della ragazza nigeriana morta in questo modo assurdo ad una
strada della citta' piu' vicina al luogo della sua morte.

5. EDITORIALE. LE ANIME BELLE

Le anime belle che si indignano con Colin Powell che ammette oggi il tragico
errore dello scatenamento della guerra in Iraq che tuttora perdura.
Sono le stesse anime belle che da anni appoggiano la guerra in Afghanistan,
la guerra terrorista e stragista in Afghanistan, la guerra cui anche
l'Italia partecipa in violazione della sua legge fondamentale e del diritto
internazionale.
Quando al tempo del governo Prodi le anime belle si prostituirono alla
guerra, ritennero la legalita' costituzionale una variabile dipendente,
accettarono di essere mandanti e complici delle stragi, allora, gia' allora,
si fecero complici del fascismo e del crimine organizzato, del terrorismo di
stato e di banda, della guerra nemica dell'umanita'.
La loro indignazione per le malefatte altrui non giova a occultare il
crimine loro.
Crimine per il quale tanti sedicenti pacifisti e fin pretesi nonviolenti non
hanno ancora pronunciato una sola parola di pentimento, cosi' continuando ad
essere non solo i complici fedeli serventi delle stragi che proseguono
ancora in Afghanistan, ma anche i mallevadori e i maggiordomi del dispiegato
eversivo banditismo oggi al potere nel nostro stesso paese contro la stessa
popolazione italiana.
*
Occorre opporsi alla guerra.
Occorre chiedere l'immediato ripristino della legalita' costituzionale.
Occorre battersi per il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti.
Occorre scegliere la giustizia e la solidarieta' con l'umanita' intera.
Occorre scegliere la verita', la forza della verita', la nonviolenza che
sola puo' salvare l'umanita' in questa tragica distretta.

6. HIC ET NUNC. IL POKER E IL BLUFF
[Riportiamo il seguente comunicato del 24 ottobre 2008 del comitato che si
oppone all'aeroporto di Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto
aereo, in difesa della salute, dell'ambiente, della democrazia, dei diritti
di tutti (per contatti: e-mail: info at coipiediperterra.org, sito:
www.coipiediperterra.org)]

Oggi a Viterbo vi e' stata una acrobatica parata di prominenti personaggi
che, come se fossero degli irresponsabili biscazzieri, giocano con
l'ambiente, la salute e i diritti dei viterbesi.
*
Asso di cuori. Gli interventi urgenti per il clima
Gli interventi urgenti per il clima richiesti dall'Unione Europea
impediscono che si realizzi il mega-aeroporto di Viterbo, la cui attivita'
costituirebbe uno sciagurato contributo all'insostenibile incremento delle
emissioni responsabili del surriscaldamento globale del pianeta.
Bisogna ridurre il trasporto aereo, non incrementarlo.
*
Asso di picche. La delibera della vergogna
E' la delibera con cui il Consiglio comunale di Viterbo chiede alla Regione
Lazio di fare carta straccia del Piano territoriale paesaggistico regionale
e delle relative norme di salvaguardia: se si rispetta il piano regionale il
mega-aeroporto e' irrealizzabile; se il piano diventa carta straccia gli
speculatori confidano di poter devastare impunemente l'ambiente e massacrare
impunemente la salute dei cittadini.
Quella sciagurata delibera va revocata. La Regione Lazio deve opporre un
risoluto diniego alla scandalosa richiesta di abolire norme e vincoli.
*
Asso di quadri. Chiedere all'oste se il vino e' buono, affidare il gregge al
lupo
L'Ente nazionale per l'aviazione civile (Enac) affida alla societa'
Aeroporti di Roma (Adr) sia la realizzazione e gestione del devastante
mega-aeroporto, sia la verifica della compatibilita' ambientale, e non solo,
di esso. La societa' Adr e' un'impresa finalizzata al profitto, ed e' la
stessa che gia' gestisce il sedime aeroportuale di Ciampino, dove la
situazione e' semplicemente catastrofica; ed e' la societa' che trarrebbe
ingenti profitti dalla realizzazione del mega-aeroporto a Viterbo,
"ciampinizzando" anche Viterbo.
Bisogna essere folli per affidare ad Adr, corresponsabile del disastro di
Ciampino, la verifica della compatibilita' ambientale di un mega-aeroporto a
Viterbo: e' come chiedere all'oste se il vino e' buono (giacche' non e' chi
non veda come sia interesse dell'Adr realizzare un'opera da cui trarrebbe
ingenti profitti: se l'espressione "conflitto di interessi" ha un senso, qui
cade a fagiuolo).
E bisogna essere folli per affidare ad Adr, corresponsabile del disastro di
Ciampino, la realizzazione e gestione di un mega-aeroporto a Viterbo: col
precedente di Ciampino, e' come affidare il gregge alla tutela del lupo,
come mettere la vittima nelle mani del carnefice.
*
Asso di fiori. Ingannare i cittadini
La lobby politico-affaristica del mega-aeroporto continua ad ingannare i
cittadini di Viterbo, continua a mistificare la realta', continua a
nascondere e a mentire. Addirittura si e' arrivati alla vergogna delle
vergogne di dichiarare a fini propagandistici che un'opera cosi' devastante
e nociva sarebbe "a impatto zero" quando invece l'impatto sarebbe enorme e
disastroso; addirittura si e' arrivati alla vergogna delle vergogne di
dichiarare a fini propagandistici che l'opera e' finalizzata ad incrementare
il turismo a Viterbo quando invece essa e' evidentemente finalizzata al
turismo "mordi e fuggi" per Roma, e a Viterbo provochera' enormi danni.
*
Il bluff
La triste e banale verita' e' che il mega-aeroporto e' irrealizzabile; che
esso e' privo dei requisiti previsti dalla normativa vigente; che esso
devasterebbe fondamentali beni ambientali e culturali, economici e sociali;
che esso costituirebbe uno sperpero immenso di risorse pubbliche a vantaggio
di un ristretto gruppo di speculatori e a danno della popolazione.
La triste e banale verita' e' che tante mistificazioni propagandistiche che
a Viterbo in questi giorni hanno ampio corso si rivelano per quello che
sono: un bluff, un garbuglio, un imbroglio, un pasticciaccio brutto.
*
Quid agendum
Occorre ridurre il trasporto aereo per difendere il diritto dell'umanita' a
un mondo vivibile.
Occorre difendere e valorizzare l'area termale del Bulicame.
Occorre difendere la salute e i diritti della popolazione viterbese.
Ed occorre anche liberare Ciampino che soffoca: semplicemente cancellando i
voli di troppo, e non trasferendoli altrove.
I diritti umani devono venire prima del profitto degli speculatori.
Occorre far rispettare le leggi ed impedire il malaffare, le devastazioni,
l'avvelenamento.

7. MEMORIA. NICOLA TRANFAGLIA RICORDA VITTORIO FOA
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 21 ottobre 2008 col titolo "Antifascista,
intransigente. Mai stato comunista"]

Vittorio Foa lascia un vuoto straordinario in chi scrive come in tutta la
sinistra italiana ed europea. E' stato, per un tempo assai lungo, una
personalita' che riusciva ad unire la simpatia umana, la concretezza
dell'uomo d'azione con la limpidezza del pensiero e l'ottimismo
nell'avvenire.
L'avevo conosciuto piu' di trent'anni fa e per i settant'anni gli avevo
fatto una lunga video-intervista con l'Archivio Audiovisivo del Movimento
Operaio sugli anni della sua cospirazione antifascista.
Gia', perche' Vittorio (che quest'anno aveva appena compiuto novantotto
anni) era stato arrestato a Torino gia' nel 1935 grazie alla soffiata di un
confidente dell'Ovra fascista e fu per dodici anni prigioniero a Regina
Coeli e in altri carceri come militante di Giustizia e Liberta', il
movimento fondato da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Liberato nell'agosto
1943 aveva condiviso a lungo la cella con altri noti antifascisti come
Ernesto Rossi, Massimo Mila e Riccardo Bauer.
Appena libero fu, con Ugo La Malfa, segretario del Partito d'Azione, eletto
quindi nel 1946 deputato del Pda e poi, sciolto il Partito d'Azione nel
1947, deputato del Partito Socialista Italiano per tre legislature.
Nel 1948 aderi' alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil di cui
divenne, sette anni dopo, segretario nazionale.
A meta' degli anni Sessanta aderi' al Partito Socialista di Unita'
Proletaria di cui divenne uno dei maggiori dirigenti nazionali e nel 1992,
dopo esser stato senatore indipendente nelle liste del Pci nella legislatura
precedente, decise di lasciare la politica attiva.
Si dedico' a scrivere libri in gran parte autobiografici. Tra i tanti che ha
pubblicato voglio ricordare in particolare Il cavallo e la torre (Einaudi,
1991) che raccoglie una sorta di personalissima e godibile autobiografia,
Questo Novecento (Einaudi, 1996) che ci restituisce la sua visione
problematica e acuta del XX secolo, e le sue Lettere della giovinezza
(1935-1943) pubblicate sempre da Einaudi nel 1998.
Tra queste ultime che portano il lettore nelle carceri fasciste, ricordo
sempre quella scritta subito dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del
1943: "Al mutamento radicale nella situazione politica del paese non
corrisponde purtroppo un adeguato mutamento nella situazione interna del
carcere. Qui tutto e' sostanzialmente immutato, ossia fascista". Parole
profetiche per la crisi italiana, potremmo dire.
Le idee essenziali che hanno caratterizzato in vari momenti la riflessione
dell'uomo politico torinese mi paiono oggi piu' che mai attuali. Foa era,
dagli anni Trenta, un europeista convinto che aveva visto assai presto la
necessita' storica dell'unione dei popoli e degli stati europei dopo la
catastrofe fascista, almeno in parte dovuta ai nazionalismi che avevano
prevalso dopo la prima guerra mondiale nel vecchio continente.
Il secondo punto forte delle sue idee era quello delle autonomie locali e
delle comunita' umane piu' piccole mortificate dal centralismo francese,
come da quello italiano, negli anni del liberalismo e, ancor piu', del
regime fascista.
Infine Foa si preoccupava della frammentazione politica che aveva
caratterizzato, nel periodo liberale come in quello repubblicano, la
partecipazione politica ed elettorale e si pronuncio' piu' volte per un
sistema elettorale maggioritario che mettesse insieme le forze affini e
rendesse piu' efficiente il sistema politico.
Non era mai stato comunista ma collaboro' nella Cgil, come nei partiti di
sinistra, con i comunisti italiani e riusci' sempre a mantenere la sua
autonomia di pensiero e di azione.
Il suo antifascismo nacque e rimase sotto il segno della intransigenza sui
valori di fondo che erano le liberta' civili dei cittadini e la solidarieta'
sociale. In questo senso milito' nel movimento sindacale con grande passione
ed ebbe per Giuseppe Di Vittorio una particolare amicizia e venerazione
soprattutto per la sua umanita' e la capacita' di difendere gli interessi
dei lavoratori, senza dogmatismi ne' rigidita'.
Intervistato l'anno scorso da un telegiornale italiano, Foa disse, non a
caso: "Bisogna guardare la concretezza dei fatti... Dobbiamo vedere non le
idee generiche, ma come si possono realizzare le cose". Sono del tutto
d'accordo con lui.
La politica italiana, purtroppo, e' sempre stata, anche a sinistra, piena di
idee astratte e scarsa di fatti concreti. Di qui l'importanza di una
personalita' come quella di Vittorio Foa che ha dimostrato, in tutta la sua
vita, di privilegiare l'esperienza concreta rispetto alle discussioni fumose
che piacciono tanto a molti politici e intellettuali del nostro tempo.
In questo senso, essendo quasi centenario, Vittorio restava un uomo giovane
e vivo per il suo tempo.

8. LIBRI. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "TUTTO ME STESSO PRIMA DI MORIRE" DI
CARLO MASSA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questa
recensione dal titolo "Carlo Massa. Prima di morire"]

Carlo Massa, Tutto me stesso prima di morire. Note dalla malattia,
Prefazione di Gabriella Caramore, con un intervento di Ignazio Marino,
Servitium - Viator 2008, pp. 89, euro 12.
*
"E neanche d'un minimo
devi venir meno all'uomo
ma essere vivo, vivo e null'altro
vivo e null'altro sino alla fine"
(Boris Pasternak)
*
Carlo Massa, giornalista culturale, racconta il cammino della sua morte: la
comparsa del dolore fisico, l'interruzione del lavoro, la volonta' di
scrivere comunque. Ai confini della ragione "inizia un territorio illimitato
che si chiama Mistero" (p. 25), che lui pero' non vede e non definisce.
Descrive ampiamente le strutture sanitarie, i bisogni umani dei malati,
meriti ed errori del personale medico, per il quale non sempre il malato e'
una persona. Si sente ricco della sua citta' e della natura, ma soprattutto
per le amicizie e le persone care attorno a se', alle quali il malato chiede
e di fatto impone cure e fatiche, e con le quali si ravviva l'amore.
Ricorrente e' l'idea di dignita', in questa fase della vita, ma anche la
gioia, e anche la paura. La malattia mette urgenza, raccontare e' lasciare
una traccia, "unica realta' che ci sopravvive" (p. 51). Assumere il dolore
altrui ci pone nella giusta pieta', non piagnisteo, per noi stessi. Il
malato e' un recluso, gli altri sono inevitabilmente fuori dal recinto che
lo accerchia. Eppure Massa dice che "ha vissuto" il tempo della malattia. La
morte prossima riconcilia con la vita, le da' colore, e con le persone. Ma
c'e' anche paura, e rabbia, e anche felicita': gode di ogni cosa viva. Non
si puo' vivere distratti, nella malattia.
Tremendo e' il ridursi dei momenti di lucidita'. Ma sapersi finiti rende
umani. Il malato sa di essere a termine. Vuole morire ad occhi aperti. Il
mondo interiore e' ricco e degno, anche in chi non ha fede religiosa (ma
davvero quest'uomo non ha una fede nella verita' della vita?). Ha cercato di
vivere a fianco dei piu' deboli, e di amare le persone vicine. Il morente
pensa ai figli: vorrebbe, senza poterlo, lasciare loro qualcosa che li aiuti
a vivere. "Sa che occorre fornire strumenti di riflessione e non
conclusioni, anche se la morte vicina sembra suggerire il contrario" (p.
69). Di solito, in quanto figli, capiamo dopo. La malattia procede coi suoi
colpi. Abbattimento, e resistenza. Si acuisce la sensibilita'.
Chi soffre cerca pace. Accetta di "mostrare, senza falsi pudori, la propria
fragilita'" (p. 70). Una forza e una gioia inaudita vengono dal comprendere
che "la vera posta in gioco non e' la mia sopravvivenza fisica" (p. 77). Si
lascia andare alla corrente, non si oppone all'ineluttabile. Il dolore nasce
essenzialmente dalla rivolta rabbiosa dell'io ai limiti dei propri desideri
e bisogni. L'autore di questa storia si sente come una fortezza smantellata
pezzo a pezzo. Parlare, scrivere, e' conforto e forza perche' "saro'
veramente vivo finche' saro' in grado di comunicare" (p. 80).
Ti svegli una limpida mattina, e sai che stai morendo. "Volevo essere tutto
me stesso prima di morire" (p. 84). "Vorrei lasciarmi andare, smettere di
imporre la mia forma al mondo" (p. 85). La mano che scrive rimane sospesa, e
cade. Resta lo scritto di un uomo vivo, che parla, che ascoltiamo, e la
storia che narra ci ammonisce sulla nostra storia.

9. LIBRI. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "LA MIA VITA PER LA PACE" DI MAX JOSEF
METZGER
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questa
recensione dal titolo "Colpevole di proporre la pace"]

Max Josef Metzger, La mia vita per la pace. Lettere dalle prigioni naziste
scritte con le mani legate, Edizioni San Paolo 2008.
*
La conoscenza in Italia della non piccola resistenza nonviolenta al nazismo
da parte di cittadini tedeschi si arricchisce con la pubblicazione di queste
lettere e documenti. Metzger (1887-1944), prete, fu condannato e decapitato
(come i giovani della Rosa Bianca) per pacifismo, antinazismo,
collaborazione col nemico, perche', per amor di patria, tento' di far
arrivare a Hitler il consiglio di dimettersi al fine di cercare una pace
d'intesa ed evitare al popolo tedesco i disastri della sconfitta certa, e
perche' fece conoscere all'estero questi propositi. Analogo fu il motivo
della condanna di Bonhoeffer. Metzger fu pioniere audace dell'ecumenismo,
nonostante i divieti cattolici, formulo' programmi politici di pace (gia'
nel 1917, forse influendo sul famoso appello di Benedetto XV), era rigoroso
vegetariano, e scrisse nel 1939 a Pio XII chiedendo un "concilio di riforma"
(come Bonhoeffer  nel 1934) insieme ai protestanti, per l'unita' delle
chiese, che vedeva necessaria all'unica Chiesa cristiana, insieme
all'umilta' che non autogiustifica i propri difetti, per potere testimoniare
la pace al mondo.
Dal carcere, con le mani sempre incatenate (come l'obiettore-contadino
austriaco Franz Jaegerstaetter), con grande coraggio e serenita', scrisse
lettere e riflessioni, sulla pace, sulla Chiesa visibile e invisibile
("L'essenziale non e' la sua visibilita' (...) ma piuttosto l'appartenenza
(invisibile) per mezzo della fede e della carita'"; "La Chiesa invisibile e'
piu' decisiva per la salvezza che quella visibile"), sulla morte e sulla
vita eterna che gia' ora abbiamo con la fede. Le lettere di commiato,
scritte il giorno della morte, furono sequestrate per non farlo apparire
martire, e riscoperte negli archivi ventisei anni dopo. Offriva la sua vita
per la pace del mondo e l'unita' della Chiesa. E' aperto il processo
canonico per dichiararne la beatitudine (gia' dichiarata per
Jaegerstaetter).
Mentre in tedesco sono usciti finora circa cinquanta libri, in italiano
questo (a parte la lettera a Pio XII pubblicata in riviste specializzate) e'
il primo libro di Metzger, mai nominato nelle opere tradotte (Shirer,
Williamson, Hoffmann, Semelin) su nazismo e resistenza.

10. LIBRI. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "UN CATTOLICO A MODO SUO" DI PIETRO
SCOPPOLA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questa
recensione dal titolo "Pietro Scoppola. Vita e morte in cerca di se'"]

Pietro Scoppola, Un cattolico a modo suo, Premessa di Giuseppe Tognon,
Morcelliana 2008, pp. 128, euro 10.
*
Pietro Scoppola ha scritto importanti opera di storia. Ha raccolto ancora,
nell'ultimo anno di vita (e' morto nell'ottobre 2007), articoli di
quotidiano su La coscienza e il potere (Laterza). Questo breve Un cattolico
a modo suo prende il titolo da una definizione di lui data in una
conversazione privata da Paolo VI. Scoppola qui scrive di se' nell'imminenza
della morte, una autobiografia interiore, ricca di attenzione e chiarezza su
problemi e scelte che sono poste a noi, viventi oggi. Riflette da cattolico
preoccupato della condizione della Chiesa, di un "riflusso rispetto al
Vaticano II" (p. 15). Si rivolge alle generazioni che seguono la sua (e'
nato nel 1926), che vivono oggi una "radicale incertezza sul futuro" (ivi).
Non vuole parlare da maestro e offre solo riflessioni personali, e piu'
domande che certezze. I cristiani cambiano, col cambiare del mondo.
Scoppola descrive il cammino della propria fede, nata nella famiglia
d'origine, poi solidamente costruita, nel liceo romano tenuto dai gesuiti,
su "cosiddette prove razionali" (p. 21). Ha imparato ad "essere libero nella
piena coscienza dei condizionamenti cui siamo soggetti" (p. 24). Lesse
ancora in liceo, di propria iniziativa, Pascal e Sant'Agostino (non e'
questo un itinerario che anche qualcuno di noi, dieci anni dopo, percorse a
quell'eta'?) e fu "un'occasione di apertura rispetto all'impostazione avuta
dalla scuola dei gesuiti" (p. 25). Quel liceo non fu una scuola di
antifascismo, ma certo non di fascismo. Quella architettura metafisica della
fede, troppo quadrata, incontro' il dubbio del pensiero. Dopo la Liberazione
venne la scoperta della storia, del pensiero cattolico francese. Proprio la
scoperta delle diversita' di forme storiche del cristianesimo aiuto' il
giovane Scoppola a intendere in modo nuovo la fede cristiana e a prendervi
parte personalmente. Scelse gli studi storici come "ricerca di un'identita'"
(p. 31). Il rapporto tra Chiesa e liberta' moderne era al centro di questo
interesse: "la liberta' era il passaggio obbligato per quella ricerca di
identita'" (p. 38). Percio' studio' l'intransigentismo e il cattolicesimo
liberale, il rapporto tra Chiesa, liberalismo, democrazia (poteva la Chiesa,
depositaria della verita', accettare un regime di uguale liberta' delle
varie opinioni?) e, dall'altro lato, tra Chiesa e fascismo. Conosce e impara
da molti studiosi. Poi studia il modernismo, su cui si confronta col
benedettino p. Gribomont, del monastero romano di San Girolamo (che fu anche
vivace stimolatore della mia generazione nella Fuci degli anni '50-'60; nel
suo paese, il Belgio, votava socialista). Gribomont caldeggia molto la
pubblicazione del libro sul modernismo perche' "e' un libro che puo'
benissimo andare all'Indice" (p. 42).
Scoppola "matura un modo via via nuovo di intendere la fede" (p. 44). Si
interessa di politica come "un elemento di quella ricerca di un
cattolicesimo pienamente incarnato nella storia" (p. 45). Si pronuncia per
il no sul referendum abrogativo del divorzio ed e' attaccato duramente
dall'"Osservatore romano", ma il Segretario di Stato Casaroli minimizza. E'
a questo momento che Paolo VI dice di lui le parole poste a titolo di questo
libro. Sull'aborto, invece, avra' una posizione "diversissima". In seguito
fa esperienza politica come esterno alla DC, poi come parlamentare. Troviamo
qui una bella definizione della politica: "disegno per il futuro,
valutazione razionale del possibile, e sofferenza per l'impossibile" (p.
47). Ne ha una concezione non di potere ma utopica, radicata nell'esperienza
cristiana, lievito della storia, ma con una sua laicita'. Nella politica
cosi' intesa matura la sua identita' cristiana, con due aspetti
complementari: la fede personale e il credere insieme alla Chiesa.
Il primo aspetto e' la soggettivita', l'interiorita' libera, svincolata da
"scrupoli e fissazioni religiose" della prima formazione presso i gesuiti,
il primato della coscienza scoperto nella piu' genuina tradizione cristiana,
ma affermato nella storia contro la Chiesa e non ad opera della Chiesa. Un
punto critico, rimasto tale, fu il rapporto tra fede e filosofia, ora
riproposto da Benedetto XVI, tra il dato vitale e la riduzione a dottrina:
"la fede non e' una dottrina" (p. 51). La lettura di Blondel lo convinse che
non ci sono prove scientifiche per l'esistenza di Dio, ma motivi vitali,
entro la corrente di fede biblica, e che la fede e' un atto di liberta'.
Sulla risurrezione di Cristo lo sconcerta la parola di Pietro in Atti, 10:
"non a tutti, ma a noi testimoni prescelti e' apparso". Cio' esclude la
storicita' nel senso degli storici, perche' e' un fatto atipico, che resta
ignoto e indefinibile, ma ha fatto rinascere, in condizioni disperate di
sconfitta totale, la fede degli apostoli, evento pienamente documentato, su
cui e' fondata la nostra fede. Non si crede da soli, ma dentro una comunita'
credente e orante, legata alla testimonianza biblica, che non deve piu'
essere tolta al popolo.
Questo e' il secondo aspetto della identita' cristiana matura di Scoppola,
complementare alla soggettivita'. Si crede nella Chiesa, con la Chiesa,
anzitutto grazie alla liturgia partecipata, restituita dal Concilio al
popolo, poi nella comunita' organizzata, ma non in sudditanza all'autorita'.
Qui Scoppola difende con energia il Concilio, contro "idee, modi di pensare
che sono contro, che sono fuori, che sono prima del Concilio (...) anche a
livello di magistero" (p. 61). No, non sono conciliabili la Dignitatis
humanae sulla liberta' religiosa e il Sillabo (1864), che e' superato. "Con
la fedelta', non con la contestazione", difende la "rivoluzione che il
Concilio ha portato". Se il magistero "spesso non dimostra piu' un'adeguata
sensibilita' alla realta' del nostro tempo" (p. 62), non per questo si puo'
lasciarlo perdere: "qualcosa nella Chiesa deve morire", ma bisogna occuparsi
della chiesa gerarchica (p. 63). La riforma della Chiesa e' condizione per
riforme storiche democratiche. Seguono, nel libro, osservazioni calzanti
sulla figura del papa, fino a Ratzinger, su collegialita' e primato petrino,
sui diritti civili nella Chiesa, fino al caso Dupuis: come e' possibile -
chiede Scoppola - che preoccupazioni disciplinari prevalgano sul criterio di
verita' e la dignita' dell'uomo sia sacrificata a logiche istituzionali? (p.
66).
Seguono brevi capitoli sulla Fides et Ratio (1998) di papa Wojtyla (Scoppola
la ritiene di mano ratzingeriana), che non sa coniugare la tradizione col
presente e le sue sfide. Di fatto, la realta' ecclesiale cade in un regime
di doppia verita': una e' la dottrina ufficiale che vuole essere
interpretazione oggettiva della natura e della norma morale; altro e' la
vita quotidiana che conosce le "ragioni" delle persone e della misericordia.
Dato che, contro certe previsioni, si ha un ritorno della religione, e delle
religioni, sulla scena pubblica, e' urgente comprendere il dialogo
interreligioso e la laicita' degli stati. Sulla laicita' conviene qui non
tentare neppure di riassumere le poche pagine del capitolo VIII, che sono di
massima chiarezza e saggezza, la cui lettura devo raccomandare.
Coi papi Wojtyla e Ratzinger "sembra certe volte che la Chiesa ancor piu'
che custode e annunciatrice del messaggio di Cristo sia depositaria e
garante del diritto naturale, di un diritto immutabile, del quale essa
stessa definisce contenuti e limiti" (p. 95). Ci sono certamente valori
legati alla dignita' naturale della persona umana, da non offendere, ma la
loro comprensione ed espressione e' storica, non traducibile in un codice
definitivo. Arrivano dalla societa' alla Chiesa richieste di "certezze senza
dubbi" (p. 96) in luogo della ricerca e del dialogo. Ci sono vari "tentativi
di utilizzazione strumentale del fenomeno religioso per fini di potere" su
cui il giudizio della Chiesa "deve restare esigente e severo" (p. 96). Ma
c'e' pure il dialogo tra le religioni e tra "le due fedi", quella religiosa
e quella laica, perche', come scrisse Norberto Bobbio, "non e' forse il
senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini
dell'una e dell'altra fede?" (p. 98). Cosi', la democrazia si nutre di
verita', nel dialogo e nella ricerca.
Nel capitolo Maschio e femmina Scoppola denuncia come la Chiesa si e'
fermata davanti al passo risolutivo che avrebbe cancellato in essa tutte le
discriminazioni: l'ordinazione presbiterale delle donne. A questa ipotesi
papa Wojtyla oppose un infondato "accanimento" che rasentava la pronuncia ex
cathedra, temperato a fatica dalle interpretazioni date dall'episcopato.
Questa emarginazione viene per Scoppola dalla permanente sessuofobia
ecclesiastica.
"Con il '68 si e' spezzato un equilibrio ma non se ne e' formato uno nuovo"
(p. 101). Nelle nuove generazioni emergono valori nuovi "ma vedo anche il
rischio di un disorientamento che nasce dalla mancanza di chiari e fermi
criteri di riferimento" (ivi). La Chiesa dovrebbe ripensare la morale
sessuale, di fronte al cambiamento dei costumi, in una luce personalistica
piu' che naturalistica. Sul problema del matrimonio canonico e del divorzio,
Scoppola cita l'importante ricerca storica di Giovanni Cereti del 1977.
L'attuale disciplina canonica "non regge" (p. 103) ne' di fronte alla storia
ne' alla psicologia e "da' luogo a paradossali ingiustizie": puo' fallire un
prete nella sua vocazione, un religioso, e non una persona sposata! Anche
qui vige un regime di "doppia verita'" (ivi), per cui c'e' una norma
intransigente sui divorziati e una prassi che la supera.
Ancora due capitoli di schietta sincerita' pongono domande serie diffuse tra
i credenti ma non ascoltate dalla chiesa gerarchica. La prima e'
sull'inferno, idea contraddittoria con la volonta' e la bonta' di Dio.
"Balbettando" (p. 106) sul delicato problema, Scoppola riferisce una
interpretazione piu' evangelica (e' di Nedoncelle) sul giudizio finale: la
separazione del bene (anche poco) dal male (anche molto) avverrebbe nella
singola persona (p. 107), non tra buoni e cattivi, salvati e sommersi.
La seconda domanda e' sulla concezione sacrificale della redenzione, per cui
Dio Padre avrebbe voluto la morte di Cristo come "capro espiatorio" per
avere soddisfazione adeguata all'offesa infinita fattagli dal peccato degli
uomini. Questa concezione arcaica che tratta il mistero di Dio in "astratte
categorie razionali" (p. 110) e' ripugnante, e' superata dall'ermeneutica
biblica piu' aggiornata, in aderenza maggiore al significato piu' profondo
del dato biblico (p. 111). Cristo muore per la coerenza del suo amore per
l'umanita', con la forza nonviolenta della verita', e cosi' vince il peccato
e la morte, sebbene sia vero che nell'amore e' sempre intrinseco il dolore e
il sacrificio di se' (p. 122).
Infine, Scoppola si confronta brevemente con le nuove generazioni:
sull'esistenza di Dio "non ci sono prove ne' in positivo ne' in negativo"
(p. 113), solo il "coinvolgimento esistenziale supera il dato puramente
razionale" (p. 114); sulla teodicea: la totale liberta' che Dio lascia agli
uomini e' compatibile con la sua bonta' salvifica? Senza risposte
esaurienti, non resta che impegnarsi per il bene che soppianti il male,
senza calcolare troppo, senza evitare le sofferenze dell'impegno.
Dopo oltre cento pagine il lettore si accorge di nuovo che l'autore sta
scrivendo in vista della propria morte, che avverra' circa un mese dopo la
fine del libro (cfr. p. 125). L'ultimo capitolo, Pensieri aperti, consiste
di pochi appunti colloquiali sul proprio servizio ai poveri e su una Chiesa
povera; sulla sofferenza, la propria, fisica e morale, di fronte a quella
grande del mondo, che ci umanizza col renderci fragili e trasparenti; sulla
volonta' di Dio, che non e' "quello che accade", ma richiede che noi
rispondiamo positivamente agli eventi, e che tuttavia ci affidiamo a lui
quando tutto ci travolge, come nella malattia; sull'assurdo di cui ci sfugge
il senso, come queste cellule impazzite del tumore che ti uccide (la cosa
piu' dolorosa per Scoppola e' la perdita della voce), e tuttavia fa parte
della realta'.
Le ultime righe, ancora aperte sui "'pensieri bianchi' che non finiscono
mai", in un "impegno che mi ha tenuto vivo in questi mesi", si chiudono
"senza formalita'" nella preghiera e nel silenzio, atto estremo e intenso di
una vita seria e buona.

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 619 del 25 ottobre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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