Nonviolenza. Femminile plurale. 216



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 216 del 23 ottobre 2008

In questo numero:
1. Udi di Napoli: Solidali con Rosaria Capacchione
2. Lea Melandri: Il salvifico bilinguismo della cultura politica delle donne
3. Dacia Maraini: Opporsi al razzismo
4. Dacia Maraini: Non esistono razze
5. Dacia Maraini: Un polmone verde
6. Clara Jourdan: Parole meditate
7. Patrizia De Vita presenta "Del mutare dei tempi" di Marisa Rodano
8. Ilde Mattioni presenta "Mestieri di scrittori" di Daria Galateria

1. TESTIMONIANZE. UDI DI NAPOLI: SOLIDALI CON ROSARIA CAPACCHIONE
[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) riprendiamo il seguente
intervento dell'Udi (Unione donne in Italia) di Napoli di solidarieta' con
Rosaria Capacchione, la giornalista del quotidiano "Il mattino" gravemente
minacciata dalla camorra che da tempo vive sotto scorta]

Offriamo la nostra solidarieta' a Rosaria Capacchione per le minacce che
accompagnano la sua vita professionale. La offriamo, sapendo che il rifugio
dato da parole abusate come il termine "solidarieta'" non sempre risponde al
suo significato vero, e cioe' quello di fare propri i rischi vissuti da chi
e' fatto segno di una persecuzione, ed assumere un debito di difesa verso
chi soffre di una condizione di liberta' limitata.
Il percorso della nostra associazione nel vivo delle persecuzioni attuate su
donne che vogliono riscattarsi da violenze e persecuzioni attuate da
compagni, amici, mariti, padri, fratelli dentro e fuori le mura domestiche,
ci rende preziose donne come Rosaria che da sempre denuncia lo strapotere
della criminalita' organizzata. La camorra e' fortemente segnata da rigidi
codici di inclusione dove la sottomissione attraverso percosse, gli stupri
punitivi, la soppressione delle disobbedienti al ruolo di matriarche custodi
delle famiglie, sono una costante antica e fortemente radicata.
Noi ci stringiamo attorno a Rosaria, la sentiamo nostra alleata e
rivendichiamo con lei un riscatto, sul suo esempio, del giornalismo troppo
spesso dimentico del suo ruolo, e infine ci auguriamo che la solidarieta'
che oggi in molti esprimono sia capace di essere vigilanza contro la
tolleranza culturale intorno ai fenomeni camorristi e la violenza contro le
donne.

2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: IL SALVIFICO BILINGUISMO DELLA CULTURA
POLITICA DELLE DONNE
[Dal sito della Libera Universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente intervento]

Il tema in discussione - Democrazia di genere e processi formativi -
richiama quello di una serie di seminari, che si sono tenuti tra Milano e
Roma a partire dall'inizio del 2000, dal titolo: L'eredita' del femminismo
di fronte agli interrogativi del presente. Evidentemente e' un dubbio che
periodicamente ci attraversa e a cui stentiamo a dare una risposta: come mai
la cultura politica prodotta dalle donne, in un percorso di riflessione
ormai piu' che trentennale, non ha la visibilita' e l'incisivita' che ci
aspetteremmo, soprattutto se si tiene conto che alcune delle tematiche su
cui si e' mossa sono oggi al centro della vita pubblica. Penso alla crisi
della politica, che oggi tocca il suo stesso atto fondativo - la divisione
sessuale del lavoro, la scissione tra corpo e linguaggio, individuo e
societa' -, la preminenza che hanno assunto il corpo, la sessualita', la
salute, il nascere e il morire, la violenza maschile contro le donne, il
rapporto col diverso, vicende essenziali dell'umano su cui oggi intervengono
pesantemente i massimi poteri della vita pubblica: Stato, Chiesa, scienza,
mercato, media.
Se e' vero che la pacifica "rivoluzione femminista" e' l'unica sopravvissuta
alla fine degli anni '70, l'unica che abbia avuto continuita' in una vasta
proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, e'
anche vero che e' la piu' silenziosa, oscillante tra brevi comparse e
altrettanto rapide sparizioni. Il pensiero e l'azione politica del movimento
delle donne sembra aver perso estensione e radicalita' proprio quando e' il
contesto storico in cui viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al
trionfo dell'antipolitica, al risveglio del fondamentalismo religioso,
potrebbe essere proprio quella "politica della vita" che discende dalle
pratiche e dai saperi degli anni '70.
La domanda che viene da porsi allora e' questa: perche' il femminismo non e'
riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera
pubblica e sfera privata? Che difficolta' abbiamo incontrato e incontriamo
per sentirci oggi cosi' "povere" pur possedendo un sapere prezioso, uno
sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel
presente?
*
Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna,
esclusa dalle responsabilita' della vita pubblica, dallo statuto stesso di
"umano", identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e
riproduttiva, e' stata da sempre "oggetto" del sapere. Sono stati i saperi,
oltre che i poteri, della comunita' storica degli uomini a definire che cosa
e' "femminile", a esercitare, piu' o meno direttamente, sui corpi, sulla
vita psichica e intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento,
violenza o, al contrario, esaltazione immaginaria. Attraverso i saperi passa
la violenza manifesta di un dominio, ma anche e soprattutto quella violenza
piu' insidiosa, perche' "invisibile", che e' l'interiorizzazione di
un'immagine di se' dettata da altri: un modo di pensarsi, di sentire, di
essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell'altro. Quando
esclude le donne dal "contratto sociale", quando descrive l'educazione della
femmina, destinata a vivere "in funzione degli uomini", "piacere e rendersi
utile a loro", Rousseau, il padre della democrazia moderna, sa di poter
contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto di adattamenti,
resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza - come il potere che viene
dal rendersi indispensabili all'altro, l'uso sapiente di potenti attrattive,
come la maternita' e la seduzione.
Uscire da questa pesante eredita' storica ha comportato, per le donne, un
doppio "scarto":  smascherare la falsa neutralita' dei saperi creati dal
sesso maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, gia'
all'inizio del '900, chiamava "una rappresentazione del mondo
aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtu' di analisi". L'analisi
che Aleramo affrontera' in solitudine, attraverso un processo continuo di
svelamento e costruzione dell'autonomia dell'essere femminile, e' diventata
poi nel femminismo degli anni '70 la pratica dell'autocoscienza: un modo di
procedere originalissimo, che tiene insieme scavo in profondita',
modificazione di equilibri psichici profondi ("presa di coscienza"), e
costruzione di se' come individualita' che si pone per la prima volta nella
sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.
*
Quello che avviene negli anni '70, dunque, non e' solo l'ingresso massiccio
delle donne nella vita pubblica - lavoro extradomestico, istruzione,
urbanizzazione, impegno politico, ecc. -, e neppure solo la nascita di una
soggettivita' femminile singolare e plurale. E' una rivoluzione (pacifica)
che va alle radici dell'umano, riportando alla storia quanto di umano e'
stato "naturalizzato", sottratto percio' a possibili cambiamenti, una
ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che sovverte l'atto
fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni storiche
della civilta' dell'uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un pensiero
che si e' strappato dalle sue radici biologiche e che su questa scissione
originaria ha costruito tutte le dualita' che conosciamo. Prima fra tutte,
quella tra i ruoli del maschio e della femmina.
Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile,
e' un'idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di liberta', di
politica. Non si tratta di un sapere che si aggiunge ad altri, un'iniezione
vitale di conoscenza, che va ad integrare, o "fecondare la sterile civilta'
dell'uomo" - secondo l'idea di complementarieta' che ha accompagnato
l'emancipazione di inizio '900 -, ma di un processo formativo e cognitivo
che ha osato addentrarsi nelle "acque insondate delle persona", in una
"materia segreta, imparentata con l'inconscio", e che da li', da quelle
lande deserte, da quella preistoria pietrificata, ha cominciato a guardare
con occhi diversi la storia, a sovvertire l'ordine esistente.
*
"Che cosa avverra' delle istituzioni quando si accorgeranno di essere
funzionalizzate a un sesso solo?" (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli,
1979).
E' con questa domanda che il femminismo tento' allora di costruire un
proprio "lessico politico", ridefinendo parole gia' in uso - democrazia,
uguaglianza, liberta', organizzazione, ecc. -, e introducendone delle nuove,
frammenti di una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi
il "se'", rivisitato attraverso la pratica dell'autocoscienza (Lessico
politico delle donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta
(1978), ristampato da Fondazione Badaracco - Franco Angeli, 2002).
La cultura femminista degli anni '70 rappresenta un eccezionale equilibrio
tra un sapere inteso come processo formativo - aderenza alla memoria del
corpo, all'immaginario sessuale, all'esperienza particolare di ognuna -, e,
al medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse
allora nelle battaglie per il divorzio, l'aborto, il diritto di famiglia, la
violenza sessuale. Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e
pratiche di liberazione erano tra loro intersecati: non si voleva che
restassero "un pezzo di riforma" isolata dalla messa in discussione della
sessualita' e dalla cultura dominante maschile. Quello che si stava
abbozzando era un sapere che, partendo dalla costruzione di se', si andava a
collocare, con una forte conflittualita', sul confine tra sfera pubblica e
privata, che si richiamava al corpo, alla sessualita', alla salute fisica e
psichica, consapevole dei segni che la civilta' dell'uomo vi ha lasciato
sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano reggere, e che percio'
hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato.
Era, come capi' lucidamente Rossana Rossanda, "una critica vera, e percio'
unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma
la mette in causa".
*
Le difficolta' che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel
riattraversare le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalita'
dell'assunto iniziale: un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era
la soggettivita' femminile, collettiva e insieme rispettosa della
singolarita', una "presa di parola" che denunciava, non svantaggi o
discriminazioni sociali, ma una "espropriazione di esistenza", a partire dal
destino toccato alla sessualita' femminile, identificata con la procreazione
e quindi cancellata come tale - da cui il ruolo "naturale" di madre, la
dedizione all'uomo, il sacrificio di se'. Era una affermazione di liberta'
che si poneva pero' come lento processo di liberazione dalle tante
illiberta' interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle relazioni famigliari,
nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia, nell'assuefazione alla
violenza quotidiana.
Con l'autocoscienza, il processo conoscitivo si spostava in prossimita' del
corpo, della memoria che vi si e' depositata sopra. Alle generalizzazioni
della politica, opponeva il "partire da se'".
"Il blocco - scrisse Carla Lonzi - va forzato una per una, passaggio
necessario per la nascita della propria individualita'".
Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un
"accostamento di vissuti di ognuna", della presenza fisica delle altre, del
separatismo, cioe' di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. "Il
sapere sull'autocoscienza non puo' sostituire la formazione che avviene
praticandola" (Manuela Fraire). La soggettivita' femminile nasce in questa
particolare relazione tra simili e, in questo senso, l'autocoscienza non e'
la pratica di una fase storica, non e' "a termine", come si legge nella
ricostruzione che la Libreria delle donne di Milano ha fatto di quegli anni
(Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987). Insieme al
suo portato teorico, e' la forma che ha preso il discorso femminile sul
corpo, sulla sessualita' e che non poteva non fare i conti con la
psicanalisi. La sua durata va messa in relazione col fatto che la
sessualita' non appartiene a questa o a quell'epoca in particolare, non e'
solo una componente della vita personale, ma una struttura portante della
societa' in tutti i suoi aspetti. Sono d'accordo percio' con Manuela Fraire
quando scrive che e' stato "uno strumento abbandonato precocemente",  e che
i suoi frutti maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne
conservano traccia. Il riferimento e', in particolare, al gruppo milanese
"sessualita' e scritturaî (A zig zag, numero speciale, 1978), alle scritture
di esperienza dei corsi delle donne (Associazione per una Libera Universita'
di Milano), alla rivista "Lapis. Percorsi della riflessione femminile"
(1987-1997).
*
Difficolta' e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende
fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a
entrare  negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando
dal "movimento femminista" si passa al "femminismo diffuso". Se
l'allargamento era augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che
comportava: "Un'operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del
patrimonio prodotto dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della
politica e della cultura" (Marina Zancan).
Al convegno di Modena sugli "Studi femministi in Italia" (1987), si
profilano due orientamenti: uno che vuole tutelare "spazi di autonomia e di
autogestione, all'interno dell'universita', attivare momento di
autoriflessione sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi
scientifici", "decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad
esse"; in altre parole, mantenere un "pendolarismo tra dentro e fuori
l'Universita'" (Raffaella Lamberti). L'altro, proposto da Luisa Muraro, mira
invece a fondare un soggetto forte, una "tradizione" di donne, che come tale
ha bisogno di una "autorita'" e di un linguaggio, di un "ordine simbolico"
su cui fondarsi. Nella costruzione identitaria di una "differenza femminile"
con cui affrontare la vita pubblica, sparisce l'attenzione al corpo, al se',
al vissuto personale, e anche il sapere che ne discende porta i segni di una
posizione essenzialistica, rassicurante e destinata ad avere molto seguito,
proprio perche' sembra portare fuori dalla lentezza e dalle secche delle
pratiche di liberazione.
Rispetto a queste due posizioni la rivista "Lapis" ha rappresentato un
percorso a parte, critico rispetto al "pensiero della differenza", ma anche
rispetto al proliferare di "studi di genere" in ambiti accademici. L'intento
che muove la redazione e' di dare continuita' e sviluppo alla pratica con
cui era nato il femminismo: ricerca di "nessi" tra politica e vita, tra il
sapere di se' e i "cento ordini del discorso" di cui pure siamo imbevute;
un'autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica;
una "geografia, non una genealogia", un sapere che non teme di addentrarsi
in "paesaggi inquinati", di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la
sua complessita' e contraddittorieta'.
*
Ma torniamo all'oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle
donne alla costruzione di una "democrazia di genere". Io penso che la
cultura prodotta dal femminismo - quella che ha mantenuto un'attenzione al
corpo, alla storia personale, al rapporto tra individuo e societa' - abbia
oggi una parte importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre
interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di
quanto non si faccia di solito, quando si liquida tutto come "barbarie",
"irrazionalita'", "regressione".
Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a "questione
femminile" - uscita dalla marginalita', riequilibrio della rappresentanza,
politiche sociali e familiari, ecc. -, ha molto da dire, non solo su
questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i
consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che
investono tutta la societa': la crisi dei partiti, il trionfo
dell'antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la
crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie.
Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalita' dello sguardo, del
punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi - quello
che ha visto nel rapporto tra i sessi l'impianto originario di ogni
dualismo -, dall'altro prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto
cio' che e' stato considerato "non politico", sono oggi al centro della vita
pubblica, sia pure sotto etichette che ne occultano il significato
politico - ad esempio "questioni eticamente sensibili", "problemi di
coscienza". Purtroppo lo sono in modo molto diverso da come ce le
prospettavamo. Sono temi che rimandano a vissuti, esperienze umane tra le
piu' significative, ma che non riusciamo quasi piu', non solo a
"raccontare", ma a "vivere" come tali, tanto sono intersecate, confuse coi
poteri e i linguaggi della sfera pubblica.
*
Noi volevamo trovare "nessi" tra poli apparentemente opposti, oggi ci
troviamo di fronte a un amalgama, in cui privato e pubblico, casa e citta',
azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda. Sotto questo profilo si puo'
leggere anche il protagonismo femminile: un esempio inequivocabile e' Sarah
Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e femminili tradizionali. Sempre
piu' spesso e' il discorso pubblico a prevalere: non parliamo piu' di
maternita' e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194. Altre volte invece sono
la vita e le relazioni personali e prevalere: e' il quotidiano, la
casalinghita', ad assorbire e stemperare dentro il "senso comune" le
istituzioni della sfera pubblica.
Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si
alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l'esperienza, sapendo
che oggi non e' piu' pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano
con saperi e poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di
se' capace percio' di confrontarsi con tutti i saperi specialistici
elaborati dalle donne, i quali, a loro volta, devono lasciarsi contaminare,
modificare, da quei "barlumi di sapere che vengono dalla lenta modificazione
di se'" (A zig zag, 1978). Bisogna, in altre parole, imparare quello che
Laura Kreyder, redattrice della rivista "Lapis", chiama "un salvifico
bilinguismo": "il ragionare con la memoria profonda di se', la lingua intima
dell'infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi
della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni" (Lapis. Sezione aurea di
una rivista, Manifestolibri, 1998).
Ma si tratta anche si saper affrontare la conflittualita' che questo sapere
inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti.

3. DIRITTI. DACIA MARAINI: OPPORSI AL RAZZISMO
[Dal "Corriere della sera" del 23 settembre 2008 col titolo "Razzismo:
possiamo dirci cristiani?"]

Molti continuano a sostenere che l'Italia non e' un Paese razzista.
Purtroppo abbiamo continue dimostrazioni del contrario: l'assassinio dei sei
africani a Castelvolturno ci ha messi davanti a uno specchio in cui non
possiamo non guardarci. La faccia profonda del Paese ci osserva ostile e
imbronciata, spaventata di perdere privilegi anche grossolani, pronta a
sfruttare la situazione con furbizia tartufesca. Slogan del tipo "Italiani
brava gente", in cui ci crogiolavamo assolvendoci dai doveri di ospitalita',
non sono piu' veritieri, ammesso che lo siano mai stati... Ma provate a
parlare con un africano che vive nel nostro Paese. E' inutile ribadire
teorie astratte, bisogna sentire, dalla voce di chi le vive quotidianamente
sul proprio corpo, le conseguenze di una stupida e volgare idea del mondo
che sembrava essere stata sepolta con le catastrofi della seconda guerra
mondiale. Gli africani, anche italiani di nascita e di passaporto,
raccontano storie dolorose, di esclusioni, rifiuti, umiliazioni,
sfruttamenti, paure e misere manifestazioni di razzismo conscio e inconscio
da parte dei nostri connazionali. Molti fra l'altro parlano di un crescendo
minaccioso. Le due fotografie: quella che ritrae la prostituta nera
abbandonata come un cane nel corridoio di una questura e quella del nero
legato con le manette a un palo, danno una idea del clima di intolleranza
razzista che si sta innescando nel Paese.
Per fortuna ci sono italiani che reagiscono e si rimboccano le maniche per
aiutare chi non ha diritti, organizzare incontri, manifestazioni, proposte
di legge. Da diversi mesi e' in corso una Campagna antirazzista che parte da
citta' meridionali come Caserta e Napoli. Per il 4, il 5 e il 6 ottobre sono
previsti a Caserta incontri e manifestazioni, cortei antirazzisti col
coinvolgimento di istituzioni locali e nazionali. Del comitato promotore
fanno parte gruppi come il Movimento dei migranti e dei rifugiati, la
Caritas diocesana di Caserta, l'Ex Canapificio, Casa Rut, i Padri
Sacramentini, la Cgil, l'Associazione culturale Movimento, la Cidis, l'Arci,
Legambiente, l'Opera Nomadi e tante altre associazione sia cattoliche che
laiche. Cosa chiedono? Le richieste piu' urgenti sono sei e molto precise:
"1) Regolarizzazione dei migranti che loro malgrado sono ancora irregolari e
che di fatto vivono e lavorano in Italia senza alcun riconoscimento (basta
stragi nei mari: e' ora di prevedere canali di ingresso regolari e permessi
di soggiorno per ricerca di lavoro). 2) Ritiro del pacchetto sicurezza
(reato di ingresso illegale, 18 mesi di permanenza nei Centri di
identificazione ed espulsione, esame del Dna per accertare la parentela,
gravissime restrizioni sul diritto di asilo). 3) Garanzia del diritto di
asilo e accoglienza secondo le direttive europee. 4) Chiusura dei Cpt (e'
scandaloso sperperare denaro pubblico per militarizzare mari, coste e citta'
al fine di detenere persone che non hanno commesso reati. 5) Introduzione
del diritto al voto. 6) Rafforzamento dei ricongiungimenti familiari e
possibilita' per i bambini nati in Italia di ottenere la cittadinanza". Non
sembrano richieste rivoluzionarie ma di puro buon senso. Per un Paese che si
dichiara cristiano cose veramente elementari. Ma siamo davvero cristiani?

4. UNA SOLA UMANITA'. DACIA MARAINI: NON ESISTONO RAZZE
[Dal "Corriere della sera" del 7 ottobre 2008 col titolo "Figlia mia
ricorda: non esistono razze" e il sommario "Si deve parlare di popoli e
culture. Nel mondo c'e' solamente chi ha e chi non ha"]

Avevo sei anni quando ho sentito per la prima volta la parola razza. Mio
padre, ventenne, mi teneva per mano mentre saltavamo di pietra in pietra
lungo un fiume giapponese. "Ricordati che le razze non esistono - mi disse
con voce decisa -. Si puo' parlare solo di popoli e di culture diverse, non
di razze". Allora, negli anni '40, non era una cosa scontata. L'Europa
intera era invasa da ideologie razziste. Non credere alle divisioni dovute
al colore della pelle, alla forma del naso o dei capelli era cosa che pochi
osavano affermare. Mio padre era antropologo e non poteva pensare
altrimenti, ma pure andava controcorrente e ne era consapevole. E' stato il
suo rifiuto del razzismo che l'ha allontanato dal fascismo e dall'Italia. E'
stata la profonda antipatia del principio di superiorita' di un popolo sugli
altri che ha spinto lui e mia madre a preferire il campo di concentramento
piuttosto che firmare l'adesione alla Repubblica di Salo'. Poi la guerra e'
finita, molti hanno capito quanti guai e catastrofi abbia portato il
razzismo. Sembrava che la grande maggioranza degli europei fosse stata
vaccinata contro la malattia.
E invece eccoci qui, di nuovo con le teorie della diversita', che
regolarmente si accompagnano al concetto di superiorita' di una cultura, di
una religione, di una nazionalita' sulle altre. Idee che affascinano
soprattutto i giovani, sedotti da intolleranze che a loro appaiono nuove e
alla moda, mentre sono antichissime e prevedibili. La pratica della
cancellazione della memoria naturalmente peggiora le cose. Senza memoria,
come dice Bergson, non c'e' coscienza. Ma la cultura del mercato diffida
della memoria e quindi fa di tutto per offuscarla. Anche le affascinanti
prospettive di una revisione storica che azzera le responsabilita' delle
scelte storiche, non aiutano certo a capire.
Come dice con saggezza popolare Sancho Panza: "Nel mondo ci sono solo due
razze, quella di chi ha e quella di chi non ha". Sono sempre quelli che
hanno (potere, soldi, proprieta', cittadinanza, diritti, voce in capitolo) a
stabilire cosa debbano fare e dire quelli che non hanno. I quali, quasi
sempre, per potere lavorare, per avere una casa, e vivere in pace, si
adeguano. Salvo poi, alla goccia fatidica prendersela col piu' debole,
magari la moglie, i figli. Eppure l'Europa conosce bene i patimenti
dell'emigrazione. Ma pare che mentre siamo stati bravissimi nello sviluppare
una cultura dell'emigrazione, non abbiamo finora saputo creare una cultura
dell'immigrazione, dell'accoglienza, del buon esempio e delle regole. Fra
l'altro tutti ammirano gli Stati Uniti per la loro energia e la loro
potenza, e non tengono conto che sono il Paese al mondo che piu' ha saputo
accogliere e fare sue culture anche lontane, con le loro religioni, le loro
abitudini sociali, le loro filosofie, le loro tradizioni. Ed e' stata
proprio la capacita' di trasformare tanti stranieri in ferventi americani
che fa la forza del Paese piu' potente del mondo. "Io non chiedo a che razza
appartiene un uomo, basta che sia un essere umano, nessuno puo' essere
qualcosa di peggio", scrive Mark Twain.

5. AMBIENTE. DACIA MARAINI: UN POLMONE VERDE
[Dal "Corriere della sera" del 21 ottobre 2008 col titolo "Cemento al posto
del parco pubblico" e il sommario "I cittadini di Caserta lottano per
difendere il loro polmone verde"]

La citta' di Caserta dispone di un meraviglioso polmone verde di 350.000
metri quadrati. Che potrebbe diventare un luogo di svago, di incontro, di
sport, di spettacolo, di passeggiate, di studio. La zona appartiene
all'Istituto Sostentamento Clero che l'ha affittata ai militari. I quali si
sono trasferiti altrove. La zona ora e' libera ma occorrono soldi per
riscattarla. Che la maggioranza dei casertani sia consapevole di questa
ricchezza e la voglia rendere pubblica, lo dimostrano le ben 80 associazioni
che si sono costituite in breve tempo per la difesa del parco. Ma
evidentemente troppa gente vuole mettere le mani sul magnifico giardino
vuoto. Che poi vuoto non e' perche' disseminato (ma con rispetto del verde e
degli spazi) di caserme, hangar, villette per ufficiali ancora in buone
condizioni. L'universita' aveva proposto di realizzarvi un Orto Botanico. Ma
il Comune si e' trincerato dietro la mancanza di fondi. Il Comitato Macrico
Verde, che ha raccolto in pochi giorni 10.000 firme per realizzare un parco
pubblico, ha lanciato un azionariato popolare proponendo ai casertani di
versare 50 euro per comprare un metro quadro di verde. La campagna ha avuto
un successo insperato. Il giorno che, per una concessione speciale, le porte
del parco si sono aperte, ben 5.000 persone sono accorse in poche ore per
godere del suo verde e dei suoi alberi centenari. Gli speculatori pero' sono
sempre in agguato, non mollano l'idea di utilizzare lo spazio verde a modo
loro. Il Comune non ha soldi. Tutto lascia pensare che vincera' chi ha
grandi capitali da investire. Ma qui, arriva il colpo di fortuna: il parco
di Macrico viene inserito dal Ministro Rutelli fra gli eventi per celebrare
i 150 anni dell'Unita' d'Italia. Sono soldi da spendere per i cittadini.
Passano mesi e l'ottimismo comincia a vacillare di fronte all'immobilita'
delle istituzioni. La secchiata d'acqua gelata arriva nell'agosto del 2008
quando, alla conferenza dei servizi che riunisce attorno a un tavolo gli
enti competenti per le celebrazioni, viene presentato un progetto
preliminare: 500.000 metri cubi di costruzioni alte fino a 15 metri, strade
carrabili larghe 12 metri, parcheggi a raso e interrati, progetti per un
polo fieristico, per una area mercatale, e altro. Le associazioni cittadine
e il Comitato Macrico si disperano perche' il progetto del parco pubblico si
allontana. E con esso la possibilita' che la citta' di Caserta "si riscatti
dall'illegalita' e dal degrado urbanistico, sociale e ambientale. Sarebbe
paradossale che lo Stato celebrasse, nei momenti tragici che questa terra
attraversa, il proprio anniversario dando un colpo definitivo alle speranze
dei cittadini". Vorrei ricordare che abbattere decine di hangar e caserme
costerebbe moltissimo, piu' che ricostruire ex novo. E poi dove si
getterebbe tutto il materiale distrutto? Assieme agli altri rifiuti, in
fondo a qualche fossa gia' piena di detriti maleodoranti e pericolosi?
L'architettura nuova, lo dicono i grandi studiosi dell'urbanistica moderna,
tende all'intelligente recupero edilizio piu' che alla gettata di nuovo
cemento. La modernita' non sta nel distruggere e ricostruire ma nel
riconoscere il valore del passato, nel rispettarlo e saperlo restituire alla
contemporaneita'.

6. RIFLESSIONE. CLARA JOURDAN: PAROLE MEDITATE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
cl titolo "Ben detto, vescovo di Milano!"]

Come ha riportato con grande evidenza in prima pagina il giornale milanese
di strada "E-Polis" del 13 ottobre 2008, tra altri quotidiani, il cardinale
Tettamanzi, interpellato sulle ultime notizie della salute di Eluana, la
giovane donna in stato vegetativo permanente il cui padre da anni chiede di
interrompere l'alimentazione artificiale, ha risposto: "Sulla trasfusione il
vescovo non interviene, e' una questione che coinvolge medico e paziente".
Non e' la prima volta che il vescovo di Milano si pronuncia in tal senso.
"Ricordo anzitutto che il luogo proprio delle decisioni che riguardano la
cura di un malato e' la relazione personale e fiduciale tra il paziente (se
e' in grado di comunicare con chi lo assiste), i suoi familiari e il
personale medico e infermieristico. E' davvero importante custodire e
proteggere questa relazione", scriveva Dionigi Tettamanzi su "Avvenire" del
12 luglio scorso, in un lungo e sentito articolo di riflessione sulla
vicenda di Eluana Englaro. E aggiungeva: "Dobbiamo poi domandarci: il
rispetto della scienza e della coscienza dei medici e delle responsabilita'
proprie di coloro ai quali e' affidata la cura delle persone non
autosufficienti non esige una giusta discrezione da parte delle autorita'
amministrative e giudiziarie?".
Si', la esige. E non credo si possa dirlo meglio. Le parole usate dal
cardinale sono molto precise e simili a quelle guadagnate dalla politica
delle donne. La relazione o le relazioni che accompagnano la fine della vita
vanno protette come quella che da' inizio alla vita - abbiamo sostenuto su
"Via Dogana" n. 83, dicembre 2007 ("ll si' della donna non si puo'
saltare") - senza interventi decisionali o burocratici che
deresponsabilizzano chi si prende cura delle creature malate. Riteniamo
quindi importante che il cardinale Tettamanzi scelga di esprimersi
pubblicamente in questo modo e che i mass media diano giusto rilievo alla
sua voce. Importante e politicamente significativo per la carica che
ricopre.
Resta una questione. Se la chiara presa di posizione del vescovo di Milano
si trova non su una rivista dissidente ne' in un'intervista carpita o
manipolata, bensi' all'interno di una meditata e articolata riflessione
pubblicata a tutta pagina sul quotidiano della Conferenza episcopale
italiana (e facilmente reperibile in internet), come mai continua a
circolare non smentita l'idea che la gerarchia della Chiesa cattolica
pretende di sapere e di dire come devono comportarsi le persone coinvolte
nelle vicende di questo tipo? A chi giova e a che pro sintetizzare la
posizione ufficiale della Chiesa come sostenitrice del mantenimento in vita
comunque e in ogni caso?

7. LIBRI. PATRIZIA DE VITA PRESENTA "DEL MUTARE DEI TEMPI" DI MARISA RODANO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 luglio 2008 col titolo "Tra
autobiografia e saggio le memorie di Marisa Rodano" e il sommario
"Testimonianze. Del mutare dei tempi, edito da Memori"]

"Ho cominciato a mettere ordine ai miei ricordi, dopo la morte di mio
marito, per elaborare il lutto": cosi' Marisa Rodano spiega la nascita di un
libro molto bello, Del mutare dei tempi (Memori, pp. 380, euro 18), nel
quale, in bilico fra autobiografia, racconto e saggio, ha ripercorso la
"meravigliosa avventura" vissuta insieme al marito Franco - una storia
lunga, la loro, di amore e di condivisione politica. Tanto che la narrazione
viene scandita in due volumi, il primo - quello appena uscito - dedicato
agli anni fra il 1921 e il 1948 ("l'eta' dell'inconsapevolezza e il tempo
della speranza") e il secondo - ancora in fase di stampa - alla esperienza
di Marisa Rodano come parlamentare nazionale ed europea, fino al termine
degli anni '70. Grandi e piccole storie di un secolo, il Novecento, segnato
dalla "progettualita' rivoluzionaria" e "dagli sforzi di liberazione di
immense masse umane emerse per la prima volta alla ribalta della storia".
Questa epoca storica - scrive l'autrice - "si da' il caso che io l'abbia
vista sorgere e, dopo averla vissuta per intero, l'abbia vista tramontare".
Deriva da qui il titolo del libro, questo Del mutare dei tempi che, mutuato
dalla cronaca medievale di Ottone di Frisinga, non potrebbe essere piu'
appropriato. E la constatazione di avere fatto parte di una lunga fase
storica cosi' importante (e per certi versi anche cosi' ingombrante) e
l'aver vissuto il definitivo passaggio da un'era a un'altra (fra tutti il
crollo del Muro di Berlino del 1989 e poi dell'Urss del 1991) non rende
certo piu' facile rievocare il corso degli eventi e i mutamenti storici,
politici e culturali.
Particolarmente interessante e' tuttavia l'angolo visuale proposto
dall'autrice, che le deriva dall'essere donna e dall'appartenere a due
mondi, la chiesa e il partito comunista, vissuti entrambi in modo
eterodosso. "Nella vita di una donna - nota infatti Marisa Rodano - pubblico
e privato costituiscono un continuum, una matassa aggrovigliata che e'
impossibile sciogliere, un tessuto delicato che e' arduo disfare, quasi gli
avvenimenti della vita quotidiana, i dettagli minori avessero la stessa
rilevanza dei grandi eventi". Rievocazioni di avvenimenti, fatti storici,
lotte politiche si intrecciano quindi nel suo racconto insieme a vicende e a
ritratti di vita familiare. Nelle prime pagine l'autrice tratteggia con
efficacia le condizioni in cui all'inizio del secolo scorso le donne
partorivano, allattavano e curavano i figli, afflitte dalle ripetute
gravidanze, dalle violenze dei mariti, dalle continue malattie; per
proseguire nella descrizione di un mondo contadino e di un lavoro che non
c'e' piu', delle lotte per la riforma agraria e delle battaglie coraggiose
delle donne. Trasformazioni del sistema agricolo vissute da Marisa Rodano,
per impegno politico e per vicende familiari, in prima persona, e che con
l'abbandono dei lavori manuali, dalla mietitura alla trebbiatura, si
accompagnano a una profonda trasformazione dell'ambiente. Il passaggio dal
sistema agricolo allo sviluppo industriale, ancora agli albori, elimina la
fatica del duro lavoro ma stravolge anche la bellezza del paesaggio
italiano. Osserva l'autrice: "Ho visto la campagna, ancora, come la vedeva
Ambrogio Lorenzetti quando dipingeva il Buongoverno, ma sono stata l'ultima
generazione a poterla vedere".
Nonostante Marisa Rodano abbia un grande bagaglio di esperienze politiche e
umane da consegnare alle nuove generazioni, il suo libro e' percorso da un
interrogativo di fondo sul significato del ricordo. Da una parte l'autrice
vuole evitare un "ripiegamento sul passato", nel quale vede un indice di
senilita' che le ha sempre prodotto una reazione di fastidio. Dall'altra,
non nasconde la difficolta' di essere obiettiva, dovendo fare i conti con
una "memoria cosi' piena di buchi", una memoria che non sempre si puo'
appoggiare a documenti scritti, perche' quella della lotta antifascista e
clandestina era l'epoca dei "ragni", fogli minuscoli, tali da poter essere
masticati e inghiottiti in caso di necessita', vere ragnatele di segni in
codice contenenti lo schema organizzativo del Partito comunista o delle
norme cospirative.
In Del mutare dei tempi, pero', non mancano importanti avvenimenti storici,
di cui l'autrice fu protagonista. La villa dei Rodano di Porta Latina
divenne fra l'altro, su richiesta di Giorgio Amendola, luogo privilegiato
per le riunioni clandestine del Partito comunista e per la lotta
antifascista a Roma. Nacque li' il lungo e intenso rapporto fra Franco
Rodano e Palmiro Togliatti e sempre li' il gruppo dirigente del Pci apprese
della dura sconfitta del Fronte Popolare e della vittoria della Dc.
Tuttavia, nella mancanza di precisione nei ricordi - per ammissione
dell'autrice - c'e' "un processo di rimozione piu' complesso... volontario".
L'avere vissuto intensamente il presente, la guerra, la lotta partigiana, e
la costante tensione trascinatrice per costruire un futuro diverso, "non
hanno consentito al passato di fissarsi nella mente".
Riflessioni che travalicano il vissuto personale e la vicenda storica,
laddove Marisa Rodano osserva come la memoria, individuale e collettiva, sia
uno strumento formidabile di eliminazione e di trasformazione. In
particolare nella memoria dei singoli non c'e' nulla di oggettivo, di dato,
di fissato: "Fatti, eventi, episodi sono stati rivissuti, ripensati,
trasformati, nel mutare delle situazioni... La memoria seleziona,
abbellisce, imbruttisce, falsifica anche, non nel senso scientifico".
Insomma, "la memoria e' fatta anche di oblio". Se da un lato continuiamo a
coltivare l'idea del conservarci in una memoria collettiva, tendenzialmente
obiettiva, di fatti storici (che vanno sempre alimentati e coltivati,
"vivere per raccontare", secondo Primo Levi); dall'altro, quando ripeschiamo
nei nostri ricordi, compiamo un lavoro introspettivo, vaghiamo nell'intimo,
dove persone e avvenimenti si colorano del nostro modo di sentire, unico,
quasi misterioso. E hanno questo sapore le speranze di cambiamento che
irrompono dalle belle e inconsuete pagine di Marisa Rodano quando, nel
raccontarci di un mondo che non c'e' piu', ci regala la voglia di ripensarne
un altro, nuovo e diverso.

8. LIBRI. ILDE MATTIONI PRESENTA "MESTIERI DI SCRITTORI" DI DARIA GALATERIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 settembre 2008 col titolo "Fatiche
improbe per l'eterno miraggio di vivere scrivendo"]

Daria Galateria, Mestieri di scrittori, Sellerio, Palermo 2008, pp. 215,
euro 12.
*
Di che cosa vivono gli scrittori, quando non scrivono? Alcune risposte le
forniscono i ventiquattro eleganti profili tracciati da Daria Galateria nel
suo ultimo lavoro dedicato, appunto, al "mestiere" di scrivere e di vivere
scrivendo.
Profili che la Galateria fa precedere da un delizioso capitoletto,
significativamente intitolato "Lavori forzati". Come tanti forzati, infatti,
anche quando provenienti da classi agiate, molti scrittori hanno dovuto
confrontarsi con una congerie pressoche' infinita di mestieri spesso
stravaganti e, manco a dirlo, quasi sempre mal pagati.
Per vivere hanno dovuto lavorare, spesso duramente, anche se per tutti - da
Bukovski a Kafka, da London a Celine - la scrittura ha rappresentato
"l'impegno piu' massacrante" e gratificante al tempo stesso. C'e' chi si e'
ritrovato a fare l'industriale, come Italo Svevo "schiacciato" dalle
incombenze dell'azienda, chi - e' il caso di Maksim Gorkij - ha lavorato
come scaricatore sul Volga portando sulle proprie spalle decine e decine di
casse da cento libbre l'una, ma anche chi come Blaise Cendrars o Raffaele
Viviani si e' riciclato come acrobata in un circo. A Ottiero Ottieri e
Nathalie Sarraute invece - rispettivamente "tagliatore di teste" in
un'azienda a Pozzuoli e avvocatessa - la professione assicuro' un certo
agio, ma non garanti' tranquillita' interiore.
Secondo una vecchia, abusata ma purtroppo sempre attuale massima latina
"carmina non dant panem", con poesie e parole non ci si guadagna il pane.
Per conquistarsi il pane, infatti, Bohumil Hrabal sognava di fare il
calciatore. Nel '29 fu addirittura "arruolato" nelle giovanili del Polam
Nymburk, ma non riusci' mai a disputare una intera partita: sul campo di
gioco, sentendosi osservato dagli spettatori, Hrabal arrossiva e le gambe,
improvvisamente, non rispondevano piu' ai suoi comandi. Inconcepibile per un
calciatore. Per pagare il conto delle sue sbronze proverbiali, Hrabal fu
magazziniere e copista, operaio e capostazione ferroviario. I suoi problemi,
pero', finirono dopo il ricorso a una soluzione da sempre molto in voga: il
matrimonio con una ricca ereditiera. Dopo aver sposato Eliska, nel '56, gli
fu possibile tirare a lucido la propria carta di identita'. All'impiegato
dello stato civile che lo incalzava sulla professione da indicare nel
documento, con un misto di orgoglio e apparente indifferenza, senza che
stavolta l'emozione prendesse il sopravvento, Hrabal disse: "metta
semplicemente scrittore".

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 216 del 23 ottobre 2008

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